Il “Mulino di Amleto”: la lingua arcaica del mito e la struttura del tempo

Il 30 maggio 1902 nacque a Roma Giorgio De Santillana, autore insieme alla studiosa tedesca Hertha von Dechend dell’opera-base dell’astroteologia moderna: “Il mulino di Amleto: saggio sul mito e sulla struttura del tempo”, pubblicato alla fine degli anni Sessanta. Per l’occasione, ne riportiamo integralmente l’introduzione.

di Giorgio De Santillana

Introduzione a Il mulino di Amleto (1969)

Questo lavoro intende essere semplicemente un saggio: una prima perlustrazione di un regno quasi mai esplorato e registrato sulle carte. Da qualunque parte vi si penetri, si rimane prigionieri della stessa sconcertante complessità circolare, come all’interno di un labirinto: esso non possiede, infatti, un ordine deduttivo in senso astratto, ma assomiglia piuttosto α un organismo tenacemente racchiuso in sé o, meglio ancora, α una monumentale «Arte della fuga». La figura di Amleto come punto di partenza propizio si presentò per caso. Molte altre vie si offrivano, ricche di simboli strani e allettanti per le loro immagini grandiose; ma la scelta cadde, su Amleto perché fu lui α guidare la mente in una ricerca veramente induttiva attraverso un paesaggio familiare – un paesaggio che, oltretutto, ha il merito della sua ambientazione letteraria. Abbiamo, in Amleto, un personaggio presente nel fondo della nostra consapevolezza, le cui ambiguità e incertezze, la cui tormentata introspezione e spassionata penetrazione intellettuale presagiscono lo spirito moderno. Il suo dramma è stato di dover essere un eroe cercando al tempo stesso di sottrarsi al ruolo assegnatogli dal Destino. Il suo lucido intelletto è rimasto al di sopra del conflitto dei moventi: la sua, insomma, era ed è una coscienza veramente contemporanea.

Eppure questo personaggio, che il poeta ha reso uno di noi, il primo degli intellettuali infelici, nascondeva un passato di essere leggendario con lineamenti predeterminati, preformati da miti annosi. Amleto era circondato da un’aura numinosa, a lui conducevano molti indizi. Fu tuttavia una sorpresa trovare dietro la maschera una potenza cosmica antica che tutto abbracciava: l’originario signore della vagheggiata prima età del mondo. Eppure, in tutti i suoi aspetti egli è rimasto stranamente se stesso. L’Amlόδi originale – tale era il suo nome nella leggenda islandese – manifesta le stesse caratteristiche di malinconia e di elevato intelletto; anch’egli è un figlio votato alla vendetta del padre, un proferitore di enigmatiche ma inevitabili verità, uno sfuggente portatore di Fato che, una volta compiuta la sua missione, deve cedere le armi e ridiscendere nell’occultamento degli abissi del tempo ai quali appartiene: Signore dell’Età dell’Oro, Re nel Passato e nel Futuro. Questo saggio ne seguirà la figura in regioni sempre più lontane, da quelle nordiche a Roma, da lì alla Finlandia, all’Iran e all’India; lo ritroverà in modo inequivocabile nelle leggende polinesiane. Molte altre Dominazioni e Potestà si materializzeranno per inquadrarlo nel giusto ordine.

Nelle rozze e vivide immagini delle popolazioni scandinave Amlόδi si distingueva per il possesso di un mulino favoloso dalla cui macina ai suoi tempi uscivano pace e abbondanza. Più tardi, in tempi di decadenza, il mulino macinò sale; ora infine, essendo caduto in fondo al mare, macina le rocce e la sabbia creando un vasto gorgo, il Maelstrom («la corrente che macina», dal verbo mala, «macinare»), ritenuto una delle vie che conducono alla terra dei morti. Questo nucleo di immagini, come rivela una serie di fatti, rappresenta un processo astronomico, lo spostamento secolare del sole attraverso i segni dello zodiaco che determina le età del mondo, assommanti ciascuna a migliaia di anni. Ogni età porta con sé un’Era del mondo, un Crepuscolo degli Dei: le grandi strutture crollano, vacillano i pilastri che sostenevano la grande fabbrica, diluvi e cataclismi annunziano il plasmarsi di un mondo nuovo. Altrove, l’immagine del mulino e del suo proprietario ha ceduto il posto a immagini più sofisticate, più aderenti agli eventi celesti. Nella mente grandiosa di Platone, la figura si stagliava come il Dio Artefice, il Demiurgo, che ha plasmato i cieli; ma neppure Platone sfuggì all’idea che aveva ereditato, di catastrofi e di una periodica ricostruzione del mondo.

La tradizione dimostrerà che le misure di un nuovo mondo dovevano essere tratte dalle profondità dell’oceano celeste e intonate alle misure provenienti dall’alto, dettate da quelli che in India e altrove sono chiamati i «Sette Sapienti», e che sono poi le Sette Stelle dell’Orsa, punto di riferimento obbligato in tutti gli allineamenti cosmologici sulla sfera stellata. Queste stelle dominatrici dell’estremo Nord sono legate in modo singolare ma sistematico con quelle che vengono considerate le potenze operative del cosmo, cioè i pianeti, nel corso del loro moto in diverse disposizioni e configurazioni lungo lo zodiaco. Gli antichi pitagorici, nel loro linguaggio cifrato, chiamavano le due Orse «mani di Rea», la Signora del Cielo ruotante, e i pianeti «cani di Persefone», la Regina degli Inferi. Lontano, verso sud, la misteriosa nave Argo con la sua stella Pilota reggeva gli abissi del passato, mentre la Galassia era il «ponte» che conduceva fuori del Tempo. Queste nozioni sembrano essere state dottrina comune nell’età precedente la storia, e in tutta la fascia delle civiltà superiori intorno al nostro globo; sembra anche che siano nate dalla grande rivoluzione intellettuale e tecnologica del tardo Neolitico.

L’intensità e la ricchezza, nonché la coincidenza di particolari in questo stratificarsi di riflessioni hanno portato alla conclusione che tutto ebbe origine nel Vicino Oriente. È evidente che questo fatto indica una diffusione delle idee in un ambito troppo vasto perché la cosa possa essere tranquillamente accettata dall’antropologia contemporanea. Ma questa scienza, pur avendo dissotterrato una meravigliosa profusione di particolari, è stata indotta dalla sua moderna tendenza evoluzionistica e psicologica a dimenticare la fonte principale del mito, cioè l’astronomia, la Scienza Regale, un oblio che è anch’esso un evento recente, non più antico di un secolo. Oggi, esperti filologi ci dicono che Saturno e Giove sono nomi di divinità vaghe, sotterranee o atmosferiche, sovraimposte ai pianeti in epoca «tarda»; essi distinguono accuratamente origini popolari e derivazioni «tarde», ignari tutti quanti del fatto che i periodi planetari, siderali e sinodici erano noti e ripetuti in molti modi con celebrazioni già tradizionali in epoca arcaica. Lo studioso che di questi periodi non è mai arrivato a sapere nemmeno quanto si impara nel più elementare corso di scienze non è nella posizione migliore per riconoscerli quando compaiono nel suo materiale.

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Gli storici antichi sarebbero rimasti inorriditi se avessero saputo che cose evidentissime sarebbero finite col passare inosservate. Aristotele era fiero di affermare come fatto noto che gli dèi erano originariamente astri, anche se successivamente la fantasia popolare aveva offuscato tale verità. Per quanto poco credesse nel progresso, sentiva che questo, almeno, era un dato acquisito per i tempi futuri. Mai si sarebbe immaginato che W.D. Ross, suo odierno curatore, avrebbe annotato con degnazione: «Ciò è storicamente falso». Eppure noi sappiamo che Saturday e sabato avevano a che fare con Saturno, così come Wednesday e mercoledì avevano a che fare con Mercurio; simili nomi sono antichi quanto il tempo, indubbiamente altrettanto antichi quanto l’eptagramma planetario di Harrān, e risalgono a tempi assai più lontani di quelli raggiunti dalla filologia greca del professor Ross. Le indagini di grandi e meticolosi studiosi come Ideler, Lepsius, Chwolson, Boll e, risalendo ancora più indietro, di Athanasius Kircher e di Denys Petau, se solo fossero state lette attentamente e ricordate, avrebbero impartito molte lezioni utili agli storici delle civiltà; l’interesse invece si è spostato su altre mete, come dimostra l’antropologia contemporanea, che si è costruita la propria idea del “primitivo” e di quanto è venuto in seguito.

In quella che è la meno scientifica delle testimonianze, la Bibbia, si legge ancora che Dio dispose ogni cosa secondo numero, peso e misura; testi cinesi antichi dicono che « tra il calendario e le altezze dei suoni dei flauti rituali c’è un accordo così perfetto che non potresti infilarvi in mezzo nemmeno un capello ». Sono frasi che la gente legge senza darvi alcuna importanza. Eppure, questi indizi potrebbero rivelare un mondo di complessità vasta e saldamente stabilita, infinitamente diverso dal nostro; oggi, invece, gli esperti sono ottenebrati dalla fantasia popolare corrente, dalla convinzione, cioè, che queste sono tutte cose ormai superate – e si tratta di critici serissimi ed estremamente saggi. Nel 1959 scrissi:

« Sulle rovine di questa grande costruzione arcaica mondiale si era posata la polvere dei secoli quando i greci entrarono in scena; pure, qualcosa di essa sopravviveva nei riti tradizionali, nei miti, nei racconti fiabeschi non più capiti. Intesa alla lettera, essa fece maturare i culti sanguinari rivolti a procurare la fertilità, fondati sulla credenza in un’oscura forza universale di natura ambivalente, cosa che oggi sembra monopolizzare i nostri interessi. Eppure i suoi temi originari potevano ancora mandare lampi di luce, conservati quasi intatti, anche a distanza di tempo, nel pensiero dei pitagorici e di Platone. Questi, tuttavia, sono i frammenti di un tutto che è andato perduto, seducenti e sfuggenti insieme; fanno pensare a quei “paesaggi di nebbia” di cui sono maestri i pittori cinesi, che mostrano qui un masso, lì il timpano di un tetto, laggiù la cima di un albero, lasciando il resto all’immaginazione. Anche quando il codice sarà stato decifrato e le tecniche ci saranno note, non potremo pretendere di misurare il pensiero di quei nostri lontani antenati, avviluppato com’è nei suoi simboli. Non più si odono le loro parole per le molte età trascorse… »

Noi riteniamo di avere ora decifrato in parte questo codice. Il pensiero che sta dietro quelle grandi età remote è anch’esso eccelso, nonostante la stranezza delle sue forme. La teoria su « come ebbe inizio il mondo » sembra comportare lo spezzarsi di un’armonia, una sorta di « peccato originale » cosmogonico per effetto del quale il cerchio dell’eclittica (assieme allo zodiaco) venne inclinato rispetto all’equatore e ne nacquero i cicli del mutamento. Non si vuole con ciò suggerire che questa cosmologia arcaica rivelerà grandi scoperte in campo fisico, anche se richiese prodigiosi sforzi di concentrazione e di calcolo; piuttosto, essa delineò l’unità dell’universo (e della mente umana) spingendosi verso i suoi più lontani confini. In verità, oggi l’uomo sta facendo la stessa cosa. Einstein ha detto: « Ciò che è inconcepibile, dell’universo, è che esso sia concepibile ». L’uomo non si arrende. Quando scopre milioni e milioni di remote galassie, e poi le radiosorgenti quasistellari distanti miliardi di anni luce che sopraffanno la sua mente, egli è felice di poter attingere simili profondità. Ma paga un prezzo terribile per i suoi successi. La scienza dell’astrofisica si protende su ordini di grandezza sempre più vasti senza perdere il proprio punto di appoggio; all’uomo in quanto tale ciò non è possibile: nelle profondità dello spazio egli perde se stesso e ogni senso della propria importanza.

Collocarsi entro i concetti dell’odierna astrofisica gli è impossibile, se non nella schizofrenia. L’uomo moderno sta affrontando il non concepibile; l’uomo arcaico, invece, manteneva una salda presa sul concepibile inquadrando nel proprio cosmo un ordine temporale e un’escatologia che avevano un senso per lui e riservavano un destino per la sua anima. Eppure, era una teoria straordinariamente vasta, che nulla concedeva a sentimenti meramente umani; anch’essa dilatava la mente oltre i limiti del tollerabile, ma non distruggeva il ruolo dell’uomo nel cosmo. Era una metafisica spietata. Non era un universo clemente, un mondo di misericordia, decisamente no. Inesorabile come le stelle nel loro corso, miserationis parcissimae, dicevano i romani. Eppure, in un certo qual modo, era un mondo non immemore dell’uomo, un mondo dove ogni cosa trovava, di diritto e non solo statisticamente, il suo posto riconosciuto, dove nemmeno la caduta di un passero andava inosservata e dove anche ciò che veniva respinto per errore proprio non sprofondava nella perdizione eterna; perché l’ordine del Numero e del Tempo era un ordine totale che tutto conservava e a cui tutti – dèi, uomini e animali, alberi e cristalli, gli stessi assurdi astri vaganti – appartenevano, tutti soggetti a legge e misura.

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Questo è quanto era noto a Platone, che sapeva ancora parlare la lingua del mito arcaico; nel costruire la prima filosofia moderna, egli rese il mito consono al proprio pensiero. Noi abbiamo accolto con fiducia i suoi indizi come punti di riferimento anche là dove egli dichiara di esprimersi «non del tutto seriamente». Platone ci ha dato una prima norma empirica, ed egli sapeva quel che diceva. Dietro Platone si erge il corpus imponente delle dottrine attribuite a Pitagora, di grezza formulazione in parte, eppure ricche del contenuto prodigioso della matematica primitiva, pregne di una scienza e di una metafisica destinate a sbocciare ai tempi di Platone; da qui provengono parole come «teorema», «teoria» e «filosofia». Tutto ciò poggia, a sua volta, su quella ché potremmo definire una fase protopitagorica, diffusa in tutto l’Oriente, ma con punto focale a Susa. E infine, c’era dell’altro ancora: il severo calcolo numerico dei babilonesi. Da tutto ciò deriva lo strano principio che «le cose sono numeri».

Una volta afferrato il filo che risale indietro nel tempo, la prova delle dottrine più tarde e dei loro sviluppi storici sta nella loro congruenza con una tradizione conservatasi intatta anche se compresa solo a metà. Vi sono infatti semi che si propagano lungo le correnti del tempo. E l’universalità, quando è unita a un disegno preciso, è già da sola una prova. Quando, per esempio, un elemento presente in Cina compare anche in testi astrologici babilonesi, lo si deve considerare pertinente, poiché rivela un complesso di immagini insolite cui nessuno potrebbe attribuire una genesi indipendente per generazione spontanea. Prendiamo l’origine della musica. Orfeo e la sua morte straziante potrebbero essere una creazione poetica sorta ripetutamente in luoghi diversi. Ma quando personaggi che suonano non la lira, ma il flauto, finiscono scorticati vivi per motivi assurdi di varia specie, e quando la loro identica fine viene ripetuta e rievocata in diversi continenti, allora sentiamo di aver messo le mani su qualcosa, poiché racconti simili non possono essere collegati per sequenza interna. E quando il Pifferaio Magico compare sia nel mito medioevale tedesco di Hamelin sia nel Messico, in età di molto anteriore alla Conquista, e in entrambi i luoghi è connesso con certi attributi come il colore rosso, è ben difficile che si tratti di una coincidenza. Di solito sono assai poche le cose che penetrano nella musica per puro caso.

Così pure non è accidentale che numeri come 108, oppure 9 X 13 si trovino, ripetuti in vari multipli, nei Veda, nei templi di Angkor, a Babilonia, negli oscuri detti di Eraclito e anche nella Valhöll norrena. Vi è un modo per controllare i segnali così sparsi negli antichi dati, nelle tradizioni, nelle favole, nei testi sacri. I materiali di cui ci siamo serviti come fonti potranno sembrare strani e disparati, ma il vaglio è stato accorto e aveva ragioni sue, che esporremo più avanti nel capitolo sulla metodologia. Potrei definirlo una morfologia comparata: il serbatoio dei miti e delle fiabe è assai vasto, ma esistono “segnacoli” morfologici per tutto ciò che non è semplice narrazione di tipo spontaneo. Inoltre, presso i primitivi “secondari”, quali gli amerindi e gli indigeni dell’Africa occidentale, si trova materiale arcaico meravigliosamente ben conservato. Abbiamo infine racconti cortesi e annali dinastici che sembrano romanzi: il Feng-shen Yan-yi, il giapponese Nihongi, lo hawaiano Kumulipo, che non sono soltanto, favole infarcite di credenze fantastiche.

Quali sono le informazioni che, in tempi duri e perigliosi, un uomo di buona famiglia dovrebbe affidare al primogenito? Indubbiamente l’albero genealogico, ma poi? Il ricordo di un’antica nobiltà è il modo per preservare gli arcana imperii, gli arcana legis e gli arcana mundi, così come lo era nell’antica Roma: questa è la saggezza della classe dominante. I canti polinesiani insegnati nei riservatissimi wharewānanga erano in gran parte astronomia: questo è quanto allora s’intendeva per educazione liberale. Altra grande fonte sono i testi sacri. Nell’attuale èra della carta stampata si è tentati di vederli come mere sortite religiose nel campo dell’omiletica, ma in origine essi rappresentavano una forte concentrazione di attenzione su materiali distillati per la loro importanza nel corso di un lungo periodo di tempo, e considerati degni di essere imparati a memoria generazione dopo generazione. La tradizione druidica celtica veniva trasmessa non solo mediante canti, ma anche attraverso una dottrina dell’albero molto simile a un codice; in Oriente, da giochi complessi fondati sull’astronomia si sviluppò una specie di stenografia che divenne poi l’alfabeto.

A mano a mano che seguiamo gli indizi – stelle, numeri, colori, piante, forme, poesia, musica, strutture – scopriamo l’esistenza di una vastissima intelaiatura di rapporti che interessa molti livelli. Ci si trova all’interno di una molteplicità riecheggiante, ove ogni cosa reagisce e ha un suo luogo e un suo tempo stabilito. È un vero e proprio edificio, una specie di matrice matematica, un’Immagine del Mondo che s’accorda a ognuno dei molti livelli, regolata in ogni sua parte da una rigorosa misura. È la misura a fornire la controprova; molte cose, infatti, possono essere identificate e ricombinate in base a regole analoghe al vecchio detto cinese sui flauti rituali e il calendario. Quando parliamo di misure, ciò che le fornisce è sempre una qualche forma di Tempo, a partire dalle due misure fondamentali, l’anno solare e l’ottava, e di lì, attraverso molti periodi e intervalli, giù giù fino ai pesi e alle dimensioni in senso stretto. Ciò che venne tentato dall’uomo moderno con la mera convenzione del sistema metrico ha precedenti arcaici di grande complessità. Da un secolare passato giunge l’eco dello stupore di al-Birūnī, principe tra gli scienziati, allorché scoprì, mille anni orsono, che gli indiani, ormai divenuti astronomi mediocrissimi, calcolavano aspetti ed eventi servendosi degli astri, ma non erano in grado di indicargli una sola delle stelle che lui voleva. Le stelle per loro erano diventate puri oggetti di calcolo, così come lo sarebbero diventate per Le Verrier e Adams, che mai nella loro vita si preoccuparono di osservare Nettuno sebbene lo avessero calcolato e scoperto nel 1847.

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Un simile atteggiamento sembra fosse anche dei maya e degli aztechi, con i loro calcoli senza fine: solo i rapporti contavano. In definitiva era così anche nell’universo arcaico, dove tutte le cose erano segni e segnature l’una dell’altra, iscrizioni nell’ologramma, da divinarsi con sottigliezza. E su tutte dominava il Numero (vedi l’Appendice 1). Questo mondo antico si fa un po’ più vicino se si pensa a due grandi personaggi di transizione, che furono ad un tempo arcaici e moderni nelle loro abitudini di pensiero. Il primo è Keplero, che con i suoi calcoli instancabili e la sua appassionata devozione al sogno di riscoprire l’«Armonia delle Sfere» apparteneva all’ordine antico. Ma egli fu un uomo del suo tempo, e anche del nostro, allorché il suo sogno incominciò a prefigurare la polifonia che doveva condurre a Bach. In modo in un certo senso analogo, la nostra visione del mondo rigidamente scientifica trova la sua controparte in ciò che lo storico della musica John Hollander ha chiamato la «Scordatura del Cielo». Il secondo personaggio di transizione non è altri che Sir Isaac Newton, l’iniziatore addirittura della concezione rigorosamente scientifica. Fare riferimento a Newton a questo proposito non è poi così paradossale. John Maynard Keynes, che ben conosceva Newton, disse di lui:

« Newton non fu il primo dell’Età della Ragione, bensì l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei babilonesi e dei sumeri, l’ultima mente eccelsa che guardò il mondo visibile e intellettuale con gli stessi occhi di coloro che incominciarono a costruire il nostro mondo intellettuale un bel po’ meno di diecimila anni fa […]. Perché lo chiamo un mago? Perché guardava all’intero universo e a tutto quanto è in esso come a un enigma, a un segreto che poteva esser letto applicando il pensiero puro a certi fatti, certi mistici indizi che Dio aveva posto qua e là nel mondo affinché la confraternita esoterica potesse cimentarsi in una sorta di caccia al tesoro filosofica. Egli credeva che questi indizi fossero rintracciabili in parte nei fatti celesti e nella costituzione degli elementi (dal che deriva la falsa impressione che egli fosse un fisico sperimentale), ma in parte anche in certi documenti e tradizioni passati di mano in mano in una catena ininterrotta di iniziati che risaliva fino alla rivelazione originaria, manifestatasi a Babilonia in linguaggio cifrato. Newton considerava l’universo come un crittogramma apprestato dall’Onnipotente, così come egli stesso, corrispondendo con Leibniz, avvolse in un crittogramma la scoperta del calcolo infinitesimale. L’enigma si sarebbe svelato all’iniziato mediante l’applicazione del pensiero puro e della concentrazione mentale. »

Il giudizio di Lord Keynes, scritto verso il 1947, è a un tempo anticonformista e profondo. Keynes sapeva – noi tutti sappiamo – che Newton non era riuscito nel suo intento, che era stato fuorviato dai suoi ostinati pregiudizi settari. Ma, come si comincia a scoprire solo ora, dopo due secoli di studi su molte civiltà di cui egli non poteva sapere nulla, la sua impresa partecipava veramente dello spirito arcaico. Ai pochi indizi da lui scoperti con rigore di metodo se ne sono aggiunti molti altri, ma lo stupore rimane, quello stesso stupore manifestato dal suo grande predecessore, Galileo:

« Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e tempo? Parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati, né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? E con qual facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane ».

Molto tempo addietro, nel VI secolo d.C., Gregorio di Tours scriveva: « La lama della mente ha perso il suo filo, a stento comprendiamo gli Antichi ». Ciò è tanto più valido oggi, nonostante il nostro sguazzare nella matematica per le masse e nell’alta tecnologia. Non si può negare che, pur con tutti gli sforzi dei nostri Dipartimenti di Lettere Antiche, l’appassire degli studi classici e l’abbandono di ogni viva dimestichezza con il greco e il latino abbiano reciso l’όμΦaλόεσσα, il cordone ombelicale che collegava la nostra civiltà – almeno al livello più alto – con la Grecia, proprio come gli appartenenti alla tradizione pitagorica e orfica si ricollegavano, attraverso Platone e pochi altri, con il più antico Vicino Oriente. Si incomincia a capire che tale distruzione sta conducendo a un modernissimo Medioevo, assai peggiore del primo. «Fermate il mondo, voglio scendere!» dirà la gente con un risolino, ma ormai è fatta: questo è ciò che succede quando viene manomessa – non importa da chi – quella conoscenza riservata a pochi che la scienza è e intendeva essere. Ma, come disse Goethe all’alba dell’Età del Progresso, « Noch ist es Tag, da rühre sich ‘der Mann! / Die Nacht tritt ein, wo niemand wirken kann » (« Ancora è giorno, l’uomo si dia da fare! / Viene la notte, in cui nessuno può operare »).

È forse possibile che dal passato irrimediabilmente condannato e calpestato venga ancora una volta un qualche “Rinascimento” in cui certe idee ritorneranno a vivere; e noi non dobbiamo privare i figli dei nostri figli dell’ultima possibilità di entrare in possesso dell’eredità che ci viene dai tempi più antichi e più lontani. E se, come appare infinitamente probabile, anche quest’ultima possibilità verrà ignorata nel tumulto del progresso, ebbene, si potrà almeno credere ancora, col Poliziano, anch’egli sublime umanista, che vi saranno uomini le cui menti troveranno rifugio nella poesia, nell’arte e nella santa tradizione che sole liberano l’uomo dalla morte e lo volgono all’eternità, fintanto che le stelle continueranno a brillare su di un mondo ridotto per sempre al silenzio. A noi, ora, resta ancora un po’ di luce per intraprendere questa prima breve perlustrazione. Essa dovrà forzatamente trascurare aree vaste e importanti; ciò nondimeno, esplorerà molti sentieri e recessi inaspettati del passato.

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