Portfolio nativo. Perennialismo indiano e Regno della quantità

«Il ritorno dei Popoli delle Stelle». Gli X-Files delle Riserve Indiane

Solitamente, quando si parla di UFO e “abduction aliene”, si tende erroneamente a considerare il fenomeno come esclusivamente occidentale, per lo più limitato ai cittadini americani di discendenza europea. Tuttavia, sul medesimo suolo statunitense, anche i nativi amerindi che vivono all’interno delle riserve hanno molto da raccontare a riguardo, e dopo decenni di silenzio si sono aperti con l’autrice Ardy Sixkiller Clarke, che ha raccolto le loro testimonianze in alcuni libri, fra cui «Il ritorno dei Popoli delle Stelle», recentemente tradotto in italiano da Venexia Editrice.

Yenaldooshi, lo “Skinwalker” mutaforma del folklore Navajo

Skinwalker, “Colui che cammina nella pelle”, è una parola inglese che traduce in modo impreciso il termine navajo Yenaldooshi o Naglooshi, che significa letteralmente “con esso, cammina su tutte e quattro”. Entrambe queste definizioni si riferiscono a un particolare tipo di “mutaforma” del folklore Navajo, uno stregone in grado di assumere le forme di diversi animali indossandone la pelle. Gli Skinwalkers possono tramutarsi in lupo, cervo, corvo, gufo o anche in palle di fuoco sfreccianti nel cielo, ma la metamorfosi più ricorrente che viene a loro associata è quella in coyote. Il risultato è un ibrido mostruoso, che si aggira di notte nelle terre desolate del sud ovest degli Stati Uniti, recando dolore e tormento agli uomini. Gli Skinwalkers possono muoversi a grande velocità, tanto da eguagliare un’auto in corsa, ma i loro movimenti non sono mai del tutto naturali: le impronte che lasciano sul suolo sono scoordinate, e c’è chi racconta di averli visti correre all’indietro, con gli arti ritorti in posizioni impossibili.

Il simbolismo della Spirale: la Via Lattea, la conchiglia, la “rinascita”

di Marco Maculotti

Avendo analizzato nei mesi scorsi [cfr. Culti cosmico-agrari dell’antica Eurasia] una serie di riti, miti e deità connessi alla tematica della rinascita cosmica, vogliamo in questo appuntamento e nei prossimi concentrare la nostra attenzione su alcuni simboli, cui abbiamo già accennato, che l’uomo arcaico riconobbe come immagini in grado di elevarlo escatologicamente verso la comprensione di tale mistero.

I segreti di Twin Peaks: il “Male che viene dal bosco”

di Marco Maculotti

«Ci rivedremo fra 25 anni»—così promise Laura Palmer, intrappolata nella dimensione parallela denominata «Loggia Nera», all’agente Dale Cooper nell’ultima puntata della seconda stagione de I segreti di Twin Peaks, andata in onda in U.S.A. il 10 giugno 1991. Quella che fino a poco tempo fa sembrava destinata a rimanere una promessa senza seguito è invece ora sul punto di essere mantenuta: il 21 maggio andrà infatti in onda in America la prima puntata della terza, attesissima stagione del serial, che riprenderà il discorso esattamente da dove lo avevamo lasciato, con uno iato di un quarto di secolo. In attesa che l’episodio pilota della nuova stagione giunga sui nostri schermi televisivi (26 maggio, sul canale Sky Atlantic) vogliamo proporre ai nostri lettori un’analisi dei temi più specificamente “esoterici” che hanno reso Twin Peaks un vero e proprio evento mediatico degli anni Novanta.

I «miti di emersione» nelle tradizioni dei Nativi Americani

di Marco Maculotti

Secondo molte tradizioni mitiche, in principio i primi membri della razza umana furono generati nelle viscere della Terra, all’interno di mondi sotterranei simili a uteri cavernosi. I miti di emersione, particolarmente diffusi tra le popolazioni native americane, ci forniscono i migliori esempi di tali regni sotterranei. I racconti mitici narrano di come i primi esseri umani vennero portati in superficie per vivere alla luce del sole solo dopo essere rimasti a lungo sotto la superficie terrestre, allo stato—per così dire—«larvale», e dopo aver sviluppato una forma fisica rudimentale e una coscienza umana. Secondo le popolazioni native, questa emersione dal mondo sotterraneo segna la nascita dell’uomo dell’era attuale—o, per usare una locuzione tipica delle popolazioni americane, del «Quinto Sole»—e rappresenta anche la transizione dall’infanzia e dalla dipendenza dal grembo della Madre Terra alla maturità e all’indipendenza.

Il genocidio dei nativi nelle Scuole Residenziali Indiane canadesi

[Estratto dall’elaborato di laurea Il riconoscimento dei diritti dei Popoli Nativi del Canada, 2015]

Il sistema delle scuole residenziali indiane

Una delle pagine più vergognose riguardanti le istituzioni federali canadesi è senza dubbio quella riguardante il settore educativo. Già nella seconda metà dell’Ottocento, la Corona britannica aveva gettato le basi—prima con il Gradual Civilization Act del 1857, poi con l’Indian Act del 1876—per rendere le popolazioni native una mera materia di propria competenza, etichettandoli di fatto come una categoria legalmente inferiore di cittadini canadesi. L’obiettivo della Corona era ovviamente quello di assimilare le popolazioni native all’interno del framework legale canadese per renderli di fatto propri sudditi. Ciò divenne possibile a partire dalle teorie razziste che i coloni inglesi ed i missionari cattolici condividevano: gli “indiani” rappresentavano un grado inferiore di civiltà e civilizzazione, la loro religione era demoniaca, compito degli europei “civilizzati” e timorati da Dio sarebbe stato quindi quello di “uccidere l’indiano che c’era in loro” per rendere possibile al tempo stesso la conversione all’ “unico vero Dio” e l’assimilazione all’interno del sistema legale di matrice occidentale che si stava rapidamente formando. La Corona inglese e le quattro Chiese cristiane (Cattolica Romana, Anglicana, Presbiteriana e Metodista) arrivarono alla conclusione che il modo più rapido e sicuro per assicurare l’assimilazione forzata dei nativi avrebbe dovuto basarsi sull’educazione delle nuove generazioni: per questo a partire dagli ultimi anni del XIX secolo migliaia di bambini nativi vennero prelevati forzatamente alle famiglie per dare il via al programma delle Scuole Residenziali Indiane.

I misteriosi indiani Natchez, Figli del Sole

Tra la miriade di popolazioni che abitarono in passato le vaste praterie dell’America settentrionale, un capitolo a parte meritano i Natchez della valle meridionale del Mississippi. Essi infatti, pur appartenendo alla confederazione di tribù Cree di lingua muskogee, parlavano un dialetto peculiare e ben distinto da quello delle altre popolazioni del Sud-Est, denominato Natchesan. Dalle poche fonti che la storia ci ha tramandato sembra che la loro cultura, di tipo sedentario, sia nata intorno al 700 d.C. e che sia stata fortemente influenzata dalle grandi civiltà mesoamericane, in particolar modo per quanto riguarda il culto del Sole—e del sovrano divinizzato in quanto suo figlio—e la pratica volontaria dell’immolazione come pratica degna del massimo onore.

Il “Piccolo Popolo” nel folklore dei Nativi Americani del Sud-Est

Il folklore delle popolazioni native del Nord America fornisce una vastissima ricorrenza di leggende su una “piccola razza di uomini” che vive nel profondo dei boschi, nei pressi degli antichi tumuli funerari o di rocce in prossimità dei corsi d’acqua o dei Grandi Laghi. Nelle narrazioni mitiche, sono spesso descritti come “nani dal volto irsuto” (“hairy-faced dwarfs”), mentre alcuni petroglifi li raffigurano dotati di corna mentre viaggiano su una canoa in gruppi di cinque o di sette. Tra le popolazioni amerindiane, la gente si riferisce ad essi con i nomi di Kanaka’wasa, Nuh-na-yie, Iyaganasha e altri. Secondo le narrazioni tradizionali, si tratta di una popolazione di esseri molto piccoli, alti meno di un metro. A parte l’informazione sulle loro piccole dimensioni si sa poco sul loro aspetto fisico (tuttavia, molte testimonianze li descrivono dotati di lunghe barbe canute e con indosso abiti di fattura molto antica—similmente alla tradizione europea di Gnomi et similia), poiché essi rimangono perlopiù invisibili, eccezion fatta per le persone a cui decidono spontaneamente di mostrarsi (bambini o medicine men).

La credenza nel Piccolo Popolo non è diffusa solo in Europa, ma anche fra le popolazioni native dell’America settentrionale. In questo articolo analizziamo il corpus di credenze relative al “popolo nascosto” nelle tradizioni Cherokee, Choctaw, Creek, Seminole e Chickasaw

Il Sacro Cerchio del Cosmo nella visione olistico-biocentrica dei Nativi Americani

“Il cerchio era sacro agli Amerindiani perché indicava una Via di Comprensione. Forniva un mezzo per capire il Cosmo, i misteri della vita e della morte, la mente e l’individualità dell’Io. Con il cerchio lo sciamano amerindiano poteva mostrare come funzionava il Cosmo, come le leggi della Natura e del Cosmo governavano tutti gli esseri viventi, come scoprire la relazione fra l’uomo e le altre forme di vita sul Pianeta e come entrare in armonia con la Natura, con il Grande Spirito e con il proprio Spirito.”

[Estratto dall’elaborato di laurea Il riconoscimento dei diritti dei Popoli Nativi del Canada, 2015]

Per millenni, gli indiani d’America hanno considerato la terra come una chiesa, le mesas come altari, tutto il creato come pervaso da sacre forze vitali, in un cerchio universale di eguali, gli uni correlati agli altri in un equilibrio vitale. 200 L’habitat rappresenta il palcoscenico su cui si esibiscono il regno degli spiriti e il mondo fisico. Le piante, le forze della natura, gli astri celesti, gli esseri umani, le erbe che curano e consentono le visioni, fanno tutti parte di un “sistema a conduzione familiare”, 201 in cui tutti sono parenti, “tutti egualmente figli della Grande Madre Terra”. Il cerchio dell’universo nativo contiene in un tutt’uno inscindibile l’intero mondo esistente, fisico e spirituale. Grazie a quanto abbiamo detto in precedenza sull’importanza della c.d. legge di reciprocità nella filosofia tradizionale nativa, non è difficile comprendere che sia proprio tale principio a fare da fondamento a questa particolare visione olistica del cosmo come organismo unico composto da una moltitudine di parti interconnesse ed interdipendenti le une dalle altre.

La psicosi nella visione sciamanica degli Algonchini: Il Windigo

di Marco Maculotti

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Le popolazioni aborigene del Canada, spesso stanziate nelle riserve limitrofe al confine con gli Stati Uniti, sono oggi divise in tribù che portano nomi diversi (Algonchini, Cree, Ojibwa), sebbene continuino perlopiù a condividere una visione molto simile dell’uomo e del suo rapporto con la natura e con gli spiriti – e, come è facile immaginare, una medesima mitologia. Nell’universo magico-sciamanico che fonda la visione di queste popolazioni – oggigiorno l’ultimo baluardo della sapienza che contraddistinse per secoli l’intera popolazione nativa dell’America settentrionale – gli spiriti con cui l’uomo può entrare in comunicazione sono chiamati generalmente manitu – lo stesso vocabolo che, con la maiuscola, identifica l’Essere divino universale, l’energia sacra che tutto permea.

Diversità culturale e giustizia nativa: il “sentencing circle” e l’utilizzo sacrale del peyote tra i popoli nativi del Canada

[Estratto dall’elaborato di laurea Il riconoscimento dei diritti dei Popoli Nativi del Canada, 2015]


In seguito alla redazione della Costituzione del 1982 e della Carta Canadese dei Diritti e delle Libertà, molti accademici, giuristi esperti in criminal law e rappresentanti delle First Nations hanno domandato a gran voce l’implementazione di un procedimento giudiziario più coerente con i valori e le tradizioni native.  La possibilità, riguardante la creazione di un procedimento penale alternativo, che tenga in considerazione la visione giuridica nativa e i principi che la caratterizzano, si inserisce nel discorso più ampio riguardante il processo verso l’autodeterminazione e l’autogoverno che le popolazioni native del Canada hanno da qualche decennio imboccato.

La tradizione orale delle “Big Stories” come fondamento della legge delle popolazioni native del Canada

[Estratto dall’elaborato di laurea Il riconoscimento dei diritti dei Popoli Nativi del Canada, 2015]

imageserverLe First Nations del Canada utilizzano la tradizione orale per registrare informazioni considerate di primaria importanza, che vengono raccolte e condivise attraverso una forma di letteratura che tiene in gran conto la memoria e la parola parlata. La trasmissione orale permette che i sistemi normativo-comportamentali delle popolazioni autoctone siano sottoposti, giorno dopo giorno, generazione dopo generazione, ad una continua creazione. Un punto di forza di questa metodologia è la possibilità di reinterpretare le tradizioni in modo tale da scendere a patti con le necessità del mondo contemporaneo, senza che la verità o i principi su cui si fondano i racconti vadano persi. Piuttosto, la necessità di una continua modifica si basa sulla comprensione che il contesto sociale cambia di continuo, e di conseguenza richiede una costante reinterpretazione di alcuni degli elementi narrativi. La fluidità dei racconti delle First Nations riflette il tentativo di rendere attuale il senso più profondo delle narrazioni, adattandolo di tempo in tempo ai bisogni degli ascoltatori