J.R.R. Tolkien, la vicenda umana di un hobbit del ventesimo secolo

Acuto conservatore ostile a qualsiasi forma di estremismo, sincero cattolico profondamente influenzato da numerosi altri apparati mitico-religiosi, tenace difensore degli alberi contro la società delle macchine: Tolkien è stato questo, e molto di più. Ripercorriamo la vita di uno dei maestri del fantastico contemporaneo nel giorno del suo anniversario.

  di Lorenzo Pennacchi

Articolo originariamente pubblicato su L’intellettuale dissidente e in questa sede riproposto con lievi modifiche.

«Non hanno dunque una fine i grandi racconti?». «No, non terminano mai i racconti», disse Frodo. «Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi…o fra breve».


Di Tolkien abbiamo già scritto su queste pagine. Oggi, nel giorno del suo anniversario, vogliamo ripercorrere distesamente la sua vita. Oltre alle testimonianze dirette del professore, faremo ampio ricorso al volume J.R.R. Tolkien. La biografia di Humphrey Carpenter pubblicato nel 1977. Lo studioso, che aveva conosciuto Tolkien nella primavera del 1967, discutendo con lui su un’apparente contraddizione di un passo de Il Signore degli Anelli, si era già potuto fare una chiara idea del personaggio: «Sembra vedere se stesso non come un autore che abbia commesso un piccolo errore che adesso va corretto o spiegato, ma piuttosto come uno storico che debba gettare nuova luce su documenti oscuri». Del resto, per J.R.R. la fantasia è reale

La raccolta delle lettere tolkieniane, curate da Humphrey Carpenter con l’assistenza di Christopher Tolkien e pubblicate per la prima volta nel 1981, qui tradotte da Lorenzo Gammarelli nell’edizione edita da Bompiani.

John Ronald Reuel nasce a Bloemfontein il 3 gennaio 1892. Suo padre, Arthur Tolkien, aveva ottenuto un posto nella Bank of Africa ed era stato nominato responsabile dell’importante filiale in Sudafrica. Raggiunto dalla sua amata, Mabel Suffield, i due si erano sposati il 16 aprile ‘91. Il 17 febbraio ‘94 Mabel dà alla luce il secondo figlio, Hilary Arthur Reuel, ma le condizioni (perlopiù climatiche) non ottimali a Bloemfontein la spingono a tornare in Inghilterra con i due pargoli. Arthur avrebbe dovuto raggiungerli successivamente, ma così non avviene: a seguito delle febbri reumatiche e della conseguente emorragia muore il 15 febbraio 1896. Pochi mesi dopo, Mabel abbandona la casa dei suoi genitori e si trasferisce con John e Hilary in un’abitazione a buon mercato nel piccolo villaggio di Sarehole, a circa un chilometro di distanza da Birmingham. J.R.R. porterà sempre nel cuore questi anni. In una lettera del 12 dicembre 1955, rispondendo a chi aveva paragonato la Contea (dei suoi amati Hobbit) ad Oxford nord, scrive: 

In realtà è molto più simile a un villaggio del Warwickshire nel periodo intorno al Giubileo di Diamante; che è distante quanto la Terza Era dal deprimente e perfettamente banale agglomerato di case a nord della vecchia Oxford, privo anche di un indirizzo postale. 

A Sarehole il giovane Tolkien inizia ad usare parole dialettali, tipo gamgee (“bambagia”), termine che deriva da un certo dottor Gamgee, inventore di un particolare tipo di tessuto fatto di cotone idrofilo. Inoltre, sviluppa due grandi passioni che risulteranno altrettanto significative da lì a poco: quella per gli alberi (con cui amava stare) e quella per i draghi (attraverso le fiabe di Andrew Lang). Pochi anni dopo, Mabel decide di convertirsi al cattolicesimo, incorrendo nella scomunica da parte della famiglia, in particolare del padre John, un unitario convinto, non in grado di sopportare una figlia papista. Questa decisione porta a vivere lei e i suoi figli in una situazione di grande ristrettezza economica. I tre cambiano casa più volte in questi anni, spostandosi in differenti zone di Birmingham (Moseley, King’s Heath, Oliver Road), ma la tenacia della madre è ammirevole, come John Ronald ribadirà continuamente nella sua vita (definendola anche martire)a partire da una lettera del marzo ’41 al suo primogenito Michael: 

Anche se di nome sono un Tolkien, per gusti, talenti ed educazione sono un Suffield, e ogni angolo di quella contea [Worcestershire] (non importa se bello o squallido) è per me in un modo indefinibile “casa”, come nessun’altra parte del mondo. Tua nonna, alla quale devi così tanto, poiché era una signora dotata di grande bellezza e spirito, molto provata da Dio con dolori e sofferenze, che morì giovane (a 34 anni) di una malattia aggravata dalla persecuzione della sua fede, morì nella casa del postino di Rednal, ed è sepolta a Bromsgrove. 

J.R.R. da giovane.

La precoce morte di Mabel (affetta da diabete) nel 1904 porta i due bambini a vivere dalla zia Beatrice, che dà loro una casa, pasti caldi e poco più nel centro di Birmingham. A giocare un ruolo determinate è invece il loro tutore padre Francis Morgan. In questi anni, J.R.R. inizia a scoprire la sua passione per la filologia. Entrato in contatto con un’introduzione elementare alla lingua gotica «non si accontentò di imparare il linguaggio, ma, per riempire i vuoti dello scarno vocabolario sopravvissuto, cercò di inventare altre parole, e proseguì nell’intento fino a costruire un linguaggio germanico plausibile». Nel corso della sua vita, di lingue Tolkien ne studierà e inventerà molte, interrogandosi profondamente riguardo le sue creazioni. In una lettera di risposta all’Observer del 1938 scriverà: 

E poi, perché scrivo dwarves per i nani? La grammatica vorrebbe dwarfs; la filologia suggerisce che la forma storica sarebbe dwarrows. La vera risposta è che non ho saputo fare di meglio. Ma dwarves sta bene con elves; e in ogni caso elfo, gnomo, orco, nano sono solo traduzioni approssimate dei nomi in elfico antico per esseri che non hanno proprio le stesse caratteristiche e funzioni. 

Nel febbraio ’58, facendo i complimenti al figlio Christopher per una relazione ad Oxford, afferma di aver «improvvisamente capito di essere un filologo puro», realmente emozionato dall’impatto estetico delle parole. Una consapevolezza raggiunta in piena maturità, ma presente fin da sempre. Del resto, in una certa misura, le storie tolkieniane non sono altro che il modo migliore per concretizzare le creazioni a lui più care. 

Edith da giovane.

È sempre in questo periodo che John Ronald conosce Edith Bratt, un’orfana di tre anni più grande di lui. I due si innamorano presto, ma padre Morgan si dimostra contrario a questa relazione clandestina e proibisce al giovane di vedere la ragazza fino a quando non avrà compiuto ventuno anni. È il 1910 e Tolkien ha diciannove anni. Per il ragazzo si prospettano due scelte: ubbidire a quello che per lui è stato un padre o ribellarsi e unirsi alla sua amata. Sceglie la prima. Lo fa straziato nell’animo, con la speranza di potersi ricongiungere ad Edith tre anni dopo. Nell’immediato, si dedica agli studi (che fino a quel momento aveva piuttosto tralasciato) e vince una borsa di studio all’Exeter College di Oxford. Qui nel 1911, assieme a dei suoi compagni, fonda il Tea Club, Barrovian Society, per prendere il tè in compagnia di miti, poesie e musica. Scopre il Kalevala, la raccolta di poemi della mitologia finnica pubblicata solamente nel XIX secolo, che tanto influenzerà la sua produzione (direttamente ne La storia di Kullervo). In una celebre lettera del 1951 all’editore Milton Waldman, Tolkien ritornerà sul legame con le differenti mitologie:

Inoltre, e qui spero di non sembrare assurdo, fin dalla più tenera età sono stato addolorato per la povertà del mio amato paese, che non aveva storie proprie (legate alla sua lingua e alla sua terra), non della qualità che cercavo, e trovavo (come ingrediente) nelle leggende di altre terre. Ce n’erano greche, celtiche, romanze, germaniche, scandinave e finlandesi (che hanno avuto molto effetto su di me); ma nulla di inglese, tranne materiale impoverito per libretti popolari. Naturalmente c’era e c’è tutto il mondo arturiano, ma malgrado la sua forza è naturalizzato imperfettamente, associato con la terra di Bretagna ma non con l’Inghilterra; e non sostituisce quello che a me mancava. 

Durante le vacanze estive del 1911, compie un viaggio in Svizzera ed acquista delle cartoline. Molto tempo dopo, accanto ad una di queste, una riproduzione del dipinto dell’artista tedesco Joseph Madlener intitolato Der Berggeist, scriverà: «origine di Gandalf»

Joseph Madlener, Der Berggeist. Attorno alla datazione dell’opera ci sono molte controversie. Julie Madlener, la figlia dell’artista, ha dichiarato che essa risalisse ad un periodo successivo al 1920 e che quindi non potesse essere stata comprata da Tolkien nel suo viaggio in Svizzera.

Da studente ad Oxford John Ronald è un tipo particolarmente socievole, tanto da partecipare a delle baldorie serali organizzate in giro per la città: «Mettemmo a ‘ferro e fuoco’ la città, la polizia e i prefetti, tutti insieme per circa un’ora», con bravate che tuttavia non portano ad alcun tipo di conseguenze disciplinari. Lentamente si arriva al 1913. J.R.R. ha ventuno anni e può ricongiungersi all’amata. I due si fidanzano ufficialmente l’anno successivo, dopo che Edith è stata accolta nella Chiesa cattolica. Per il giovane Tolkien è un periodo decisamente movimentato, come ricorda in una lettera al figlio Michael riguardo al Santissimo Sacramento: 

Senza laurea, senza soldi, fidanzato. Sopportai la vergogna e le allusioni dei parenti sempre più esplicite, tirai dritto e nel 1915 ottenni il massimo dei voti agli esami finali. Scattai ad arruolarmi: luglio 1915. La situazione era intollerabile e mi sposai il 22 marzo 1916. A maggio attraversai la Manica (ho ancora i versi scritti per l’occasione!) verso la carneficina della Somme. 

L’amore, la guerra e la fede. Non è un caso che, proprio nel 1917, inizi a dare corpo al suo universo mitico con The Book of Lost Tales, il futuro Silmarillion. Secondo Carpenter, questo percorso creativo si deve a tre fenomeni interdipendenti, precedentemente accennati: la passione per le lingue, l’innato sentimento poetico e la volontà di ideare una mitologia per l’Inghilterra. Tutti questi elementi si relazionano tra loro su un sostrato profondamente cattolico

Qualcuno ha riflettuto sulla relazione che intercorre tra le storie di Tolkien e la sua fede cristiana, e ha trovato difficile comprendere come un cattolico osservante possa scrivere di un mondo dove Dio non è adorato. Ma un simile mistero non esiste: Il Silmarillion è l’opera di un uomo profondamente religioso, che non contraddice il proprio sentimento cristiano, ma lo completa. Nelle leggende non c’è alcuna adorazione di Dio, eppure Dio è sicuramente lì, più esplicitamente nel Silmarillion che nell’altro suo lavoro, Il Signore degli Anelli, le cui radici affondano nel primo. 

La Biografia del professore tratteggiata da Carpenter.

Tra il 1918 e il 1929 i coniugi Tolkien hanno quattro figli (John, Michael, Christopher e Priscilla) e John Ronald compie una poderosa ascesa nel mondo accademico diventando prima lettore di Lingua inglese all’Università di Leeds, poi professore di lingua inglese sempre presso quell’ateneo e infine, nel ’25, titolare della cattedra Rawlinson and Bosworth di Studi anglosassoni a Oxford, dove si trasferisce presto tutta la famiglia. Gli studenti ammirano le sue lezioni e la sua dedizione all’insegnamento è encomiabile, con una quantità di ore settimanali e corsi annuali nettamente superiore alla media. Particolarmente appassionanti sono le sue lezioni sul Beowulf, soprattutto quelle di apertura del corso: 

Entrava nell’aula in silenzio, fissava l’uditorio e improvvisamente, a gran voce, cominciava a declamare i primi versi del poema, nella versione originale in anglosassone, esordendo con un grido: Hwaet, che è la prima parola di questo e di altri poemi in antico inglese, ma che alcuni studenti prendevano come un invito a fare silenzio, confondendolo con la moderna esclamazione inglese Quiet!

Nello stesso periodo fonda i Coalbiters, un’associazione di lettura informale di miti nordici costituita da tutti docenti universitari, e diviene grande amico di Clive Staples Lewis, facendolo peraltro convertire al cristianesimo (ma non al cattolicesimo, visto che aderirà alla chiesa anglicana). Agli inizi degli anni Trenta, con Lewis e altri colleghi, costituisce gli Inklings, «un gruppo di amici, tutti uomini, tutti cristiani, e tutti per un verso o per l’altro interessati alla letteratura», come li definisce Carpenter. 

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Alcuni dei membri degli Inklings. Da sinistra: Tolkien, Lewis, Owen Barfield (avvocato londinese tra i primi partecipanti del gruppo) e Charles Williams (narratore, poeta, teologo e critico).

Proprio durante queste riunioni, Tolkien legge ai suoi amici le parti di un manoscritto ancora inedito, iniziato in un giorno d’estate quando, nel correggere il compito di un candidato, aveva scritto su una pagina lasciata bianca: «In un buco nel terreno viveva uno Hobbit». Anni dopo, Tolkien espliciterà il suo legame con queste creature: 

In realtà sono uno hobbit, in tutto tranne che nella statura. Amo i giardini, gli alberi e le fattorie non meccanizzate; fumo la pipa e apprezzo il buon cibo semplice (non surgelato), e detesto la cucina francese; mi piacciono, e oso persino indossarli anche in questi giorni cupi, i panciotti ornati. Vado matto per i funghi (raccolti nei campi); ho un senso dell’umorismo molto semplice (che anche i miei critici più entusiasti trovano noioso); vado a letto tardi e mi alzo tardi (quando mi è possibile). Non viaggio molto. 

Lo Hobbit viene pubblicato il 21 settembre 1937. È un successo di critica, con la prima edizione a ruba ed esaurita nel giro di Natale. Già in ottobre, l’editore Stanley Unwin, presidente della Allen & Unwin, sonda il terreno per un suo possibile seguito. Tolkien risponde così: «Non riesco a pensare ad altro da dire sugli hobbit. Il sig. Baggins sembra aver mostrato pienamente tanto il lato Tuc quanto quello Baggins della sua natura. Ma ho ancora molto da dire, e molto ho già scritto, sul mondo in cui gli hobbit si sono insinuati». Questo perché, quello che era iniziato come un racconto per puro piacere personale, nel tempo si era sempre più legato all’immaginario mitico tolkieniano (del tutto inedito all’epoca), pur restando una storia per bambini. Di fatto, la vicenda di Bilbo è piuttosto leggera, ma in un contesto decisamente complesso e ancora tutto da rivelare

L’illustrazione di David Wenzel per la prima copertina dell’adattamento a fumetti de Lo Hobbit scritto da Charles Dixon.

Nel marzo 1939, Tolkien tiene una conferenza alla St. Andrews University dal titolo Sulle Fiabe, che fa parte della raccolta Il medioevo e il fantastico, curata dal figlio Christopher ed edita nel 1983. Questa è l’occasione per definire meglio la sua visione del fantastico, concepito non solamente come mezzo di riscoperta, evasione e consolazione, ma anche e soprattutto in riferimento alla fantasia intrinsecamente legata alla realtà, rintracciabile nella connessione tra mondo primario e mondo secondario realizzata attraverso l’autentica arte sub-creativa:

Che le immagini si riferiscano a cose che non appartengono al Mondo Primario (se davvero ciò è possibile) è una virtù, non un vizio. La Fantasia in questo senso è, credo, non una forma inferiore ma una forma più elevata di Arte, invero la forma più prossima alla purezza e dunque (quando viene raggiunta) quella più potente. Naturalmente la Fantasia ha dalla sua un vantaggio: quella stranezza che attrae. Ma questo vantaggio è stato volto contro di lei, e ha contribuito alla sua cattiva reputazione. […] Creare un Mondo Secondario all’interno del quale il sole verde possa essere credibile, imponendo la Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e sicuramente avrà bisogno di una particolare abilità, una sorta di maestria elfica. Pochi tentano imprese così difficili. Ma quando queste imprese vengono tentate e quando sono in una certa misure riuscite, allora abbiamo una rara conquista artistica: della vera narrativa, l’elaborazione di una storia nella sua modalità primaria e più potente. 

Il medioevo e il fantastico nell’edizione italiana edita da Bompiani e curata da Gianfranco de Turris. Il volume comprende sette contributi tolkieniani, tra cui Beowulf: mostri e critici e Galvano e il cavaliere verde.

Poco dopo, scoppia la guerra. Se il primo conflitto mondiale, John Ronald l’aveva vissuto sul campo da giovane sposo, il secondo lo subisce da casa nelle vesti di padre. Le lettere ai suoi figli appena arruolati sono ricche di pathos e di indicazioni sul suo pensiero politico. A Michael, diventato cadetto ufficiale al Royal Military College di Sandhurst, il 9 giugno ’41 scrive: 

La gente in questo paese sembra non realizzare che nei tedeschi abbiamo dei nemici le cui virtù (e sono virtù) di obbedienza e patriottismo superano le nostre nella massa. I cui uomini coraggiosi sono almeno altrettanto coraggiosi dei nostri. La cui industria è 10 volte maggiore della nostra. E che ora sono, sotto la maledizione di Dio, guidati da un uomo ispirato da un pazzo demone vorticoso; un tifone, una passione, che fanno sembrare il vecchio Kaiser una vecchietta che fa la calza. […] Nell’ideale “germanico” c’è molta più forza (e verità) di quanto la gente ignorante immagini. […] ho in questa guerra un bruciante rancore personale, che probabilmente farebbe di me un soldato migliore a 49 anni di quanto lo fossi a 22, contro quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler […]. Ha rovinato, pervertito, abusato e reso per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e provato a presentare nella sua vera luce. 

I maestosi Argonath raffigurati da Denis Gordeev.

In una delle molte corrispondenze con Christopher, arruolatosi nella RAF, nel dicembre ’43 prende la questione da una prospettiva del tutto diversa. Dopo aver qualificato Josef Stalin come «quel vecchio assassino assetato di sangue», si chiede «se rimarrà qualche nicchia, anche di tolleranza, per reazionari arretrati come me (e te). Più le cose diventano grandi, più il mondo diventa piccolo e monotono o piatto», concludendo con «Seriamente: trovo questo americo-cosmopolitismo veramente terrificante». È solamente l’inizio di una serie di esplicite invettive antimoderne. La condanna della radio, del jazz, delle grandi automobili e dei «grandi amalgami standardizzati con le loro nozioni ed emozioni prodotti in massa» portano, il 6 ottobre ’44, all’invocazione di un intervento mitico: «Se un ragnarök bruciasse tutti i bassifondi e le stazioni di servizio, e gli squallidi garage e i sobborghi illuminati da lampade ad arco, per me potrebbe anche bruciare tutte le opere d’arte, e io tornerei agli alberi». La condanna della guerra, della stampa e dell’atomica non è affatto più moderata. In tutti i campi: «Stiamo tentando di sconfiggere Sauron usando l’Anello. E (sembra) ci riusciremo. Ma il prezzo da pagare sarà, come sai, la generazione di nuovi Sauron, e la lenta trasformazione di Uomini ed Elfi in Orchi». Per concludere nel maggio ’45:

I miei sentimenti sono più o meno quelli che Frodo avrebbe se scoprisse che alcuni Hobbit stanno imparando a montare le bestie volanti dei Nazgûl «per liberare la Contea». Anche se in questo caso, poiché tutto quel che so dell’imperialismo inglese o americano nell’estremo oriente mi riempie di rammarico e disgusto, temo di non essere sostenuto neanche da una scintilla di patriottismo in questa guerra restante. 

Tolkien è sempre stato un amante e difensore degli alberi. In una lettera del 30 giugno 1972 scrive: «In tutta la mia opera io prendo le parti degli alberi contro i loro nemici.

L’uso di questo tipo di linguaggio va compreso alla luce del fatto che J.R.R., in pieno conflitto mondiale, sta lavorando al grande seguito de Lo Hobbit e, anche a distanza, Christopher ricopre la posizione di pubblico e critico. Appena terminata la guerra, Tolkien viene nominato titolare della cattedra Merton di Lingua e letteratura inglese a Oxford e nel 1949 esce il racconto breve Il cacciatore di draghi. Ma, soprattutto, termina Il Signore degli Anelli, accelerando i contatti con Stanley Unwin per un’immediata pubblicazione. L’idea di J.R.R. è semplice: Il Signore degli Anelli deve essere pubblicato assieme a Il Silmarillion, che rappresenta l’apparato mitico-storico entro cui è inquadrato. La risposta degli Unwin (padre e figlio) lo prende alla sprovvista. I due sono, infatti, intenzionati a pubblicare per il momento solamente il SdA («un grandissimo libro») e non Il Silmarillion, non avendo avuto il bisogno di servirsene durante la lettura. Il 14 aprile ’50 Tolkien esige, in modo chiaro e definitivo, «una decisione sì, o no: alla proposta che ho fatto, e non a qualche possibilità immaginata». Della serie: o i due libri escono assieme, o non se ne fa nulla. La risposta degli editori è no. A seguito del rifiuto della Allen & Unwin, sul finire del ’51, Ronald scrive una lunghissima lettera a Milton Waldman della Collins, il quale già nella primavera del ’50 gli aveva promesso la pubblicazione di entrambi i testi. Tuttavia, nella primavera del ’52, la Collins, spaventata dalla lunghezza dei volumi, decide di rifiutarli definitivamente. Sembra essere la fine del sogno tolkieniano. Eppure, pochi giorni dopo, Rayner Unwin scrive a John Ronald per chiedere informazioni riguardo la sua poesia Errantry e sul progresso della pubblicazione delle due grandi opere. Nella risposta si legge: 

Tuttavia ho decisamente modificato il mio punto di vista. Meglio qualcosa che niente! Anche se per me sono un tutt’uno, e il Signore degli Anelli sarebbe molto migliore (e più facile) come parte del tutto, prenderei in considerazione volentieri la pubblicazione di una qualche parte del materiale.

Gandalf il Bianco si rivela ad Aragorn, Legolas e Gimli. Illustrazione di Ted Nasmith.

Le parti hanno finalmente un accordo, ma il lavoro è tutt’altro che concluso. Del resto, pubblicare un libro di quella mole, presenta grandi difficoltà. Alla fine si decide, per pure ragioni editoriali, di suddividere l’opera in tre volumi e di farli uscire separatamente. Tolkien specifica che non si tratta di una trilogia, in quanto «la storia è concepita come un tutt’uno e l’unica divisione naturale sono i “libri” I-VI». Il 29 luglio 1954 esce La Compagnia dell’Anello, a novembre Le Due Torri e, nell’ottobre ’55, Il Ritorno del Re, con le tanto agognate Appendici. In una lettera del dicembre ’53 all’amico padre Robert Murray, che aveva letto parte del libro in bozze rimanendone entusiasta, Tolkien aveva rivelato: 

Ovviamente Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica; all’inizio lo è stata inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. […] In realtà ho pianificato consapevolmente ben poco; e soprattutto dovrei essere grato di essere stato educato (da quando avevo otto anni) in una Fede che mi ha rafforzato e mi ha insegnato tutto quel poco che so; e questo lo devo a mia madre, che restò fedele alla sua conversione e morì giovane, in gran parte a causa delle privazioni causate dalla povertà che ne era derivata. 

Il SdA rappresenta dunque il compimento del percorso di una vita attraverso la creazione di una moderna mitologia per l’Inghilterra (amputata del fondamentale Silmarillion) in cui «il conflitto essenziale non riguarda la “libertà”, anche se è naturalmente compresa. Riguarda Dio, e il Suo diritto esclusivo agli onori divini». Sempre a padre Murray in riferimento al libro, J.R.R. aveva confessato di aver «esposto il mio cuore, affinché lo colpiscano». Alla sua pubblicazione, tolte alcune eccezioni, le recensioni «sono molto meglio di quanto temessi». Tra tutte, spicca quella di C. S. Lewis (col quale i rapporti si erano raffreddati da tempo) al primo volume per Time & Tide: 

Questo libro è un fulmine a ciel sereno. Dire che in un periodo quasi patologico nel suo antiromanticismo come il nostro, è ritornata la poesia eroica, bucolica, eloquente e audace, risulta inadeguato. Per noi che in questo strano periodo ci viviamo, tale ritorno – e il genuino conforto che ne deriva – è senza ombra di dubbio, un elemento importante. Ma nella storia del romanzo che guarda indietro fino all’Odissea e ancora più in là, questo non è un semplice ritorno, ma piuttosto un passo avanti, una rivoluzione: la conquista di nuovi territori. 

Gandalf il Bianco cavalca Ombromanto alla volta di Minas Tirith. Illustrazione di Alan Lee.

Nel giro di pochi anni, l’opera viene tradotta in più lingue (la prima è l’olandese), vince premi e fa di J.R.R. un autore di fama internazionale. Nel 1965 nasce negli Stati Uniti il primo Tolkien Club, che diverrà poi la Tolkien Society of America e nel ’68 è la volta della British Tolkien Society. Alla fine del ’66 «a Yale la trilogia sta vendendo più rapidamente di quanto non facesse Il signore delle mosche di William Golding nel suo momento migliore. A Harvard sta superando di gran lunga Il giovane Holden di J.D. Salinger». Un vero e proprio culto a cui John Ronald si relaziona discretamente, rispondendo alle lettere dei suoi lettori, in cerca di chiarimenti e approfondimenti. Alla positiva recensione di W. H. Auden sul New York Book Review, risponde con delle note (non inviate) estremamente interessanti, tornando su argomenti trattati in precedenza: «Io ho una mentalità storica. La Terra di Mezzo non è un mondo immaginario; il nome è la forma moderna (apparsa nel XIII secolo e ancora in uso) di midden-erd > middel-erd, un antico nome per l’oikoumenē, la dimora degli uomini, il mondo oggettivamente reale, contrapposto nell’uso specificamente ai mondi immaginari (come il Paese delle favole) o invisibili (come Paradiso e Inferno)». È invece pubblica la risposta del 17 novembre 1957 a Herbert Schiro su un tema che continua ad attanagliare gli appassionati tolkieniani: 

Nella mia storia non c’è “simbolismo” o allegoria consapevole. Le allegorie del tipo “cinque stregoni = cinque sensi” sono del tutto estranee al mio modo di pensare. C’erano cinque stregoni, ed è solamente un aspetto della storia. Chiedere se gli Orchi “sono” i comunisti, per me ha senso come chiedere se i comunisti sono Orchi. Il fatto che non ci sia allegoria non significa, ovviamente, che non ci sia applicabilità. Quella c’è sempre. E comunque non ho reso lo scontro del tutto inequivocabile: accidia e stupidità fra gli Hobbit, orgoglio fra gli Elfi, rancore e avidità nei cuori dei Nani, follia e malvagità fra i “Re degli uomini”, tradimento e brama di potere perfino fra gli “Stregoni”; suppongo che la mia storia sia applicabile ai nostri tempi. Tuttavia, se mi viene chiesto, direi che la storia non riguarda il Potere e il Dominio, che si limitano a mettere in moto gli eventi; riguarda piuttosto la Morte, e il desiderio di immortalità. Ma questo vuole solo dire che è stata scritta da un Uomo!

Eppure, quando serve, John Ronald sa abbandonare i panni da gentiluomo hobbit e indossare quelli da guerriero nanico. Al critico Edwin Muir, che il 27 novembre ’55 aveva paragonato i personaggi del Ritorno del Re a dei «bambini travestiti da eroi adulti» che non sanno nulla sulle donne, risponde seccamente: «Accidenti a Edwin Muir e alla sua adolescenza ritardata. È abbastanza vecchio da non essere così ingenuo. Gli farebbe bene sentire cosa le donne pensino del “sapere sulle donne”, specialmente come prova di maturità mentale». Nel mentre, Il Signore degli Anelli a parte, la sua vita subisce dei mutamenti. Dalla fine di luglio alla metà di agosto del 1955 visita l’Italia con la figlia Priscilla. Rimasto entusiasta degli affreschi di Assisi e del Rigoletto a Venezia, scrive a Christopher e alla sua prima moglie Faith: «Sto tenendo un diario scritto a macchina. Rimango innamorato dell’italiano, e mi sento perso senza un’occasione di provare a parlarlo! Dobbiamo praticarlo». 

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Tom Bombadil illustrato da Craig Jarman.

Nel ’59 abbandona definitivamente l’insegnamento. Come riporta Carpenter, nel discorso di congedo tenuto nella Merton College Hall alla fine della sua ultima sessione estiva, si scaglia contro alcune involuzioni sempre più presenti ad Oxford (adesso frequentata da una generazione perlopiù meno socievole e cristiana della precedente) come la ricerca post-laurea, definita «la degenerazione della vera curiosità e dell’entusiasmo in un’economia pianificata, nella quale un’enorme quantità di tempo riservato alla ricerca viene insaccata in un budello più o meno standardizzato, e poi trasformata in salsicce dalla taglia e della forma prescritte dal nostro piccolo ricettario codificato», per poi congedarsi al folto pubblico con la sua canzone elfica di addio, il Namárië. Tra il ’62 e il ’67 vengono pubblicate numerose sue opere (Le avventure di Tom Bombadil, Albero e foglia e Fabbro di Wootton Major) e vengono ristampate le più celebri in differenti edizioni. Il 12 settembre ’65 si trova a dover rispondere in modo stizzito alla Ballantine Books, prima editrice americana economica autorizzata de Lo Hobbit, in merito alla copertina che rappresentava un leone, due emù e un albero con frutti bulbosi: 

 Io penso che la copertina sia brutta; ma riconosco che l’obiettivo principale della copertina di un’edizione economica sia attirare i compratori, e suppongo che voi siate migliori giudici di ciò che attira negli USA di quanto sia io. Quindi non aprirò una discussione sul gusto (intendo, anche se non l’ho detto: colori orribili e scritte disgustose) ma sul disegno devo chiedervi: cosa ha a che fare con la storia? Di che luogo si tratta? Perché un leone e gli emù? E cos’è la cosa sullo sfondo con i bulbi rosa? Non capisco come chiunque abbia letto il racconto (spero per voi che siate fra quelli) potesse pensare che un disegno simile sarebbe piaciuto all’autore.

Nel 1963 la vita di Tolkien viene sconvolta da un doloroso lutto: il 22 novembre, all’età di sessantaquattro anni, si spegne C. S. Lewis. Come accennato, i rapporti tra i due negli anni erano andati raffreddandosi (a causa di opinioni contrastanti e fraintendimenti vari), eppure il profondo legame d’affetto (quasi fraterno) era rimasto. Scrive alla figlia pochi giorni dopo: «Fino adesso ho provato le normali sensazioni di un uomo della mia età, come un vecchio albero che perda tutte le sue foglie una a una; questo è stato più simile a un colpo d’ascia vicino alle radici».  

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Barbalbero con Merry e Pipino nell’illustrazione di Alan Lee.

Qualche anno dopo da questa dipartita, ne arriva un’altra, ancora più drammatica. I coniugi Tolkien si erano trasferiti a Pool (vicino Bournemouth) nel 1968. Edith era malata da tempo, come attestano le lettere, e verso la metà di novembre del ’71 contrae un’infiammazione alla cistifellea. Dopo giorni di tormentata malattia, muore la mattina di lunedì 29, all’età di ottantadue anni. Dopo di mesi di grande sconforto, nel luglio ’72 scrive a Christopher di essersi dato finalmente da fare per l’iscrizione della sua tomba. Sotto al nome completo e alle rispettive date, Ronald scrive Lúthien, «perché lei era (e sapeva di essere) la mia Lúthien», continuando: 

   Io non ho mai chiamato Edith Lúthien, ma ella era la sorgente della storia che col tempo divenne la parte principale de Il Silmarillion. Fu concepita per la prima volta in una piccola radura in un bosco piena di cicute a Roos nello Yorkshire […] A quei tempi i suoi capelli erano corvini, la sua pelle chiara, i suoi occhi più luminosi di quanto tu li abbia mai visti, e sapeva cantare, e danzare. Ma la storia è finita male, e sono rimasto io, e io non posso implorare l’inesorabile Mandos. 

In questo ritratto si è deciso di non concentrarsi direttamente sull’opera e di conseguenza non sono state offerte spiegazioni tecniche sulle creazioni tolkieniane. Non si comincerà a farlo ora, ma vogliamo comunque presentare uno degli estratti più toccanti di tutta la produzione del professore inglese, tratto dal XIX capitolo de Il Silmarillion:

Il canto di Lúthien al cospetto di Mandos fu il più bello che mai sia stato contesto in parole, il canto più triste che mai il mondo udrà. Immutato, imperituro, ancora lo si canta in Valinor, inaudibile al mondo, e ad ascoltarlo i Valar si rattristano. Ché Lúthien intrecciò due temi di parole, quello del dolore degli Eldar e quello della pena degli Uomini, le Due Stirpi che sono state fatte da Ilúvatar per dimorare in Arda, il Regno della Terra tra le innumerevoli stelle. E mentre gli stava inginocchiata davanti, le lacrime cadevano sui piedi di Mandos come pioggia sulle pietre; e Mandos fu mosso a pietà, come mai era stato prima né mai è stato in seguito. 

Ragion per cui convocò Beren e, proprio come Lúthien aveva detto al momento della morte di lui, essi tornarono a incontrarsi di là dal Mare Occidentale. Mandos però non aveva il potere di trattenere gli spiriti degli Uomini che morivano entro i confini del mondo, dopo il tempo della loro attesa; né poteva mutare i destini dei Figli di Ilúvatar. Andò pertanto da Manwë, Signore dei Valar, che comandava il mondo per mandato di Ilúvatar; e Manwë chiese consiglio al suo pensiero più intimo, dove la volontà di Ilúvatar si rivelava. 

E queste sono le scelte che egli offrì a Lúthien. A cagione delle sue fatiche e del suo dolore, sarebbe stata liberata da Mandos, per andare a Valimar e quivi dimorare sino alla fine del mondo tra i Valar, dimenticando tutte le pene che aveva sopportato in vita. Lì però Beren non poteva recarsi, non essendo permesso ai Valar di esimerlo dalla Morte, la quale è il dono fatto da Ilúvatar agli Uomini. L’altra scelta invece era questa: che essa potesse tornare nella Terra di Mezzo portando con sé Beren, per abitarvi ancora, ma senza alcuna certezza né di vita né di gioia. E sarebbe divenuta mortale, e soggetta a un secondo decesso, esattamente come lui; e allora avrebbe lasciato il mondo per sempre, e della sua bellezza sarebbe rimasta soltanto memoria nei canti. 

Fu questa la sorte che Lúthien scelse, voltando le spalle al Reame Beato e rinunciando a tutte le pretese di parentela con coloro che vi dimoravano; perché in tal modo, quale che fosse il dolore che potesse attenderli, i destini di Beren e di Lúthien sarebbero stati uniti e i loro sentieri li avrebbero condotti assieme di là dai confini del mondo. E così fu che, unica tra tutti gli Eldalië, Lúthien morì per davvero, e già molto tempo fa ha abbandonato il mondo. Ma, grazie alla sua scelta, le Due Stirpi si sono trovate a essere congiunte; ed essa è l’antesignana di molti nei quali gli Eldar tuttora intravedono, benché il mondo sia completamente mutato, il sembiante di Lúthien la beneamata, colei che essi hanno perduto. 

Inutile aggiungere altro su cosa significasse, per Ronald-Beren Tolkien, identificare la sua amata in Lúthien. 

Beren e Lúthien raffigurati da Alan Lee.

Nel ’72 Tolkien torna ad Oxford, dove riceve il dottorato onorario in Lettere. Sistematosi in un appartamento in Merton Street, mantiene frequenti rapporti epistolari con i suoi stimatori, editori e familiari. Martedì 28 agosto ‘73 va a trovare degli amici a Bournemouth. Pochi giorni dopo, a causa di alcuni malori, viene ricoverato in una clinica privata dove gli viene diagnosticata un’ulcera gastrica perforante acuta. Racconta Carpenter: 

Tutto accadde così rapidamente, mentre Michael era in vacanza in Svizzera e Christopher in Francia, che nessuno dei due riuscì a raggiungere il suo capezzale; solo John e Priscilla arrivarono a Bournemouth in tempo per vederlo e stare con lui. Inizialmente la prognosi sulle sue condizioni di salute fu ottimistica, ma sabato si sviluppò un’infezione polmonare e domenica mattina, il 2 settembre 1973, morì all’età di ottantun anni.

Tre anni dopo la sua morte, Christopher Tolkien cura la prima opera postuma del padre, le Lettere di Babbo Natale. L’anno successivo spetta al tanto agognato Silmarillion, del quale J.R.R. non era riuscito a dare una versione definitiva. Nonostante la pubblicazione del punto nevralgico della sua mitologia, il lavoro è tutt’altro che concluso. Tra il 1980 e il 1983 vede la luce la triade Racconti incompiuti, Racconti ritrovatie Racconti perduti, che permette di rileggere, approfondire e problematizzare alcune delle vicende trattate nelle grandi opere tolkieniane. Nella prima introduzione ai Racconti ritrovati, edita in Italia da Rusconi nel 1983, Christopher affronta questo aspetto attraverso le parole del professor Randel Helms: 

Chiunque come me si interessi alla crescita de Il Silmarillion desidererà studiare i Racconti incompiuti, non solo per il loro valore intrinseco, ma anche in quanto il loro rapporto con il primo libro offre un esempio, destinato a divenire classico, di un problema di vecchia data nella critica letteraria: che cos’è, veramente, un’opera di letteratura? È quella che voleva (o avrebbe voluto) l’autore, o è il risultato dell’opera di un autore successivo? Il problema diventa particolarmente spinoso per il critico quando, come è accaduto con Il Silmarillion, uno scrittore muore prima di terminare un’opera e lascia diverse versioni di alcune sue parti, che poi vengono pubblicate altrove. A quale versione si rivolgerà il critico come alla storia «vera»?

La compagnia dell’anello nel film animato del 1978.

Questa condizione viene tuttora enfatizzata dalla continua pubblicazione diframmenti in forme nuove (come la vicenda di Beren e Lúthien), di testi inediti (come La Caduta di Artù) e dall’incalcolabile numero di contributi critici in merito. Strattford Caldecott ne Il fuoco segreto. La ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien sviscera compiutamente l’apparato mitico-religioso del professore inglese. Nel recente lavoro dei professori statunitensi Matthew Dickerson e Jonathan Evans, Ents, Elves and Eriador. The environmental vision of J.R.R. Tolkien, vengono analizzate la gran parte delle connotazioni ecologiche relative alla sua opera. La Società tolkieniana italiana ha addirittura realizzato un Dizionario per accompagnare le letture. L’universo creato da Tolkien è entrato a far parte dell’immaginario collettivo attraverso (video)giochi, film e serie tv. Dopo l’acclamata trilogia di Peter Jackson de Il Signore degli Anelli e la decisamente meno riuscita de Lo Hobbit, nonché la pellicola biografica diretta da Dome Karukoski, Amazon sta lavorando ad un colossale progetto che vedrà la luce prossimamente. Già in vita, Tolkien aveva assistito ad una drammatizzazione radiofonica de il Signore degli Anelli, andata in onda sul Terzo Programma della BBC, fra il 1955 e il 1956, esprimendosi così in una lettera: «Ritengo che il libro sia poco adatto a essere “drammatizzato”, e non mi è piaciuta la trasmissione anche se sono migliorati». Poco dopo si era opposto, con una lettera del giugno ’58, all’adattamento cinematografico dell’opera, presentando un’interminabile lista di commenti al soggetto, tanto da sfiduciarne la produzione. La prima realizzazione arrivò solamente nel ’78. Il film animato, diretto da Ralph Bakshi, nonostante i suoi pacchiani errori (o forse proprio per quelli!) e la sua incompiutezza (la pellicola termina dopo Il fosso di Helm e non ha un seguito), costituisce un prodotto a cui il mondo tolkieniano è positivamente legato. 

Frodo e Sam sulle pendici del Monte Fato nell’illustrazione di Andrea Piparo.

Siamo giunti al termine di questo viaggio. Nella descrizione delle numerose tappe della vita di colui che si identificava come un hobbit, sono state tralasciate molte, troppe informazioni significative, per avere una panoramica completa di chi J.R.R. Tolkien è stato e di cosa rappresenti oggi. Quello che ci auguriamo è di essere riusciti a far emergere, accanto alle convinzioni essenziali, i percorsi paralleli di questo autore, il quale, in tutta la sua umanità, ha saputo creare un mondo secondario estremamente complesso, invitandoci ad affrontare le sfide reali con fede, tenacia e speranza

E lì Sam, sbirciando fra i lembi di nuvole che sovrastavano un’altra vetta, vide una stella bianca scintillare all’improvviso. Lo splendore gli penetrò nell’anima, e la speranza nacque di nuovo in lui. Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che l’Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi erano eterna luce e splendida bellezza. 

3 commenti su “J.R.R. Tolkien, la vicenda umana di un hobbit del ventesimo secolo

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