di Ascanio Modena Altieri
copertina: Ferdinand Keller, “A classical landscape”, 1902
originariamente pubblicato su L’Intellettuale Dissidente
Abbiamo già avuto modo di conoscere alcune festività del nostro antico calendario [cfr. Lupercalia: le celebrazioni catartiche della Februa], ma ciò che rotea attorno alle celebrazioni non sempre è facilmente visibile o concepibile. Il culto di Anna Perenna si proietta e si disperde numerosissimi secoli addietro rispetto alle fonti e ai ritrovamenti archeologici di cui si andrà a parlare.
Partendo da un’analisi etimologica, scopriamo immediatamente che la divinità in questione ha nel proprio nome la prima chiave di lettura. La parola sanscrita “Anna” – che in latino darà vita al termine “Annona” – indica il chicco di riso o il grano bollito, in senso più ampio la si può accostare all’alimento mistico, in ultima battuta al defluire delle acque; sempre dal sanscrito, la parola “Purna” è accostabile ai nostri: pieno, perfetto o completo. La comparazione con la Dea del pantheon induista Annapoorṇā, avatāra di Parvati, moglie di Shiva, il cui significato letterale corrisponde a “Colei che ha molto cibo da dare” appare ben fondata.

Già solo scandagliando l’origine semantica, possiamo affermare la primordiale origine indoariana della divinità, una figura sacra profondamente stratificata nel mito millenario e destinata ad immergersi maggiormente nel mondo spirituale occidentale ed indigeno. Nessuno più di Ovidio nei suoi Fasti, ci narra minuziosamente del culto e delle numerose origini che ammantano la Ninfa. Per sua natura, il poema epico incompiuto del prolifico autore sulmontino, andava a riscoprire e a dare nuova evidenza, all’interno del grande progetto di restaurazione religiosa avviata dal Divo Augusto, ai culti prischi e ancestrali [cfr. Sangue, Gens, Genius: riti familiari a Roma antica], ovviamente ancora praticati, ma di cui gli stessi officianti e adoranti ricordavano poco o nulla.
Anna Perenna diviene dunque sorella di Didone, fuggita dopo il suicidio della fondatrice e regina di Cartagine, per poi giungere infine nel Lazio, ove il culto si consolidò passando dapprima per Laurento, poi a Boville ed infine a Roma. Enea accolse con favore Anna, tuttavia essa si attirò le invidie di Lavinia e, dopo una prodigiosa visione notturna della sorella defunta, la quale la esortava a fuggire dall’accoglienza del Pio, decise di scappare, finendo però vittima dei flutti del cornigero fiume Numicio. Da nobile fuggitiva di fenicia stirpe, Anna divenne così deità legata all’abbondanza e alla prosperità.
Le squadre di ricerca non tardano a mobilitarsi, ma l’apoteosi era già avvenuta. Ovidio ci tramanda alcune parole, a quanto pare udite da coloro che si avvicinarono per primi alle ultime impronte rimaste visibili di Anna:
Sono la ninfa del placido Numicio; nascosta in un fiume perenne (amnis perennis), mi chiamo Anna Perenna.
Fu così che ebbe inizio una nuova tradizione cultuale. Ovidio ci conferisce numerosi spunti sulle origini di Perenna, fra cui questa curiosa sequela:
Vi è chi ritiene che questa dea sia la Luna, perché con i suoi mesi completa il circolo (annus); altri pensano che sia la dea della giustizia, Temi, altri la vacca di Inaco, Io. Troveresti anche chi dice che sei una ninfa, figlia di Atlante, e che tu, Anna, desti i primi nutrimenti a Giove.
Questa ultima parte, incentrata sull’Anna nutrice di Giove, ci riconduce naturalmente ad alcuni avvenimenti dell’Annada Mangal poema in sanscrito scritto dal bengalese Bharatchandra Ray fra il 1752 e il 1753. In questo testo, viene dispensato a Shiva del riso bollito proprio da Annapoorṇā. A supportare il forte legame fra queste due entità divine, giunge in nostro soccorso l’ennesimo episodio, sempre narratoci da Ovidio: era il 494 a.e.v. anno della prima secessio plebis, i concitati attimi in cui la plebe, desiderosa di vedersi riconosciuti diritti maggiori, se non eguali, a quelli del patriziato, decise di spostarsi in grandi quantità sul Mons Sacer, la collina a nord di Roma presso l’Aniene, in quello che gli storici definiscono come uno dei primissimi scioperi della storia.

Durante i giorni che avrebbero vista riconosciuta alla plebe la rappresentatività per mezzo dei tribuni, degli edili e del concilium plebis da cui questi venivano eletti, la leggenda si aggroviglia alla cronaca accertata. Presente fra la massa, vi era una vecchina dai capelli bianchi raccolti, di nome Anna, proveniente dai sobborghi di Boville: l’amata donnina si prodigava ogni mattina per la salute della plebe rivoltosa impastando con le sue mani tremolanti delle focaccine, le quali venivano poi dispensate ancora calde fra i vari scioperanti. Ottenuti i risultati sperati, il popolo tornò a Roma e decise di erigere, a sue spese, una statua alla vecchia Anna, che tanto si era presa cura di loro.
Come Annapoorṇā, la donna onorata dai Romani fu dispensatrice di cibo e letizia, pertanto, venne successivamente assimilata alla figura della Magna Mater. Ancora Ovidio, ci racconta un’ultima simpatica storiella avente come protagonista Anna Perenna, nelle vesti di una signora anziana e poco gradevole alla vista e il Dio Marte, invaghito della vergine Minerva:
Da poco Anna era stata fatta dea e Marte va da lei, la prende da parte e le fa questo discorso: “Tu sei venerata durante il mese a me dedicato, io ho unito la mia stagione alla tua e ripongo grande speranza nei servigi che mi puoi dare. Dio armato, per l’armata Minerva brucio, rapito d’amore, e da lungo tempo tengo viva questa ferita. Tu devi fare sì che noi, divinità simili nelle inclinazioni, ci si unisca in uno: a te si addicono questi ruoli, cara vecchia amica.” […] Le crede l’amante e prepara il talamo; vi si conduce Anna, con il volto velato come una sposa novella. Mentre sta per baciarla, d’improvviso Marte riconosce Anna: vergogna e ira scuotono il dio beffato. Tu fai un tiro mancino all’amante; tu, novella dea, sei cara a Minerva, e per Venere non vi fu mai cosa più gradita. Perciò, si cantano antichi frizzi e lazzi osceni, e ci si diverte dell’inganno di Anna al grande dio.

Questo evento, dalle tinte platealmente comiche, ci permette di addentrarci fra i dettagli del culto in onore della Ninfa. Le idi di marzo, giorno 15, data divenuta nefasta dopo il tragico parricidio, erano dedicate proprio ad Anna Perenna; si trattava infatti, secondo l’arcaico calendario, non solo dell’inizio del nuovo anno, ma anche dell’entrata e venuta della primavera: Anna torna così ad essere signora dei flussi temporali e delle rinascite telluriche. Durante tale giorno, ci viene narrato sempre da Ovidio, di come molte persone, soprattutto plebei, si recassero allegramente verso un boschetto che sorgeva nei pressi dell’attuale zona di Monti Parioli, ove sorgeva una meravigliosa fonte di limpida acqua. Non è un caso che gli assassini del Divo Cesare decisero di agire in quel giorno, proprio quando Roma era semi deserta.
Si trattava di una festività al limite dell’orgiastico, un rito di perdizione ma al contempo di ritrovamento con una dimensione naturale e spirituale che non si riusciva più a percepire nel mondo urbano. Le persone si distendevano sui prati del bosco e sotto le fronde degli alberi, alcuni si creavano persino delle tende utilizzando bastoni e toghe ben stese, le ragazze si divertivano a rincorrersi a capelli sciolti al vento – cosa impensabile per la decenza romana – nel mentre bevevano a più non posso, diluendo il vino con la fresca acqua che sgorgava dall’ancestrale fonte. Ovidio a tal riguardo, ci dona un divertente dettaglio:
Intanto, accaldati dal Sole e dal vino, pregano di vivere tanti anni quanti sono i boccali che bevono, li contano e li bevono: vi troveresti uomini che hanno bevuto più degli anni di Nestore e donne che avrebbero l’età della Sibilla, per quanti bicchieri si sono fatte.
Si riafferma nuovamente l’Anna detentrice di un potere legato allo scorrere, non solo dei liquidi e dei solidi intesi come nutrimenti, ma anche degli eoni. A fine giornata, dopo competizioni boschive di arcana natura e sfrenati balli di gruppo in cerchio, i cortei di paonazzi adoratori facevano ritorno in città e chi li incontrava sulla propria strada tendeva a compiacersi per loro, chiamandoli fortunati.
Ma al di là delle fonti letterarie, siamo in grado oggi di avvalorare la presenza concreta di questo culto? La risposta è sì e non solo. Nell’ottobre del 1999 a Roma, all’angolo fra Piazza Euclide e Via Guidobaldo del Monte, durante degli scavi per la costruzione di un parcheggio sotterraneo, ad una profondità compresa tra i 6,2 e i 10,3 metri, tornarono alla luce una quantità inestimabile di reperti legati al culto di Anna Perenna e come se non bastasse, venne finalmente rinvenuta una doppia cisterna calcarea: la fonte era stata riscoperta.
Un mese dopo la sovrintendenza si mobilitò e i lavori vennero doverosamente interrotti; poco dopo venne notato come vi fosse, esattamente al termine delle due collinette tra Via Civivini e Via Archimede, ove venne riscoperta la fonte, una falda acquifera ancora attiva e senza dubbio monumentalizzata in epoca repubblicana. Il lavoro archeologico ci permette di datare con precisione la costruzione e l’utilizzo del complesso: si tratta di una fontana a doppia vasca rettangolare risalente al IV secolo a.e.v. su modello greco, infatti era dotata di una grande cisterna retrostante e lievemente sopraelevata rispetto alla fontana.
Dalla grossa vasca di raccoglimento, utilizzata anche per l’abbeveraggio del bestiame e per molte altre pratiche che andremo a vedere a breve, fuoriuscivano dei tubi che permettevano all’acqua di sgorgare e di essere raccolta all’interno della fontana vera e propria, destinata ad essere usata dai passanti e dagli adoratori. Questa, era abbellita da alcuni cippi votivi e da una piccola ara su cui vi è scritto: “Nymphis sacratis Annae Perennae” ovvero “Alle ninfe consacrate ad Anna Perenna” con la presenza di una data: 5 aprile 156 p.e.v., cosa che rende il reperto ancora più raro e prezioso. Una simile indicazione temporale – regnava il Divo Antonino Pio – ci induce a pensare che possa essere esistito un vero e proprio apparato misterico dietro a tale culto, ma ciò, al momento, non possiamo confermarlo.

Se dapprima la fonte era utilizzata per i riti ad Anna Perenna, con il prolungarsi dell’età imperiale, l’estrema orientalizzazione e l’affermarsi dei culti misterici, la fonte divenne in epoca tardo antica il punto di ritrovo di numerose fattucchiere e maghi professionisti. Si potevano incontrare, attorno al cisternone, molti fruitori delle arti occulte, soprattutto dediti a quella che oggi si può definire magia nera, già all’epoca vista malamente poiché legata al vasto mondo delle superstizioni, assolutamente non congeniale e scarsamente accettabile dall’apparato tradizionale romano. Entriamo così, in punta di piedi, in un campo che di terreno ha mantenuto solo la volontà scatenante di chi si è affidato alla stregoneria.
Il cisternone, dopo una serie di attenti scavi, ci ha donato una vastissima serie di reperti ottimamente conservati e oggi esposti al Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano: 549 monete dall’epoca del Divo Augusto fino al malevolo Teodosio, offerte come si usava fare nei santuari – le monete precedenti al primo Principe vennero probabilmente raccolte e riutilizzate dopo un restauro – 74 lampade in terracotta per uso rituale, di cui alcune contenenti piccole maledizioni, alcune tavolette d’argilla con testi magici incisi sopra, nove contenitori di piombo contenenti sette figurine antropomorfe, tre grosse brocche di ceramica, un paiolo in rame –il celeberrimo caccabus– utilizzato appositamente per la creazione di pozioni magiche con evidenti segni di bruciature, sette pigne, svariati gusci d’uovo, lamelle e tavolette fatte con svariati tipi di legno.
Torniamo in possesso di un tesoro meraviglioso quanto oscuro e ricco di simbologie che meritano una degna analisi. Considerato che la fonte verrà utilizzata circa fino al VI secolo p.e.v. non possiamo stupirci di come il popolino si fosse dedicato più alla religiosità di stampo esoterico e magico, in mancanza di un decaduto assetto cultuale di stato plurale, quale fu il politeismo sincretico romano. Si ripresentano così alla luce le tabellae defixionum contenenti le ben note defixiones, dal latino defigere, inchiodare, penetrare, bloccare, ovvero le maledizioni, indirizzate verso qualcosa o qualcuno, solitamente incise su delle lamine di piombo preparate per ogni occasione, dal crudele augurio fino alla richiesta più paupera. Di questa arcaica forma di goezia – magia nera praticata e sviluppata dal Re Salomone – erano vittime soprattutto gli aurighi o gli arbitri, ma anche molti avversari politici e amorosi, i quali venivano rappresentati sulla lamina o per mezzo di bamboline di cera, ove venivano incisi svariati simboli magici e malauguranti.

Questo era un settore dove gli esperti erano decisamente e necessariamente richiesti, non era un caso dunque, ritrovare personaggi noti per le loro abilità nel padroneggiare le arcane materie nei pressi di tale fonte verso il IV secolo p.e.v., un’epoca in cui l’incertezza spirituale e la spasmodica ricerca della ricchezza terrena condurrà molti del popolino ad affidarsi a culti che prevedevano un largo uso delle forze occulte e magiche.
A permeare queste pratiche troviamo – anche grazie alle tavolette rinvenute – alcune figure ben note al mondo mitraico e gnostico, come il potente Dio Abraxas [cfr. Il dio primordiale e triplice: corrispondenze esoteriche ed iconografiche nelle tradizioni antiche], grande Eone e Padre Ingenerato, immenso e misterioso ponte fra l’oriente zoroastriano e l’occidente tradizionale romano. Su alcune tavolette e contenitori, Abraxas diviene talvolta difensore e simbolo di invincibilità, in altre persecutore e punitore, confermando la natura del Dio quale altissimo punto di congiunzione fra le realtà del bene e del male, della luce e dell’oscurità, fra Ahura Mazda ed Ahriman e più a latere, sommo sincretismo simbolico fra politeismo e monoteismo.

Senza voler rubare altro spazio da dedicare alle ricerche personali, non possiamo non ricordare, in luce di ciò che abbiamo imparato a conoscere, di come oggi sia ridotta Piazza Euclide. Sopra alla famosissima fonte, con il passare degli anni, sono fallite numerosissime imprese e altrettanti esercizi commerciali hanno chiuso i battenti dopo non molto tempo dall’apertura, nonostante la riscoperta del sacro sito. Oggi la sede soprastante ospita uno dei tanti ristoranti orientali gestito da cinesi, chissà come gli andrà a finire. Su una cosa però possiamo esser certi: l’aver ignorato per lungo tempo la presenza di una così antica ed influente divinità, ancor prima rispetto alla fonte in questione, da parte dei residenti, ha reso Piazza Euclide un crogiuolo di decadenza e di degrado difficilmente comparabile ad altri luoghi dell’Urbs.
L’ira della bella vecchina si è da tempo abbattuta sugli ignavi giovani che ne percorrono le strade e sulle indegne genti che si son scordate di lei e della sua perenne generosità. Un appello a chi legge: da oggi, ricordata la dipartita e ascesa del Divo Cesare, ogni 15 di marzo, non tratteniamoci dal bere vino e dall’andare a farci una scampagnata nel ricordo delle nostre autentiche radici culturali e spirituali. Non manchiamo di effettuare plurime volte il tradizionale augurio: “Annare perannareque commode” possiate dunque trascorrere tutti, fra magie contemporanee e Dee rievocate, un buon anno dall’inizio alla fine!