I «miti di emersione» nelle tradizioni dei Nativi Americani

di Marco Maculotti

Secondo molte tradizioni mitiche, in principio i primi membri della razza umana furono generati nelle viscere della Terra, all’interno di mondi sotterranei simili a uteri cavernosi. I miti di emersione, particolarmente diffusi tra le popolazioni native americane, ci forniscono i migliori esempi di tali regni sotterranei. I racconti mitici narrano di come i primi esseri umani vennero portati in superficie per vivere alla luce del sole solo dopo essere rimasti a lungo sotto la superficie terrestre, allo stato—per così dire—«larvale», e dopo aver sviluppato una forma fisica rudimentale e una coscienza umana. Secondo le popolazioni native, questa emersione dal mondo sotterraneo segna la nascita dell’uomo dell’era attuale—o, per usare una locuzione tipica delle popolazioni americane, del «Quinto Sole»—e rappresenta anche la transizione dall’infanzia e dalla dipendenza dal grembo della Madre Terra alla maturità e all’indipendenza.
Nella maggioranza dei casi, si narra che i primi esseri umani che vissero nell’utero della Madre Terra avessero una forma semi-animale o semi-umana. Ciò ci porta alla mente le credenze mitiche degli aborigeni australiani, secondo i quali in illo tempore, nel «Tempo del Sogno», il mondo esisteva già ma le sue forme erano indifferenziate, ragion per cui non vi era una distinzione precisa tra dèi, esseri umani ed animali; gli esseri si differenziarono solo in seguito, con la fine del «Tempo del Sogno». Anche per i nativi americani, gli esseri umani si svilupparono pienamente come tali solo dopo essere saliti alla superficie terrestre.

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Lenape

Uno dei primi missionari che vissero presso gli Indiani Lenape (denominazione europea: Delaware) della Pennsylvania—citato da Kafton-Minkel nella sua opera Mondi sotterranei—scrisse che «gli Indiani considerano la Terra la loro madre universale. Sono convinti di essere stati creati nel suo seno, in cui ebbero la loro dimora per lungo tempo, prima di vivere in superficie. Essi affermano che quando il grande, buono e onnipotente Spirito li creò, sicuramente lo fece perché riteneva che fosse giunto il tempo propizio per permettere il godimento di tutte le buone cose che aveva preparato sulla Terra, ma saggiamente decretò che la prima fase dell’esistenza umana si svolgesse nelle sue viscere, come il neonato si forma e inizia il suo sviluppo nel grembo della madre naturale». Lo stesso missionario aggiunge anche che i miti indiani «non concordano sulla forma degli uomini durante l’esistenza nel grembo della Terra. Alcuni affermano che avessero forma umana mentre altri, con maggiore coerenza, sono convinti che la forma fosse la stessa di certi animali terrestri, come la marmotta, il coniglio o la tartaruga» (Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei, p.28).

Irochesi

In una versione irochese del mito di emersione, i primi uomini sotterranei avevano già forma umana, ma vivevano come bambini, come neonati in una fase di gestazione nel grembo della propria madre. Un mito collezionato da un missionario presso questo popolo di eschimesi dell’estremo nord tramanda che «essi dimoravano nella terra, dove era buio e nessun sole risplendeva. […] Ganawagahha, avendo scoperto per caso un buco che portava in superficie, ne uscì e, vagando sulla terra, trovò un cervo che riportò con sé; sia per il buon sapore della carne che per la favorevole descrizione da lui fatta del paesaggio, la loro madre decise che la cosa migliore per tutti era uscire. Così fecero, e immediatamente si diedero a piantare frumento ecc. Tuttavia, il Nocharauosul, vale a dire la marmotta, non uscì, preferendo rimanere sottoterra come prima» (Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei, p.29). Il mito irochese veicola l’idea che ci sia un prezzo da pagare per non aver lasciato il grembo materno al momento propizio, decidendo altresì di rimanere nell’oscura sicurezza dell’utero materno: l’uomo primordiale che non volle uscire, Nocharauosul, rifiutando l’indipendenza e la maturità, non conobbe l’evoluzione in forma umana ma, anzi, regredì allo stato animale.

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Apache Jicarilla

Secondo il mito delle origini degli Apache Jicarilla del Nuovo Messico settentrionale, «All’inizio la terra era coperta d’acqua, e tutte le cose viventi erano in un mondo sotterraneo. Allora la gente parlava, gli animali parlavano, gli alberi parlavano e le rocce parlavano. […] La gente e gli animali divini volevano più luce, ma gli animali notturni—l’orso, la pantera ed il gufo—volevano l’oscurità». Vi fu quindi un gioco a quattro riprese tra la gente e gli animali divini da una parte e gli animali notturni dall’altra. Finalmente, l’umanità riuscì ad emergere dal mondo sotterraneo, ma «Anche se adesso c’era luce, la gente continuava a vedere poco perché viveva [ancora, ndr] nel mondo sommerso. Ma il sole era abbastanza alto da poter guardare attraverso un buco e scoprire che c’era un altro mondo, questa terra». Essi, quindi, «costruirono quattro tumuli per aiutarsi a raggiungere il mondo che stava sopra» e, dopo svariati tentativi, finalmente ci riuscirono (Erdoes e Ortiz, Miti e leggende degli Indiani d’America, pp. 139-140).

Tuttavia, per gli Apache Jicarilla l’emersione non si è ancora conclusa. In qualche periodo futuro, sostengono, questo mondo non sarà più in grado di sostenere la vita e le persone saranno costrette a risalire nuovamente, fino a un’altra Terra, posizionata al di sopra del cielo. Lo studioso di folklore Morris Opler riferì questo racconto che un Jicarilla gli aveva narrato: «Il sole e la luna sorgeranno come prima. Questo luogo sarà buio, e i popoli seguiranno il sole e la luna. Essi dicono sia rimasto un po’ del materiale con cui venne fatta la Terra… materiale per altre terre e cieli, attualmente conservato da qualche parte, ricoperto da una montagna… Dicono che la Terra dovrà essere distrutta per due volte, una volta dall’acqua, e questo è già accaduto… In futuro essa verrà distrutta per la seconda volta dal fuoco. Prima o poi avverrà, quando l’Uccisore dei Nemici (l’eroe Jicarilla dell’emersione, equivalente ai Gemelli del mitologema Zuni) tornerà. Egli si prenderà cura di questi Indiani prima che accada e li condurrà in un altro luogo, sopra l’attuale cielo» (Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei, p.31). Da questi miti dei nativi americani comprendiamo come, nella loro visione del mondo, la razza umana debba procedere costantemente nel corso delle epoche, per non rimanere indietro nell’evoluzione, bloccata nelle tenebre e nell’oblio dei mondi precedenti, oscuri e sotterranei.

Nativi Americani del Sud-Ovest

I cicli di emersione più conosciuti e meglio documentati sono quelli delle popolazioni native del Sud-Ovest americano, in particolare quelli degli Indiani generalmente indicati con la denominazione di Pueblos, vale a dire Hopi, Navajo e Zuni.

Lloyd R. Moylan (1893-1963), Zuni Creation Myth,
Lloyd R. Moylan (1893-1963), Zuni Creation Myth.

Zuni

Gli Indiani Zuni ritengono che nel grembo della Madre Terra vi siano quattro mondi-uteri sotterranei: lo stesso numero—ci pare curioso notare—dei «soli» o ere precedenti a quella attuale, in cui viviamo noi stessi. Oltre a presentare sempre un simbolismo rigorosamente «ginecologico», i miti di emersione delle popolazioni native del Sud-Ovest americano condividono l’immagine di esseri umani che germogliano allo stato larvale sottoterra, per poi aprirsi faticosamente la via verso la superficie e la luce del sole, guidati dalle imprese di eroi leggendari. Nel mito Zuni, leggiamo che «come molte madri umane si preoccupano per il loro primogenito non ancora nato, lo stesso faceva Madre Terra», la quale chiese al Padre Cielo: «Una volta nati, come potranno i nostri figli distinguere un posto dall’altro, anche alla piena luce del Padre Sole?». Così, per il timore che i propri figli non fossero ancora pronti all’indipendenza, «li tenne nelle profondità del suo utero più nascosto» (Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei, pp.29-30).

Anche gli Indiani Zuni, come gli aborigeni australiani e molte altre popolazioni native, tramandano che prima dell’emersione non vi fosse una differenziazione precisa tra esseri umani e animali. Tuttavia, a differenza delle popolazioni native dell’Australia, per gli Zuni questo tempo primordiale non era affatto tutto rose e fiori, al punto che gli esseri umani primordiali si sentivano come prigionieri del grembo della propria madre. «Gli esseri che sarebbero diventati umani e altre creature dimoravano nell’oscurità come animali non finiti, bruchi o girini. Vivevano in uno spazio ristretto ed erano infelici, strisciavano e ruzzolavano uno sull’altro, brontolando, imprecando, sputando e lamentandosi. Dopo qualche tempo, alcuni di essi esseri cercarono di fuggire. Uno di loro, un eroe di nome Poshaiyank’ya, si arrampicò su per i quattro uteri della Madre Terra e raggiunse la superficie, che in quei tempi era un’enorme e soffice isola. Poshaiyank’ya pregò il Padre Sole di liberare la sua gente, e il Sole, commosso dalla preghiera, venne in suo aiuto. Di nuovo egli fecondò le grandi acque e nacquero altri gemelli, i cui nomi erano Uanam Ehkona e Uanam Yaluna, i Fratelli di Luce e Signori del Genere Umano. I Gemelli presero dei grandi coltelli fatti con la folgore, spaccarono le montagne e con i loro grandi scudi di nuvole irruppero nelle tenebre» (Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei, p.30). Notiamo dunque come, secondo gli Indiani Zuni, l’emersione del genere umano è favorita da una categoria di esseri sovrannaturali, i Fratelli divini dell’umanità attuale, figli del Sole, che si adoperarono per permettere alla nostra razza di conquistare la maturità uscendo dall’utero abissale della Madre Terra.

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Il mito Zuni continua così: «Quando raggiunsero l’Utero dell’Oscura Profondità, i Gemelli vi trovarono molte erbe e tralci di vite. Soffiarono su questi ultimi e ben presto le piante cominciarono a farsi strada verso l’apertura scavata dai Gemelli nella terra. Essi intrecciarono una grande scala di tralci di vite e radunarono gli infelici abitanti dell’utero. Su per la scala li condussero fino al secondo mondo-utero, l’Utero ombelicale o Luogo della Gestazione, che era scuro come una notte di tempesta. Non tutte le creature, però, riuscirono ad arrampicarsi su per la scala. Molte persero la presa e ricaddero nelle tenebre dell’utero inferiore. […] Dopo un breve soggiorno nel secondo mondo, i Gemelli guidarono le altre creature fino al terzo, l’Utero vaginale o Luogo della Generazione Sessuale, simile a una valle illuminata dalla luce delle stelle. Qui le varie tribù di esseri umani e animali cominciarono a moltiplicarsi e diversificarsi, e ben presto il terzo mondo risultò troppo affollato. Di nuovo i Gemelli li guidarono su per la scala di tralci di vite fino al quarto mondo, la Suprema Rivelazione o Utero della Nascita, in cui riluceva una tenue alba. Quando anche questo mondo si riempì oltre il limite, i Gemelli condussero uomini e animali nell’arrampicata finale fino alla superficie della Terra, fino al Mondo Fecondato dalla Luce, della Conoscenza e della Vista», vale a dire quello in cui viviamo attualmente, nell’era del «Quinto Sole».

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Tuttavia, quando raggiunsero la superficie terrestre, i primi umani «avevano l’aspetto di creature delle caverne, con la pelle scura, fredda e coperta di scaglie, orecchie lunghe e larghe come quelle dei pipistrelli e dita dei piedi palmate. Perfino la tenue luce delle stelle feriva i loro occhi di civetta, ed essi strisciavano simili a rane sul terreno, come avevano fatto nelle caverne dei mondi inferiori». Ma presto si abituarono alla luce abbagliante del sole, adottarono l’usanza di coprirsi con vesti e di intrecciare sandali per camminare sulla terra. I primi giorni in superficie, si capisce, furono un trauma per l’umanità nascente. «La Madre Terra, in preda alla collera perché i figli erano sfuggiti alla sua protezione, ribolliva, si scuoteva, si spaccava continuamente, e dalle fenditure fuoriuscivano i mostri che erano rimasti indietro, imprigionati nei suoi uteri. Essi assalivano e divoravano i nuovi esseri umani, ma i Gemelli, che erano tornati a vivere in cielo, scagliarono le loro folgori sulla terra e suscitarono grandi incendi che bruciarono i mostri» (Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei, pp.30-31) Solo dopo l’intervento provvidenziale dei Fratelli celesti, la superficie della terra divenne un luogo idoneo alla vita degli uomini.

Analogie con la mitologia greca

Ci si permetta un breve excursus per sottolineare come diversi passaggi del mito di emersione Zuni ricordino molto da vicino la mitologia ellenica: anche per i Greci la responsabilità della prigionia della primordiale razza di «mostri» (vale a dire quelle creature primordiali che non avevano raggiunto la maturità necessaria all’emersione, e che perciò nel mito Zuni caddero nuovamente negli uteri sotterranei) era di Urano, vale a dire delle divinità celesti. Quest’ultimo, infatti, impedisce che i figli da lui generati con Gea, cioè i dodici Titani, i tre Ciclopi e i tre Centimani, vengano alla luce; la ragione di questo rifiuto risiederebbe nella loro «mostruosità», esattamente come nella tradizione Zuni. Ecco allora che Gea costruisce una falce e invita i figli a disfarsi del padre che li costringe nel suo ventre. Solo l’ultimo dei Titani, Kronos, risponde all’appello della madre, evirando il padre e permettendo così l’emersione dei suoi fratelli. Anche il mito Zuni della battaglia tra i «mostri» e la nascente umanità ci riporta alla mitologia greca, ovvero alla battaglia tra gli dèi Olimpi (equivalenti ai Gemelli o Fratelli di Luce, divinità celesti) e, appunto, i Titani, figli mostruosi di Gea, da lei stessa liberati. Così come nel racconto Zuni i Gemelli «scagliarono le loro folgori sulla terra e suscitarono grandi incendi che bruciarono i mostri», così pure nella tradizione ellenica Zeus e i suoi fratelli celesti li segregheranno nel Tartaro (ovvero, nelle profondità dell’abisso sotterraneo), con la medesima arma: il suo fulmine celeste. La stessa arma è utilizzata anche da Indra, dio della folgore e della tempesta, nel mito vedico in cui uccide Vritra per porre in esistenza il mondo: «Il generoso prese il vajra, l’arma che si lancia, e colpì il primo tra i serpenti. Quando tu, Indra, uccidesti il primo tra i serpenti annientasti anche gli inganni dei mentitori, generando il sole, il cielo, l’aurora. (Ṛgveda I, 32, 2-4).

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Navajo

Il mitologema navajo sulle origini dell’umanità è stato raccolto (1908) dal padre Berard Haile, e pubblicato molto più tardi (1981) nel volume Upward Moving and Emergence. L’emersione avviene attraverso quattro livelli del Mondo Oscuro, cui seguiranno i tre livelli del Mondo Rosso, il livello del Mondo Giallo, quello successivo del Mondo Giallognolo, il livello dell’Undicesimo Discorso e infine l’emersione vera e propria sulla superficie della terra. Questo racconto fa parte della cerimonia tradizionale del Movimento verso l’Alto e dell’Emersione (haneelnéehee), nella quale si narra di come il popolo Navajo riuscì a sconfiggere le malattie del mondo inferiore grazie all’impiego di un potere magico-terapeutico che procede verso l’alto e che contrasta la spinta verso il basso, il disordine, l’oscurità, la malattia, l’indifferenziazione (Enrico Comba, Miti e misteri degli Indiani d’America, pp. 641-642). Anche il mito delle origini degli Indiani Navajo narra di come i primi esseri umani giunsero alla superficie terrestre attraverso una lunga serie di vicende, che li portarono a risalire passo dopo passo una serie di mondi sotterranei. Questi ultimi venivano descritti come semisfere o come edifici, posti l’uno sopra l’altro, per un totale di un massimo di quattordici mondi sotterranei. Ognuno di questi mondi sotterranei viene identificato da un numero, da un colore e dalle varie vicende che vi si svolsero. Il processo di emersione ha inizio dunque nel centro del mondo inferiore e progressivamente si sviluppa, risalendo per mezzo di una lunga ascesa verso il cielo, passando da un mondo sotterraneo al successivo. Si noti, peraltro, che il termine navajo per indicare la terra è naestan, che indica una donna in posizione orizzontale o reclinata.

Anche per i Navajo, in illo tempore, i mondi sotterranei erano abitati da creature indifferenziati, che essi denominano «insetti» o con qualche altro nome di animale, i quali tuttavia non erano come gli insetti o come gli animali che noi tutti oggi conosciamo. Sebbene, infatti, essi avessero caratteristiche comuni con gli animali attuali, avevano altresì il dono della parola e vivevano e si comportavano secondo lo norme e i costumi degli esseri umani: in pratica, erano esseri indifferenziati posti a metà tra lo stato animale e quello umano. «Nel Mondo Sotterraneo Oscuro» dicono «non vi erano uccelli, né alberi, né rocce, neppure uomini come qui. Soltanto il Popolo delle Formiche (e quello degli Scarabei) viveva là». In tutto, le razze di questi «insetti» erano in numero di nove, e si differenziavano per il colore (giallo, rosso o nero) e per la grandezza. Nel secondo mondo sotterraneo, in seguito alla prima emersione, viene rilevato anche un cosiddetto Popolo delle Locuste, che si va dunque ad aggiungere al novero dei popoli-insetto precedenti che emersero dal primo utero sotterraneo. Questi esseri primordiali cercano invano di trovare un luogo dove vivere in pace e armonia, ma ogni volta qualcosa rende la loro residenza inadatta o sgradevole, per il sopraggiungere improvviso delle forze del disordine e dell’oscurità. Con il passare del tempo, nel mondo del Quarto Discorso, accanto agli esseri indifferenziati compaiono altri esseri (Primo Uomo, Prima Donna, Primo Ragazzo e Prima Ragazza), che tuttavia non sono i primi membri della razza umana come la conosciamo oggi: il mito parla di essi definendoli «Persone Anziane» che, tra le altre cose, «praticavano la stregoneria» e che provocavano la morte e le malattie. In questo quarto mondo sotterraneo viveva anche Coyote, chiamato anche Figlio dell’Alba, Figlio dell’Azzurro del Cielo, Figlio del Tramonto della Sera e Figlio dell’Oscurità, una divinità con caratteristiche duplici e luciferine, trickster per eccellenza della tradizione nativa. Comunque, fu proprio il mondo del Quarto Discorso a conoscere l’inizio del Rito di Movimento verso l’Alto, dal che si deduce che tale cerimonia venne inventata proprio dalle Persone Anziane e dal demiurgico Coyote. Furono infatti essi, e non i popoli-insetto dei precedenti mondi sotterranei, ad emergere progressivamente nei vari mondi successivi, grazie appunto alla cerimonia che inventarono. Essi, tuttavia, sapevano che risalendo attraverso il pilastro centrale del Quarto Mondo avrebbero portato con sé un «cesto che contiene malattie e mali di ogni genere» (identico al vaso di Pandora del mito ellenico) ubicato, appunto, all’interno del pilastro centrale su cui essi dovevano risalire per emergere in un nuovo mondo (Enrico Comba, Miti e misteri degli Indiani d’America, pp. 642-648).

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Hopi

Come abbiamo visto, l’idea dell’origine della razza umana dalle regioni sotterranee è comune a tutti i popoli del Sud-Ovest americano. Anche la tradizione Hopi non si discosta: nel loro mito la storia dell’umanità si presenta come una lenta ascesa attraverso diversi mondi sovrapposti, fino ad arrivare alla superficie della terra attuale. Anche per gli Hopi, precedentemente all’emersione, non esiste una differenziazione precisa tra esseri: «Quando il mondo era nuovo, gli uomini e le altre creature non vivevano e le cose non esistevano sopra la terra, ma sotto. Tutto era immerso nella più oscura tenebra, sia sopra che sotto. C’erano quattro mondi, questo mondo (la sommità della terra) e tre mondi cavernosi, l’uno al di sotto dell’altro». Anche nel mito degli Hopi, la necessità di una progressiva emersione nasce dalle condizioni di vita dei mondi sotterranei, che diventano puntualmente inadatti alla vita per il sovraffollamento e la diffusione dei disordini.

Il racconto Hopi ricorda quello degli Indiani Zuni non solo per il numero di mondi sotterranei che attesta (quattro in entrambi i casi), ma anche per il ruolo ricoperto da due figure mitiche, «i Due, due ragazzi, il fratello maggiore e il minore», ovviamente molto simili ai Gemelli della tradizione Zuni, così pure come ad un’infinità di mitici Gemelli o Fratelli divini (Romolo e Remo, i Dioscuri ellenici e via dicendo) che ricorrono nelle tradizioni di tutto il pianeta come eroi culturali o iniziatori della stirpe. Nel mito Hopi, «i Due forarono soffitto delle caverne e discesero nel tenebroso soggiorno degli uomini e degli esseri. Poi essi piantarono l’una dopo l’altra tutte le piante che crescono, sperando che una di queste crescesse fino a raggiungere l’apertura attraverso la quale essi erano discesi e avesse ancora la forza di reggere il peso degli uomini e degli esseri, in modo che arrampicandosi su di essa potessero raggiungere il secondo mondo delle caverne». La pianta che fece al caso dei Due fu la canna, poiché «era fatta a segmenti, così che poteva essere facilmente scalata, e fino a oggi la canna è cresciuta in segmenti come si può vedere oggi lungo il Colorado. […] Lungo questa canna molti uomini e altre creature si arrampicarono fino al secondo livello delle caverne. Quando una parte di loro era salita, temendo che il secondo mondo delle caverne […] risultasse troppo piccolo, essi scossero la scala di canna in modo che coloro che stavano salendo ricadessero giù. Poi tirarono via la scala, per impedire che gli altri potessero salire. Si dice che quelli che rimasero, alla fine, riuscirono a venir via. Sono i nostri fratelli che abitano a occidente». Come nella tradizione Zuni, Navajo, Iroquois e altre, dunque, in ogni fase dell’emersione ci sono esseri che rimangono indietro, bloccati nell’utero oscuro sotterraneo: talvolta sono descritti come esseri immaturi, non ancora indipendenti (la marmotta del mito irochese), altre volte come mostri (Zuni), altre ancora (Hopi) come vittime dell’egoismo degli esseri che ascesero prima di loro (Enrico Comba, Miti e misteri degli Indiani d’America, pp. 674-676).

L’emersione hopi continua attraverso i vari mondi sotterranei: nel terzo utero «tutte le donne divennero pazze: trascuravano ogni cosa per danzare, si dimenticarono persino dei loro bambini. […] Allora non c’erano giorni, ma solo un’unica notte». Gli uomini, determinati a cercare una via di salvezza dall’oscurità che li opprimeva, riuscirono ad ascendere al quarto mondo, ma lo trovarono buio come i precedenti, «perché la terra era chiusa da cielo, così come i mondi delle caverne erano chiusi dal proprio soffitto». Si tratta dunque del nostro mondo, con la sola differenza che al tempo non vi erano luminari in cielo che potevano illuminarne la superficie e permettere alla razza umana una vita consona. Tuttavia, «insieme con gli uomini che vennero fuori […] c’erano cinque esseri: Ragno, Avvoltoio, Rondine, Coyote e Locusta. La gente e questi esseri si consultarono sul modo di produrre la luce». Dopo varie vicissitudini, gli esseri divini riuscirono a porre in cielo le stelle e gli altri luminari ed il mondo fu illuminato. Ma il mito hopi nomina altri ostacoli sul cammino della propria gente: «Altre difficoltà furono incontrate dal popolo sul loro cammino, poiché scoprirono uomini e creature che erano uscite prima di loro. Queste persone facevano guerra poiché erano spinti dai maghi. […] Ora, tra queste persone che erano uscite prima dei nostri antenati, c’era il grande guerriero, il Navaho. Era stato creato e inviato in modo da proteggere tutti gli uomini, perciò era fin dagli inizi un grande guerriero. Ma quando vide quanto fosse potente, egli divenne cattivo e si volse contro coloro che era stato inviato per proteggere. Allora tutti gli uomini si volsero contro di lui» (Enrico Comba, Miti e misteri degli Indiani d’America, pp. 676-681). Come al solito, la figura divina che anticipa la razza umana nell’emersione al piano più alto e che inizialmente la protegge e ne favorisce l’ascesa (Coyote e le Persone Anziane del mito navajo), con il passare del tempo tradisce il suo compito e comincia ad opprimerla. Gli Indiani Hopi diedero a questi esseri il nome dei loro avversari più prossimi per sottolineare l’odio provato nei loro confronti a causa le lotte intestine che dovevano affrontare quotidianamente.

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Come intendere i miti di emersione?

Una lettura comparata dei miti che abbiamo analizzato in questa inchiesta ci porta a una conclusione che, a ben vedere, risulta piuttosto scontata: sarebbe errato prendere alla lettera i cosiddetti «miti di emersione» e pensare realmente che l’umanità sia passata da un mondo sotterraneo (in senso prettamente fisico) al superiore, e così via per una serie di fasi. Come tutti i miti cosmici aventi a tema il mondo delle origini, la creazione del mondo e la venuta ad esistenza della razza umana alla quale apparteniamo, essi veicolano invero concetti più profondi, di cui quello centrale, in questo caso, è indubbiamente l’ascesa del genere umano, attraverso le ere, da uno stato di indifferenziazione con il resto degli esseri (animali, piante e rocce) ad un livello sempre più perfezionato di coscienza, che gli permetta di distinguersi e di elevarsi rispetto agli esseri che, non riuscendo ad emergere, per così dire «rimangono indietro», bloccati ad un livello inferiore, sotterraneo, oscuro, uterino. In altre parole, nelle tradizioni dei nativi americani, il compito principale dell’uomo (e della razza umana in generale) consiste nell’evolvere ciclicamente da uno stato di esistenza inferiore (gli esseri indifferenziati, i «mostri») ad uno superiore, seguendo la via che gli esseri divini hanno creato e progettato (o forse sarebbe meglio dire «battuto») per noi.

Di narrazione in narrazione, puntualmente, viene attestato come l’umanità sia stata sempre aiutata nella sua «emersione» da esseri soprannaturali, talvolta chiamati «Fratelli di Luce», «Persone Sacre», Katchinas dagli Hopi, Gemelli divini e via dicendo. Essi (le «Persone Anziane») si trovano su un livello della scala evolutiva più elevato del nostro, in quanto esistono prima di noi e prima di noi sono «emersi». Molti miti sottolineano il carattere ambiguo di questi esseri, che proprio per la duplicità dei loro comportamenti nei confronti dell’umanità bisognosa di aiuto assurgono non di rado al ruolo di trickster che, se da una parte favoriscono gli esseri umani ad emergere dai mondi sotterranei, dall’altra in seguito si macchiano di colpe imperdonabili nei confronti della razza umana, portandole malattie e sventure. In tali narrazioni, riconosciamo l’eco di una verità ancestrale che si perde nella notte dei tempi: l’esistenza di esseri divini che in Occidente sono stati denominati «Titani» o, nella tradizione giudaico-cristiana, «Angeli caduti». In altre parole, si tratta di quegli esseri variamente denominati (gli spiriti della tradizione sciamanica, i «Vigilanti» enochiani, etc) che hanno da sempre esercitato un’influenza indelebile sulla storia della razza umana, talvolta in modo benevolo—conferendole costumi, cerimonie sacre e conoscenze, come appunto quella del «Movimento verso l’Alto», vale a dire «dell’ascesa spirituale»talvolta, invece, opprimendone l’esistenza con la loro tracotanza, la colpa di cui si macchiarono i Titani scaraventati da Zeus nel Tartaro e gli «Angeli ribelli» scagliati nell’Abisso dal dio dell’Antico Testamento.

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Si noti, comunque, che seguendo questa ipotesi bisogna riconoscere l’inesistenza di una distinzione rigida tra animali, uomini e dèi: per meglio dire, gli esseri spirituali che i nativi americani denominano «Persone Sacre» sono stati, in un Sole precedenti, esseri del nostro stesso livello che sono poi ascesi ad un livello superiore, emergendo prima di noi. Per questo sono detti anche «Persone Anziane», poiché ci hanno anticipato sul cammino evolutivo ed ascensionale. A giusta ragione, dunque, il filosofo presocratico Eraclito intuì che «L’uomo è un dio mortale, il dio è un uomo immortale». Inoltre, non vi è una distinzione effettiva tra uomini e animali: questi ultimi, nei prossimi Soli, potranno anch’essi perfezionare il loro livello di coscienza ed emergere; allo stesso modo l’uomo adamico, in tempi ancestrali, esisteva in una forma primordiale, non ancora matura per l’emersione. Tutto il discorso si applica, dunque, all’intera gamma degli esseri, dalla roccia all’angelo.

La «canna» o il pilastro centrale tramite cui, nel rituale del «Movimento verso l’Alto», lo sciamano e con lui l’umanità tutta ascende ad un livello superiore, è chiaramente il simbolo dell’Axis Mundi, l’Albero Cosmico presente in tutte le tradizioni antiche. Si pensi solo alla liana su cui lo sciamano dell’Amazzonia sale al mondo degli spiriti o discende al mondo infero; si pensi anche alla biblica «scala» di cui Giacobbe sperimentò la visione durante uno stato di coscienza che potremmo definire, indubbiamente, «sciamanico». Potremmo inoltre ricordare quanto si dice sulla «Scala degli Esseri» nel trattato alessandrino intitolato Corpus Hermeticum e attribuito al mitico Ermete Trismegisto e molto altro ancora; riteniamo, tuttavia, che gli esempi da noi proposti possano, nel presente lavoro, essere sufficienti ad illuminare il lettore (per altri esempi di «pali cosmici» nelle culture sciamaniche, si consulti il mai superato Lo Sciamanismo e le tecniche dell’Estasi di Mircea Eliade). La forma del tapee, la tenda degli Indiani in cui si svolgono le cerimonie sacre di invocazione degli spiriti, inoltre, ricalca anch’essa i miti di emersione: la sua forma a imbuto verso l’alto, con un foro sulla parte superiore per permettere la discesa degli spiriti in essa e la salita dello sciamano al mondo superno, svela uno schema che si ritrova pressoché in tutte le parti del mondo, dagli eschimesi Inuit ai popoli indoeuropei (nei templi indù, ad esempio, è obbligatorio che sul soffitto vi sia un’apertura per permettere il dialogo con le potenze superne). In verità, ogniqualvolta troviamo un’apertura sul soffitto o sul punto più elevato di un’edificio, dobbiamo interpretarla come una porta d’accesso a un regno superiore dell’essere: chi avrà la maturità sufficiente, durante un rituale sacro, per emergere dal mondo sotterraneo in cui si trova, potrà accedere al livello superiore passando metaforicamente da questa apertura, così come fecero nel mito i suoi antenati quando, emergendo, passarono da un mondo inferiore ad uno superiore.

Dal momento in cui, come si dice in molteplici narrazioni mitiche, «l’accesso al cielo fu bloccato», «il palo cosmico fu distrutto» (in alcuni miti, come quello degli Hopi, da «coloro che erano già saliti») e altre locuzioni simili, la conoscenza del mondo superiore e dei mezzi per accedervi venne irrimediabilmente persa, rimanendo unicamente prerogativa dello sciamano, vale a dire di quella ristretta categoria di individui che nelle ere di disordine ed oscurità riesce, nonostante tutto, a riconnettersi con il «pilastro centrale» di questo mondo, per conversare con gli spiriti nel mondo superno o incontrare le anime dei defunti nel mondo infero (vale a dire i vari mondi «sotterranei» rispetto a quello in cui viviamo, ovvero i «mondi-uteri» delle narrazioni mitiche native). D’altra parte, se la nostra analisi è corretta, anche il nostro mondo, se confrontato a quello superno in cui abitano gli spiriti più elevati, è un vero e proprio «utero», un «mondo sotterraneo» in cui, in questo ciclo attuale, l’umanità si trova imprigionata e da cui, quando il disordine e l’oscurità diverranno insopportabili, avrà la possibilità di fuggire e di liberarsi, seguendo la via delle «Persone Sacre»: emergendo, con un «Movimento verso l’Alto». In questo fatidico momento futuro avrà luogo il ritorno della divinità denominata dagli Apache «Uccisore di Nemici», il cui compito è uguale a quello di Kalki per gli induisti e di Maitreya per i buddhisti (nonché a quello di Cristo nella sua futura «Seconda Venuta»): permettere ai membri meritevoli della razza umana l’ascensione, per non rimanere bloccati nell’oscurità e nel disordine, nel «mondo sotterraneo» del prossimo Sole.


Bibliografia

  1. Enrico Comba, Miti e misteri degli Indiani d’America (Utet, 2001).
  2. Mircea Eliade, Lo Sciamanesimo e le tecniche dell’Estasi (Mediterranee, 2005).
  3. Richard Erdoes e Alfonso Ortiz, Miti e leggende degli Indiani d’America (Mondadori, 1994).
  4. Walter Kafton-Minkel, Mondi Sotterranei (Mediterranee, 2012).
  5. Rig-Veda (Psiche, 1998).

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