Saturno, il Sole Nero dei primordi

Un’approfondita analisi delle fonti più antiche in nostro possesso ci conduce alla conclusione che, ‘in illo tempore’, in un’ottica di “simbolismo stellare” (e non ancora “solare”), Saturno era considerato il vero Re dei Cieli.


di Andrea Casella

« Secondo lui [Epigene di Bisanzio], il pianeta
Saturno [stella Saturni] esercita un potentissimo
influsso sui movimenti di tutti i corpi celesti. »

(Seneca, Naturales Quaestiones, VII, 4, 2)

Si ha qualche sentore del fatto che le civiltà antiche fossero state in qualche modo solari. La preminenza del dio del Sole emerge chiara: Shamash in Mesopotamia ha una parte fondamentale nell’Epopea di Gilgamesh, Apollo in Grecia era il signore del tempio oracolare più importante di tutti, la preminenza di Amun-Ra in Egitto è persino superflua da sottolineare. Eppure, nei tempi realmente primordiali, rimontanti a quelli che Aristotele, nella Metafisica, chiama oi archaioi kai pampalaioi («gli uomini arcaici e antichissimi»), il simbolismo non era stato solare, bensì stellare [cfr. Simbolismo stellare e simbolismo solare]. Per la verità, il Sole non era per nulla considerato tra gli attori cosmici se non per fornire la misura basilare del tempo («l’aurea corda» di Omero), che in realtà era detenuta da un altro attore cosmico, e cioè il pianeta Saturno, chronokrator supremo.

Più si va a fondo nella questione, più ci si rende conto di come il posto del Sole, in origine, fosse detenuto da Saturno, ed anzi, ci si accorge di come i successivi dèi del Sole fossero in realtà manifestazioni tarde di Saturno, a cui il Sole si era venuto a sovrapporre. Riporta Giorgio de Santillana (Le origini del pensiero scientifico, nota 2):

« In un’opera peraltro ottima ed autorevole sull’Egitto troveremo che il Sole, Amun-Ra, è rappresentato dalla tradizione come il primo re dell’Egitto, il che dimostra che la civiltà egizia era solare, come tutte le civiltà essenzialmente agricole. Ma altrove l’autore deve ammettere l’esistenza di un dio-re ancor più antico e cioè Ptah, Signore di Menfi, capitale originaria del ‘regno unito’ (Alto e Basso Egitto). Siamo così costretti a concludere – insieme all’autore – che Ptah fosse un’altra versione del dio solare. Ma un ostracon demotico (1), la cui testimonianza ha il suo peso, afferma chiaramente che la stella di Ra è Kronos, cioè Saturno. Siamo quindi indotti a supporre che il Sole si fosse sovrapposto al ruolo originario di Saturno; tanto più che le tavolette cuneiformi astronomiche chiamano Saturno col nome del Sole, Shamash, e che vi sono motivi sufficienti per ritenere che il Sole dei Greci sia Kronos ogni volta che di esso si parla come ‘Helios il Titano’. Ciò è irrilevante, dicono i filologi ferrati: si tratta solo di un ostracon tardo e il buon metodo filologico ci insegna a non tener conto di tutte le testimonianze tarde. Tutto bene, ma essi avrebbero potuto tener conto del fatto che Ptah, fin dagli inizi, porta il titolo di ‘Signore del Cielo Trentennale’, cioè del periodo di Saturno. Basterebbe questo a dimostrare che, antico o recente, l’ostracon dice il vero. Se non che cinquant’anni fa un grande egittologo, il Breasted, scrisse come cosa già nota che il culto stellare aveva preceduto il culto solare. Lo si dimenticò. Sempre tutto da rifare. Un semplice controllo avrebbe poi dimostrato a quegli studiosi che l’affermazione dell’ostracon è esplicitamente confermata da Igino, ‘Astronomica’, 42, e da Diodoro, 2.30.3. E questo lo avrebbe poi portato a scoprire molti altri notevoli rapporti che sono stati sistematicamente trascurati: ad esempio in Cina (che fu certamente un altro stato agricolo) Saturno era la Stella Imperiale. »

Il riferimento a Igino l’Astronomo è particolarmente interessante, in quanto costui riporta un elenco dei pianeti (gli «astri erranti», che cioè si sottraggono al moto cadenzato e regolare delle altre stelle) assai arcaico, che rimarca la maniera protobabilonese. Per Igino (De astronomia, II, 42 e IV 15 – 18) i pianeti sono cinque e non sette: essi sono Venere, Mercurio, Giove, Sole e Marte. Ebbene, in questo caso «Sole» è in realtà Saturno, chiamato Shamash dagli astronomi mesopotamici. Il Sole e la Luna non sono annoverati tra i pianeti, secondo la concezione protobabilonese, essendo astri di secondo piano, che non «errano» al pari dei cinque legislatori cosmici e del legislatore supremo, il «Sole» Saturno (2).

Secondo i Greci l’astro di Saturno rappresenta Fetonte (lo «Splendente»), il figlio di Helios che condusse il carro del Sole fuori del suo percorso abituale incendiando la terra. Ovidio dice che i cavalli si imbizzarrirono quando il Titano fu alla vista dello Scorpione. Zeus, adirato, lo colpì con la folgore, e il giovane cadde morto nelle acque del fiume Eridano (il «fiume dei molti pianti», secondo Arato). In realtà, Fetonte è Kronos-Saturno sotto mentite spoglie (così come lo è Prometeo, sulla cui figura non possiamo, in questa sede, soffermarci), il Titano che fu «sbalzato via dal cocchio» dal figlio Zeus [cfr. Il “Fuoco celeste”: Kronos, Fetonte, Prometeo(per questa immagine fr. 58 Kern). In una tradizione di Michele Scoto (il quale si riferisce a non meglio precisati poetae), riportata da Franz Boll (Sphaera, p. 542), Fetonte è detto essere figlio di Saturno, anziché del Sole (eo quod ei dicebatur non esse filium Solis sed Saturni).

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Fetonte sbalzato dal cocchio solare precipita nella “costellazione” di Eridano. Sala del Mappamondo, Palazzo Farnese, Caprarola.

La sua morte nelle acque dell’Eridano è significativa, essendo questa costellazione australe il fiume dell’aldilà (chiamato anche Oceano, da Eratostene) che conduce all’Elisio. Eridano è Eridu, sede del dio Enki-Ea, nella stella che costituisce la fine del fiume, ossia Canopo (a Carinae). Qui ha sede Kronos-Saturno detronizzato o «sbalzato dal cocchio» [cfr. Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”]. Non ci soffermeremo oltre, avendolo fatto in altra sede, sulla reale collocazione della Ogigia plutarchea. In questa sede riportiamo solo il dato per cui Ogigio è un epiteto classico del fiume Stige (secondo Esiodo, Stige è la decima parte del fiume Oceano): l’aggettivo Ogigio viene spesso riferito anche al Nilo, di cui Eridano, secondo gli astrologi egizi (parliamo di Nechepso e Petosiris), sarebbe l’esordio celeste. Igino conserva ancora la denominazione di Nilo e Oceano per Eridano. È il cielo australe la «strada di Ea (Kronos-Saturno)», secondo gli astronomi mesopotamici.

Rimanendo ancora un attimo in ambito egizio vorremmo porre in luce quello che secondo noi corrisponde ad un momento di passaggio tra l’antico simbolismo stellare, con protagonista Saturno, e quello solare, con protagonista il Sole. Nel Libro delle Porte si dice che: «Un’ora del viaggio notturno di Ra corrisponde a un intero tempo di vita in terra»; ora, se Ra fosse effettivamente il Sole, una simile affermazione non avrebbe nessun senso. Essa, tuttavia, acquista senso se assumiamo che Ra sia Saturno, che compie la sua rivoluzione siderale in trent’anni (secondo Plutarco [De facie in orbe lunae] anche i servitori di Kronos addormentato in Ogigia giungono a lui ogni trent’anni). Ancor più ‘ambigua’ una preghiera proveniente da un papiro magico egizio, riportata da Nuccio D’Anna nel suo importantissimo Il gioco cosmico: «O signore di ogni cosa, Aion delle Età [Aiòn, tòn aiònon], tu sei il signore del cosmo, tu sei Ra [il Sole], tu sei il Tutto». Aiòn delle Età è chiaramente Kronos, anche se l’epiteto è riferito a Ra. Egli è quell’Aiòn, fanciullo che gioca, secondo Eraclito, muovendo i pezzi sulla scacchiera cosmica (3).

Kronos-Saturno è il signore del tempo, anzi è il tempo: sbaglia quindi Guénon a pretendere che Kronos e Chronos siano figure distinte. Al grande metafisico, che tuttavia non è un astrologo, sfugge il nesso decisivo tra cielo e tempo. Dall’alto della settima sfera Kronos è il Demiurgo che tiene in pugno la creazione (demiurgia) facendola e disfacendola secondo i suoi «mutevoli intenti». Egli è quasi immobile, il suo simbolo è il cubo, la pietra il suo elemento. Ma nonostante se ne stia al sommo del cosmo, la sua influenza viene esercitata dall’abisso del Tartaro, al centro del cielo australe, o al «centro della terra». Come riporta Eliade (Il mito dell’eterno ritorno p. 29 ss.), sulla linea perpendicolare all’abisso (apsu per i babilonesi, tehòm per gli ebrei, ecc.) gli antichi ponevano di solito la pietra angolare, o pietra di fondazione, delle loro città, assunte a immagini in miniatura del cosmo. La pietra (associata spesso anche a un albero) era di vitale importanza, poiché impediva alle acque abissali di salire e invadere il mondo di superficie (sia ben chiaro che tutto questo deve sempre essere inteso in senso astronomico).

Questa pietra angolare, l’Esagil sumerico (corrispondente all’Eben Shetiyyah ebraico e che nell’epopea di Gilgamesh viene detto «pari ad Apsu», rispetto al quale si pone in atteggiamento comparativo-contenitivo), non è altro che l’immagine terrestre del Quadrato di Pegaso, o 1-iku in sumerico (cfr. Il mulino di Amleto, Appendice 45, pp. 565 – 566 [1, in sumerico 60, è l’unità di misura agraria]), il Paradiso, o Campo Primordiale, secondo A. Ungnad; centro cosmico dove il Demiurgo Enki-Ea diede forma al primo uomo (cfr. a tal proposito il mito di Adapa di Eridu). La relazione tra Eridu e l’Esagil è chiara in una tavoletta del VI sec. a. C. ritrovata a Sippar (Graves – Patai, I miti ebraici, cap. 1):

« Tutte le terre erano mare. Poi vi fu un moto che scosse il centro del mare; allora fu fatta Eridu e venne costruita l’Esagil, Esagil dove, tra le nebbie dell’abisso, abita il dio Lugal-du-kuda. »

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“Mysterium Cosmographicum”, di Keplero. La sfera di Saturno, la più grande ed esterna, è circoscritta a un cubo.

Non bisogna neanche trascurare che il Quadrato di Pegaso (il campo [iku] di Eridu?) sorgeva eliacamente insieme ai Pesci al solstizio d’inverno (ossia quando il sole è allo zenit sulla linea del Tropico del Capricorno) durante la cosiddetta Età dell’Oro e immediatamente dopo: un’interessante raffigurazione di questo campo, quasi costituente la base del triangolo formato dai Pesci (in sembianza della massonica pietra cubica a punta) è presente nel famoso Zodiaco di Dendera. Nel testo rituale del Capodanno babilonese (Il mulino di Amleto, Appendice 45 p. 566) si prescrive che il sacerdote-Urigallu uscirà fino all’Eccelso Cortile, si volterà verso il Nord e benedirà il tempio Esagil tre volte con la benedizione: «Stella-iku, Esagil, immagine del cielo e della terra». Il cubo (o la sua controparte bidimensionale, il quadrato), o pietra cubica, a partire dalla dottrina platonica fino a Keplero (l’ultimo degli astrologi), è associato a Saturno, e tale deve essere considerato, in definitiva, anche Enki-Ea.

Robert Graves (La dea bianca, p. 306), da parte sua, fa di Yahweh «una forma di Bran, Saturno o Ninib [Ninurta]». Precisa poi, il grande mitografo britannico, alla nota 1:

« Ninib, il Saturno assiro, era il dio del Sud, e pertanto del sole meridiano, come pure del cuore dell’inverno, quando il sole raggiunge la posizione più meridionale e si ferma per un giorno [si tratta evidentemente del solstizio d’inverno n.d.r.]… Che Yahweh fosse apertamente identificato con Saturno-Ninib a Betel prima della cattività di Israele è provato da Amos, V, 26, dove si dice che l’immagine e la stella di Siccut-Chiin [la stella Chiin o Chiiòn è con tutta probabilità Saturno n.d.r.] sono state portate al santuario; che lo stesso si facesse a Gerusalemme prima della cattività di Giuda è provato dalla visione di Ezechiele, VIII, 3 – 5, dove la sua immagine, l’idolo della gelosia, era stata eretta alla porta settentrionale del Tempio, affinché gli oranti si volgessero verso sud per adorarlo; mentre lì vicino (v. 14) c’erano donne che piangevano Adone. »

Quante volte, nell’A.T., Yahweh si dichiara apertamente «dio geloso»? Rimarchevole è anche la notizia intorno ad Adone, giacché questi era, nei primordi, Tammuz, figlio o allotropo di Enki-Ea e più tardi identificato con il Sole (morente). Bisogna d’altronde domandarsi come mai Dio si riposi nel settimo giorno, il giorno dell’ebdomade che i Babilonesi dedicavano a Saturno: si riposa perché la settima sfera, quella di Saturno, è la più lenta di tutte, e governa la demiurgia quasi in qualità di motore immobile.

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La pietra è inscindibile da Saturno, come testimonia anche il betilo di Apollo a Delfi, costituito dalla pietra ingurgitata e poi vomitata da Kronos. Nell’inno orfico ad Apollo, il dio è definito, stranamente, «Menfita», ossia, «di Menfi», la città di Ptah, il Kronos egizio. La pietra di Delfi, accessorio scopertamente saturnino, nel rimandare a una fondamentale idea di lentezza (quasi fermezza) del tempo scandito dalla sfera di Kronos-Saturno, che dà le misure all’intera creazione: la pietra, che ha nel cubo il suo solido elementare, è l’unico materiale che la mano del tempo non può scalfire, è quasi un simbolo del tempo stesso.

Sorprenderà con quanta frequenza Apollo sia associato a una pietra: in forma di pilastro era Apollo Agyieo; di pietra piramidale, segnatamente a Megara, era Apollo Karinos; di sasso, a Malea, era Apollo Lithesios, etimologia che il Nilsson e altri pacificamente riconducono a lithos. Ebbene, si dice che anche la pietra nera della Ka’ba, custodita da Hobal, nell’Arabia preislamica, avesse funzioni oracolari. Sovente Hobal viene accostato a Saturno, tanto più che l’idolo del dio era in tempi preislamici posto sulla bocca di un pozzo, ora prosciugato, detto al-Akhsaf, a destra dell’ingresso del santuario (3). A detta di al-Biruni, l’idolo aveva la funzione di «impedire all’acqua di salire»; finalità, quindi, del tutto identica a quella rivestita dallo Eben Shetiyyah di Yahweh, a Gerusalemme. Ezechiele (Graves, La dia bianca, p. 303), durante una visione, vede le acque di un fiume (Eridano?) scorrere sotto la soglia della Casa di Dio.

Alle figure citate potrebbe, non senza fondamento, essere associato anche Shiva, «Signore del triplice tempo», il cui attributo, il lingam, è in genere rappresentato da una pietra nera. Lo stesso Poseidone, che dimora nelle profondità del mare, presenta insospettabili affinità con queste figure: secondo Plutarco (Iside e Osiride par. 10), i sacerdoti egizi lo chiamavano «il primo cubo». Un’altra divinità ctonia che rivela insospettabili collegamenti con Kronos-Saturno è quello strano dio sincretico, sorto nell’Egitto ellenistico, che va sotto il nome di Serapide, o Sarapide. È spesso raffigurato con accanto Cerbero, il che sembrerebbe accostarlo ad Ade. Giorgio de Santillana, in base agli studi di Lehmann-Haupt, ne fa derivare il nome dall’epiteto di Enki-Ea, Sar Apsi, «Signore dell’Abisso». Secondo l’Enciclopedia Treccani (voce Serapide), i sostenitori dell’origine mesopotamica ne teorizzano l’introduzione da Babilonia attraverso la città di Sinope del Ponto:

« I sostenitori dell’origine sinopitico-babilonese si basano su un racconto di Tacito (Hist., IV, 83-4) e su di un passo di Plutarco (Iside e Osiride, 28), dai quali si può dedurre l’ignoranza del dio da parte dell’Egitto e della Grecia e l’introduzione, dell’immagine per lo meno, da Sinope. In questa antica colonia assira ellenizzata sarebbe stato venerato da tempo il semitico Baal o Bel o Ea detto anche Sar-Apsi (signore delle profondità marine), dio oracolare che in Babilonia i generali d’Alessandro avevano consultato durante l’ultima malattia del conquistatore. In Sinope il dio non avrebbe conservato puro il carattere babilonese e avrebbe assunto anche qualità e poteri proprî di divinità greche, formandosi una mescolanza greco-semitica la quale avrebbe condotto all’identificazione di Bel-Ea-Sar-Apsi, con Zeus-Hades-Pluto: Sarapide. L’immagine adorata a Sinope presentava grandi analogie con quella di Pluto. »

Come sembra accertato dalle testimonianze tardo-antiche, Serapide era strettamente legato alle acque, e la sua influenza era ritenuta causa della vitale piena del Nilo. Dice Rufino (Historia Ecclesiastica, II, 20), argomentando sulla vanità delle superstizioni pagane: «Tutti dicevano che, se la statua fosse stata demolita e consumata dal fuoco, Serapide, in risposta all’offesa che gli era stata fatta, non avrebbe più donato le acque alte e la piena abituale». Il legame di Enki-Ea con le acque sotterranee (abissali) è cosa nota, essendo il suo epiteto preciso «Signore della profondità acquea», come riporta Ananda Coomaraswamy, associandolo ad al-Khidr (5). È pur vero che alcuni autori antichi hanno teso a identificare Serapide con il Sole (e su questa base la gran parte degli studiosi più ortodossi ne hanno fatto derivare il nome da Api), ma se poniamo mente alla relazione tra il Sole e Saturno, con quest’ultimo in qualità di potenza planetaria antecedente, tutto si chiarifica. In fondo, Api, più tardi assurto a divinità solare, era chiamato anche «Ripetizione di Ptah»; e Ptah era il «Signore del cielo trentennale», dunque, a sua volta, una ierofania di Kronos-Saturno.

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Il toro “solare” Api, detto anche «Ripetizione di Ptah».

Laddove vi sono pietre “oracolari” vi è Saturno. Non è purtroppo questa la sede per provare ad esporre la difficile dottrina plutarchea degli oracoli e del loro rapporto con il tempo di Kronos, ossia il tempo che si rivolge su se stesso. Basti qui dire che Kronos è il vero signore del tempo arcaico, deus faber, artifex del tempo che non conosce ancora il concetto di eternità, ma, in forma di serpente che si morde la coda, si rivolge su se stesso, stabilendo in se stesso l’origine e la fine, secondo la massima eraclitea: «Comune è l’inizio e la fine del cerchio». In modo del tutto analogo (poiché, in definitiva, il cerchio non è altro che il cielo/tempo) la dottrina orfica attribuisce spesso a Kronos l’epiteto «dai consigli tortuosi» (o «dal pensiero ricurvo») in greco ἀγκυλομήτης (ankulomètes), (Fr. 107, 131, 140 Kern, Inno a Kronos) motivandolo con il fatto che egli si rivolge sempre su se stesso, o guarda se stesso (korònous). L’epiteto κορόνους (korònous), «che guarda se stesso», riferito a Kronos nei frammenti orfici, sembra un hapax legomenon, non avendo altri riscontri nella letteratura greca. Noi almeno, nonostante gli sforzi profusi, non siamo riusciti a rintracciarne un altro caso. Sembra però un ricalco dell’aggettivo κορωνός (koronòs), «curvo», «ricurvo».

Dato interessante è la stretta relazione che si stabilisce tra Kronos e tutti questi epiteti (assai simili al suo nome, come evidente) con un animale, assunto dal mito a suo compagno (vedi, ex plurimis, R. Graves, I miti greci, VII, nota 2), il quale, sulle prime, non desta alcun tipo di attenzione: il corvo. Ebbene, in greco il corvo è κορώνη (koròne), sostantivo che, tuttavia, ha anche il significato di «oggetto ricurvo», «anello», evocante, insomma, qualcosa che ritorna su se stesso, e perciò della stessa natura di Kronos/korònous/koronòs. Coerentemente, anche il latino Saturnus prevedeva come suo associato il corvo (per non parlare di Odino).

Da sottolineare che, come ricorda Graves (La dea bianca, Adelphi 2009, p. 77), il corvo era utilizzato dagli àuguri durante i vaticini e, secondo Plutarco (Gli oracoli della Pizia, 400 A), anche ad Apollo era sacro il corvo. Il simbolo (significante) rimanda sempre ad altro (significato), cui è legato (l’etimologia di “simbolo” è esattamente syn-bàllein = legare/unire). Nell’iconografia arcaica gli animali non sono mai meri esseri viventi, ornamenti tracciati con intento artistico (e quindi fittizio), ma contengono una natura superiore, o, come ottimamente si esprime Giovanni Ferrero (Il sapere di Apollo cit., p. 16), decifrando una misura temporale da alcune pitture vascolari greco-arcaiche:

« Il bestiario mitologico non descrive la realtà egli animali, non appartiene alla descrizione della fauna in zone terrestri, ma è da riferirsi a un paesaggio che è quello cosmico-simbolico. »

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“Melencolia I” di Albrecht Dürer. Incisione colma di suggestioni saturnine: la pietra, la scala con sette pioli, il mare su sui spende una strana stella, il cane, la bilancia e altri strumenti demiurgici, la figura alata assorta in mesta meditazione.

E che dire poi di quell’El Elyon, El l’Altissimo il cui sacerdote sarebbe stato il misterioso Melkisedek (lett. «Il mio re è giusto»)? El Elyon non sembra essere altro che una manifestazione primordiale di Kronos-Saturno. Secondo Graves-Patai (I miti ebraici, I, 17):

« Nonostante il concetto rivoluzionario di un eterno, assoluto, onnipossente e unico Dio, proposto per prima dal faraone Akhenaton e accettato dagli Ebrei, da lui protetti, oppure reinventato da loro, tuttavia il nome ‘Elohim’ (generalmente tradotto con ‘Dio’), che troviamo nella prima Genesi, è la variante ebraica di un antico nome semitico per un dio o per parecchi: Ilu, fra gli Assiri e i Babiloesi, El, nei testi hittiti e ugaritici; Il, o Ilum, fra gli Arabi del sud. El era considerato capo del pantheon fenicio ed è spesso nominato nei poemi ugaritici (datati dal XIV secolo a.C.) come “toro El” che ricorda gli idoli a sembianza di vitello d’oro fatti da Aronne (Esodo, XXXII, 16, 24, 35) e da Geroboamo (I Re, XII, 28 – 29) come emblemi di Dio; nonché la personificazione di Dio, fatta da Sedecia, rappresentata da un toro con le corna di ferro (I Re, XXII, 11). »

Questo El sarebbe stato dunque il dio supremo: l’epiteto «Altissimo», tuttavia, noi lo associamo alla sfera di Saturno, che è la suprema: la sua sembianza di toro deriverebbe dal fatto che a quel tempo Saturno era entrato nella costellazione del Toro. Il vitello d’oro che gli Ebrei fuoriusciti dall’Egitto si portano appresso, si riferisce anch’esso a Saturno.

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“Gli Ebrei adorano il Vitello d’Oro”, di Nicolas Poussin.

Franz Boll riporta (Sphaera, p. 228): Auf dem runden tierkreis von Dendera steht unmittelbar hinter der Jungfrau eine stierköpfige gestalt, Hor-ka, der planet Saturn («Sullo zodiaco rotondo di Dendera, appena alle spalle della Vergine, c’è una figura con testa di toro: si tratta di Hor-ka, il pianeta Saturno»). Il sacerdote di El Elyon sarebbe stato Melkisedek, la cui figura ricorda tanto quella di Enki-Ea, quanto quella del coranico al-Khidr, e il cui nome significa «Il mio re è giusto»: e chi potrebbe essere più giusto (dìkaios) del supremo Demiurgo, dispensatore di Giustizia e Misura dall’alto della sua demiurgia? D’altronde El, o Elohim, fu sovrano “terrestre”, al tempo in cui ancora camminava in Eden (così come nel Lazio o in Grecia, secondo Fr. 139 Kern) in comunione con l’uomo, prima del suo ritiro “stabile” nel polo meridionale dell’eclittica.

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Questo nome semitico, del resto, presenta delle evidenti assonanze con Helios Yperion (6), il Titano solare nominato nei poemi omerici. Il nome significa letteralmente Helios «Che sta al di sopra di tutti». È noto, peraltro, che Helios sia una figura divina di scoperta provenienza orientale. Ma non è altri, ancora una volta, che Kronos-Saturno sussunto sotto il Sole. Per rendercene conto dobbiamo guardare al suo santuario maggiore, a Emesa, in Siria. Qui era presente il tempio del Sole, detto El-Gabal (ellenizzato in Elagàbalos, da cui il latino Heliogabalus: notare l’associazione “naturale” El/Helios), che prevedeva l’adorazione di una pietra nera di forma conica, regolarmente oracolare, che venne portata a Roma quando il suo sommo sacerdote divenne imperatore, nel III secolo.

Ecco l’accessorio saturnino! El-Gabal, del resto, pare abbia proprio il significato di «Dio-Pietra» (Luigi Nardi, Dei compiti, Pesaro, 1827, p. 75). È stata proposta (Enciclopedia Treccani, voce Eliogabalo) anche la variante El-Gabel, ossia «dio creatore», «dio formatore», che pure ben si sposa con la conclusione “saturnina”. Non è raro rinvenire, nell’area siro-arabica, l’adorazione di pietre “solari”, solitamente nere. Celebre esempio, già citato: la pietra nera di La Mecca. Né si dimentichi la pietra nera di Cibele a Pessinunte. Giovanni Filoramo, nel suo testo sull’Islam, ci ricorda che, anticamente, ai quattro angoli dell’Arabia fossero custodite quattro pietre nere, di cui oggi solo una, quella di La Mecca, sopravvivePersino il “solarissimo” Mitra viene talvolta accostato a Saturno. A tal proposito Franz Boll (Sphaera, p. 313, nota 3): 

« Nell’etnografia astrologica del Tetrabyblos (II 3 p. 64, 14) si nota a proposito dei popoli dell’Asia Centrale: ‘Venerano l’astro di Afrodite chiamandolo Iside, chiamando invece quello di Saturno Mithra-Helios’. Il pianeta Saturno è quindi identificato con Mithra-Helios. »

Forte sorge in noi la suggestione che Mitra (nell’antichissima religione vedica componente con Varuna il duo Mithra-Varuna, mentre in quella mazdea l’omologo Mithra-Ahura) sia l’aspetto benefico di Saturno, in contrapposizione alla faccia oscura, ossia l’Avversario, Ahriman/Samael «pieno di morte», nello Zervanismo apertamente associato a Saturno-Kewan, il «demone planetario più nefasto dei cieli». Secondo Zad Sparam IV, 7: «Saturno [Kewan] è morte per le creature».

Potremmo ancora dire molto di questo dio degli dèi, della sua identificazione con il fabbro Prometeo, che “a monito” dovette indossare per sempre un anello fatto di ferro e pietra, a seguito della sua liberazione da parte di Eracle dopo, guarda caso, trent’anni di prigionia sul Caucaso (cfr. questa cifra in Igino, Fabulae), della sua duplicitàma il discorso ci porterebbe troppo lontano. Quel che abbiamo voluto esporre con questo breve scritto è un punto di vista raramente sfiorato dagli studiosi, che va sotto il nome di “simbolismo stellare”. Esso è stato l’anima della religiosità più antica dell’uomo, di natura rigorosamente cosmo-teologica. La ierofania del dio supremo, lungi dall’avere carattere metafisico, rivestiva connotati cosmologici. Chi furono quegli uomini così attenti al cielo? Non lo sapremo mai, ma ciò che sembra certo è che dovettero possedere una mente geniale.

Secondo Arato, i nomi delle costellazioni si devono a «un uomo di una generazione scomparsa» che avrebbe individuato nelle stelle delle figure per orientarsi attraverso il tempo (è ormai noto, peraltro, che i pittogrammi delle grotte di Lascaux, datati al Paleolitico, e definiti capolavori di arte primitiva, sono in realtà costellazioni, e non semplici raffigurazioni di animali o scene di caccia). Ed è certamente nella più antica preistoria dell’uomo che dovette originarsi il discorso sul cosmo, in origine concepito come un racconto unico, sebbene in linguaggio mitico (ma il linguaggio mitico, lungi dall’essere infantile, è in realtà altamente tecnico). Questo grande disegno arcaico, per qualche oscuro motivo, andò in frantumi all’alba della Storia, e non fu più possibile rimettere insieme i pezzi, se non per sommi capi (si ricordi a tal proposito lo strano discorso che Platone effettua nel Politico a proposito delle storie mitologiche).

Ma se gli antichi avevano già smarrito la chiave di quello che il compianto Giorgio de Santillana denominava «il tesoro perduto» (con rarissime eccezioni, come i Pitagorici), noi moderni non possiamo sospettare neppure che un tempo fosse esistito. Noi, per quanto possibile, possiamo cercare, con estrema fatica, di illuminare a tratti il buio che avvolge ormai queste cose, sperando di far cosa gradita a qualcuno. Riteniamo, d’altronde, che la miglior motivazione della trasformazione degli dèi celesti (e del dio supremo, Kronos-Saturno, su tutti) in principi metafisici (ecco il reale progresso!), l’abbia data Mircea Eliade, nel suo Trattato di Storia delle Religioni:

« Questi dèi celesti supremi si sono potuti trasformare in concetti filosofici perché la ierofania uranica stessa era trasformabile in rivelazione metafisica; in altre parole, perché il carattere stesso della contemplazione del Cielo permetteva, accanto alla rivelazione della precarietà dell’uomo e della trascendenza della divinità, la rivelazione della SACRALITÀ DELLA CONOSCENZA, della ‘forza’ spirituale. L’origine divina e il valore sacro della conoscenza, l’onnipotenza di Colui che VEDE E COMPRENDE, di Colui che ‘sa’    in quanto sta in ogni luogo, vede tutto, ha creato e domina tutto    non si scorge in nessun luogo così pienamente come davanti al cielo diurno o alla volta stellata. Ben inteso che, per la mentalità moderna, tali divinità, con la scarsa precisione dei loro lineamenti mitici  Iho, Brahman, eccetera    sembrano astrazioni, da considerarsi piuttosto concetti filosofici che non divinità propriamente dette. Non dimentichiamo, tuttavia, che per l’uomo primitivo, il quale le ha plasmate, il SAPERE, la CONOSCENZA erano    e sono rimasti  epifanie della ‘potenza’, della ‘forza sacra’. Chi vede e sa tutto, PUÒ ED È tutto. Talvolta simili Esseri supremi di origine uranica diventano fondamento dell’Universo, autori e dominatori dei ritmi cosmici, e tendono a coincidere sia col principio o sostanza metafisica dell’Universo, sia con la Legge, con quel che è eterno e universale nei fenomeni transitori, nel loro divenire. Legge che gli dèi stessi non possono abolire. »

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Riproduzione del Sagittario, come raffigurato sui cippi confinari mesopotamici. Notare la coda di scorpione. Questa icona ritorna identica nell’Apocalisse per descrivere gli uomini-cavalletta.

Note:

(1) A questo ostrakon si riferisce anche Franz Boll (Sphaera, p. 313, nota 3): «È interessante notare che un ostrakon trovato di recente in Egitto con i pianeti e le immagini dello zodiaco elenca Saturno come Ra, chiamato anche Helios».

(2)  Addirittura, anziché proporre la classica opposizione Luna-Sole, i Babilonesi usavano mettere in campo quella Luna-Saturno (cfr. Franz Boll – Carl Bezold, Interpretazione e fede negli astri, Sillabe, 1999, pp. 35, 85 e 105).

(3)  La natura cosmica degli scudi descritti da Omero è cosa nota. Riguardo a quello forse più famoso di tutti, quello di Achille (Iliade Liber XVIII), forgiato, guarda caso, da Efesto, il fabbro/demiurgo cosmico, si dice: «Vi fece [Efesto] la terra e il cielo e il mare, il sole infaticabile e la luna piena, e le costellazioni tutte, di che il cielo si incorona, le Pleiadi e le Iadi e la possa di Orione, e l’Orsa a cui danno il nome di Carro, che si volge intorno allo stesso punto e guata Orione, e sola ignora i lavacri d’Oceano [cioè non tramonta mai]». Dopo la descrizione di queste costellazioni veramente fondamentali, segue poi una scena di giurisdizione: «Gli spettatori acclamavano all’uno e all’altro [dei due contendenti], divisi nel parteggiare; ma gli araldi allora facevano chetare la folla; e i giudici-seniori sedevano entro un sacro recinto circolare su levigate pietre e prendevano in mano gli scettri degli araldi dalla voce squillante, e appoggiandosi a quelli davano a turno la loro sentenza; e stavano in mezzo ad essi due talenti d’oro, da darsi a chi avesse pronunciato il più retto giudizio». In tale scena, Nuccio D’Anna (Il gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, p. 34) ha intravisto un motivo cosmologico, sebbene non sembri coglierne a fondo le implicazioni. Val la pena citarlo per sottoporlo meglio a critica: «I giudici siedono entro un sacro recinto circolare [tèmenos] stringendo in mano lo scettro, mentre al centro si trovano ‘due talenti d’oro’. ‘Tàlanta’ è formato con lo stesso radicale da cui si ottiene il verbo ‘talantèuo’, ‘pesare’, ‘bilanciare’, ‘misurare’, ‘oscillare’, sicché in realtà il termine usato da Omero indica i ‘due piatti d’oro’ di una bilancia. È lo stesso ‘gesto’ di buttare la spada sul piatto della bilancia compiuto dal re celto Brenno quando invase Roma al tempo di Furio Camillo, che doveva ‘pesare’ la sconfitta dei romani e sul quale, come nell’arcaico prediritto, si posava lo scettro del giudice. In tal modo, il giudice omerico ‘pesava’ le colpe e premiava l’innocente, come in un gioco, con due ‘talenti’ d’oro, simboli ambivalenti delle due metà di un unico cerchio cosmico. Aggiungeremo che la descrizione omerica ci dà i due piatti di una bilancia centrata sulla perpendicolare del polo, il punto di equilibrio cosmico, perciò in diretta relazione con le due Orse quali corrispettivi celesti di questi ‘piatti’. Il simbolo non potrebbe essere più preciso. Se, infatti, ci ricordiamo che la bilancia è un tipico attributo della dea della giustizia Themis, l’Ordine cosmico per eccellenza, sembra potersi dedurre che Omero stia prospettando un arcaico equilibrio cosmico strutturato sull’asse di una Bilancia celeste posta in corrispondenza del polo nord e non dell’equinozio autunnale, come invece accade in ogni normale zodiaco». L’interpretazione fa leva su un accostamento tra gioco, diritto e simboli cosmici, ma la metafisica dimostra ancora una volta di annebbiare la vista dei più acuti. I due piatti della bilancia, che l’autore associa alle due metà del «cerchio cosmico» (?) dovrebbero essere correttamente intesi come le due metà del cerchio dell’eclittica che, “oscillando”, si solleva e si abbassa rispetto al perno dell’equatore celeste, dando vita all’alternanza delle stagioni. Da tale “bilanciamento” di linee celesti ha vita l’Ordine del Tempo, riflesso sulle coordinate dello skhamba-sfera-armillare-cosmico, tracciate secondo “Giustizia”, la Dìke (o Thèmi) universale che incarna lo spirito di tali coordinate. Le stesse costellazioni illustrate da Omero, più che alludere a un generico asse polare, sembrano riferirsi all’antico coluro solstiziale (personificato da Dìke, appunto). La giustizia è amministrata da alcuni seniori assisi su delle pietre, in sembianza di ministri del giudice supremo Kronos-Saturno, il pianeta kosmokrator associato alla pietra, che «dà le misure» all’intero cosmo. Lo stesso autore riconosce che il gioco d’azzardo e gli aspetti divinatori-astrologici connessi erano attributi specifici di Kronos-Saturno, la cui falce dovrebbe essere presa per il bastone-oracolo col quale il veggente decretava il destino e distribuiva la “sorte”. Alfredo Cattabiani, da parte sua, ricorda come solo durante i Saturnalia fosse permesso giocare d’azzardo (e a che cosa? Generalmente ai dadi, di forma cubica; la nostra tombola non sarebbe che un fossile misconosciuto di queste antiche pratiche). Del resto, lo ius, prima di divenire “profano”, era stato appannaggio, nelle società più arcaiche, della casta sacerdotale. Pierre Grimal (cfr. Marco Aurelio, pp. 283 – 284) ha tentato una ricostruzione etimologica della parola latina fas, corrispondente alla greca Thèmi, ed esprimente l’essenza del sostrato sacro e profondo dello ius, il diritto umano. Ne ha rintracciato le radici nella parola facere, il «fare», il «disporre», ma anche il «creare». In questo senso la Giustizia cosmica è affare autenticamente demiurgico: è la norma che il Demiurgo impone alla sfera del cosmo tracciando le coordinate dello skhamba. Questa norma è il “fuoco” di Eraclito, che con misura divampa e con misura si spegne: fu già il fuoco di Prometeo e del Cervo dei Catlo’ltq; si esprime nei me sumerici, nel ŗta indù, nella maat egizia, nall’aṧa iranica; ed è la manifestazione visibile sul piano del periodare astrale di ciò che, come dicevano i Pitagorici, a tutto è sovraordinato: il numero.

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(4)  «Il fatto che nel Corano compaiano esplicite condanne del politeismo e, in particolare, della triade femminile delle popolazioni del Hijaz, e manchi invece qualsiasi riferimento al Signore della Ka’ba, ha fatto ipotizzare a Wellhausen (1887, p. 75) che Hubal e Allah costituissero una medesima divinità e non è mancato chi ha suggerito che il nome della divinità meccana potesse rappresentare l’arabizzazione del dio arameo Ba’l» (G. Filoramo, Islam, p. 33). Da notare che Hobal era raffigurato come un vecchio con arco e sette frecce, dalle virtù oracolari, al pari di Shani in India e di Apollo a Delfi. Massimo Campanini, tra i massimi esperti dell’Islam, ne Il Corano e la sua interpretazione (pp. 43 – 44), paragona apertamente Allah a Marduk e a Ptah, i Demiurghi di Babilonia e d’Egitto: «Allah crea, e crea con la parola […]. La creazione attraverso la parola è un luogo comune delle antiche religioni del Vicino (o Medio) Oriente. La troviamo in Egitto, dove il dio Ptah produce l’universo attraverso l’intelligenza e il Verbo; la troviamo a Babilonia, dove il potere di creare attraverso il ‘fiat’ è una facoltà caratteristica del dio Marduk. La troviamo, ovviamente, nel libro del Genesi e, in fondo, nel Vangelo di Giovanni […]. Allah ha imposto al cosmo il suo ordine […]. Dio produce il creato e lo riproduce; comincia la creazione e la ripete […]. All’origine, esisteva una materia primordiale, chiamata ‘fumo’, da cui Dio iniziò l’opera creativa (XLI, 11), qualcosa di simile alle bibliche acque dell’abisso del primo capitolo del Genesi». Appare chiaro, quindi, che neppure Allah “crei” nel vero senso del termine. Egli non fa esistere qualcosa ex nihilo, ma (in perfetto stile demiurgico) si trova a modellare, tramite la parola, una ganga preesistente. La sua è un’opera di perfezione, il Corano la tratteggia in guisa tale da rammentarci il Demiurgo platonico: «Poi, Allah ha separato la massa primordiale (XXI, 30) e quindi ha creato sette cieli, perfettamente ordinati (LXVII, 3: «Colui che creò i sette cieli l’uno sull’altro. Non vedi nella creazione del Misericordioso alcuna ineguaglianza. Volgi gli occhi [in alto]: vedi forse fratture?»). Come non vi è alcuna irregolarità e imprecisione nella creazione del cosmo, così il moto degli astri è regolare e periodico e Dio ne ha stabilito le dimore in cielo (X, 5; LV, 5)». È noto, infine, che durante il pellegrinaggio annuale del Hajj, i pellegrini effettuino sette giri attorno alla Ka’ba, imitando così il moto delle sfere planetarie. Testimonianze, resti incompresi di antichi culti astrali soppiantati. Lo Hajj, del resto, si effettuava ben prima dell’avvento dell’Islam. Gli antichi Arabi sono stati grandissimi astrologi, e la denominazione che essi diedero alle stelle rivela ben più di quanto non appaia di primo acchito. Del resto, la maggior parte delle stelle, ancora oggi, reca nomi arabi.

(5)  Citando l’Edda di Snorri Sturluson, Giorgio de Santillana (Il mulino di Amleto, pp. 516 – 517) riporta la sede del gigante Surtr: «Al limite del cielo rivolto a meridione vi è la sala più bella di tutte e più splendente del sole. Ha nome Gimlè, e rimarrà anche dopo che cielo e terra saranno scomparsi, e gli uomini buoni e giusti vi abiteranno per l’eternità. Così si dice nella Voluspà (64): “- Vidi ergersi una sala / più bella del sole, / coperta d’oro / in Gimlè: / là vivranno in eterno / le schiere fidate / e godranno la gioia / che mai perisce -. Allora Gagleri domandò: – Che cosa proteggerà quel luogo quando la fiamma di Surtr [il Nero] brucerà cielo e terra? -. Har rispose: – Si dice che a sud, sopra il nostro cielo, ce ne sia un altro, che si chiama Vindhblàinn, e che sopra questo ve ne sia un terzo, che si chiama Andlangr, e che in questo cielo noi riteniamo che si trovi quel luogo. Ma pensiamo che ora soltanto gli Elfi luminosi abitino quelle contrade…”. Il signore di questo luogo elisio deve essere Surtr, il Nero, così almeno dice Rydberg: “Nel testo rinvenuto nel Codice di Uppsala, il Gylfaginning ne fa il signore di Gimlè, e parimenti re dell’eterna beatitudine. Dopo il Ragnarok si dice: “Qui ci sono molte dimore buone e molte cattive; la cosa migliore è essere in Gimlè con Surtr”». Da parte nostra non possiamo fare a meno di ripensare alla Siria (kathùperthen), che sta “al di sopra” di Ogigia, laddove è “il solstizio d’inverno”. Signore di quel luogo è Kronos-Saturno addormentato. Nella mitologia norrena è Surtr, il Nero (si ricordi il riferimento già da noi effettuato a Suri, il Nero, degli Etruschi, quello che è detto comunemente Apollo Nero). Secondo l’Edda di Snorri, Gimlè (Eridu/Canopo) sarà l’unico “luogo” a sottrarsi al Ragnarok e vivrà per sempre in eterna pace. Secondo l’etimologia Gimlè significa «pietra preziosa» o anche «stella». Canopo, da parte sua, è l’ellenizzazione dell’egizio kah-nub, «terra dell’oro». Sarebbe troppo lungo esporre più approfonditamente questa questione, che pure riveste importanza decisiva. In questa occasione, dato che non lo abbiamo fatto altrove, vorremmo limitarci a strappare la maschera di certa pretesa “metafisica”, la quale, quanto più si va a fondo, tanto più chiaramente mostra il suo “volto” astrologico. René Guénon, nel capitolo de Il Re del Mondo dedicato alla Shekinah e a Metatron, si lascia andare alla constatazione per cui il numero della Bestia, il famigerato 666, sia un numero solare. In nota 18, dice che il valore gematrico del nome di Sorath, il demone solare, è proprio 666. Ebbene, il nome Sorath è formato dal radicale ebraico Svrt, che vocalizzato restituisce, precisamente, Surtr, il “Nero”, il gigante norreno da cui viene la distruzione finale, ma che è anche il sovrano di Gimlè, il soggiorno di beatitudine. Questo Sorath (si noti l’assonanza col monte Soratte, dimora del “custos” Apollo, Sorano, a sua volta omologo dell’etrusco Suri [da Sur = Nero]) non è quindi il Sole, ma il ben più primordiale Sole Nero, Saturno. In verità, il numero 666 è “solare” (e qui si intende proprio il Sole) anche per un altro motivo, indicando esso la casa dello Scorpione, posto nell’Era del Toro al sesto posto dell’eclittica partendo dal Toro. Lo Scorpione, con la rossa Antares (Anti-Ares) è bensì il domicilio astrologico di Marte, ma bisogna riconoscere che, in epoca più antica, esso era ben più ampio di quanto non sia ora: la Bilancia, infatti, costituiva un tempo le chele dello Scorpione. In Bilancia, secondo lo Zervanismo (che risente dell’influsso dell’astrologia babilonese), Saturno ottiene la sua esaltazione. Se, tuttavia, facciamo sì che la Bilancia sia “assorbita” nello Scorpione, osserviamo che quest’ultima costellazione zodiacale viene a essere contemporaneamente domicilio di Marte ed esaltazione di Saturno, gli antichi Nergal e Ninurta, l’uno signore della morte e delle tempeste, l’altro (volto “oscuro” di Enki), signore dei “vincoli infrangibili”, del tempo che stritola. Nella zona galattica posta tra Scorpione e Sagittario è da individuarsi l’ingresso dell’Ade. I terrificanti “uomini-cavalletta”, che vengono fuori “accompagnati dal fumo” (è il fumo che esala dalla costellazione di Ara, poco a sud dello Scorpione), così come descritti nell’Apocalisse, appaiono identici al Sagittario come raffigurato negli antichissimi cippi confinari mesopotamici. Il Sagittario, a sua volta, era identificato con Nergal-Marte; ed è proprio ai Centauri che Dante, sulla scorta di Virgilio, affida la custodia dei violenti immersi nel fiume Flegetonte. Il settimo cerchio dell’Inferno non è infatti altro che il corrispettivo ctonio e rovesciato del cielo di Marte. Potremmo proseguire e precisare, esponendo il perché, col passaggio dal simbolismo stellare al simbolismo solare (o zodiacale) Saturno degradi al rango di demone nefando, ma dobbiamo fermarci qui, per sinteticità, rimandando questo argomento a un eventuale futuro articolo.

(6) Oltre che nel sacro tripode di Delfi, la classica scansione temporale passato – presente – futuro sembrerebbe emergere in un altro dio del Sole, il vedico Surya, sovente rappresentato con tre volti. Suo figlio Shani (il pianeta Saturno) è possessore di arco e frecce, nonché del trishula, il che lo avvicina a Shiva, «Signore del Triplice Tempo». Surya e Shani sembrano lo sdoppiamento di un personaggio che in origine era stato unico, quando il «vero sole» era Saturno, chronokrator primordiale.


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