In principio era il Verbo: la fanta-gnosi di Philip K. Dick in “Ubik”

Ubik è un metaromanzo. Tutto, in Ubik, è verbalismo, pura fiction. Ubik è il verbo che “esiste fin dal principio”, il verbo che crea i mondi. Ubik è la pura apparenza, ma è anche il Principio. Qua e là nel romanzo emergono citazioni platoniche: su tutte il Mito della Caverna e la curiosa applicazione della dottrina degli universali: le “cose” sono solo maschere calate su altre maschere, che cadono man mano che il processo di regressione o di decadimento si abbatte su di esse.


di Andrea Casella

« Ciò che noi stimiamo un ‘incidente’ — disse von Vogelsang — è
pur sempre, malgrado tutto, un esempio dell’intervento diretto di Dio. In un certo senso, tutta la vita può essere chiamata un ‘incidente’. »

Philip K. Dick, “Ubik”

Parlando di Philip Kindred Dick, D. Scott Apel [1] disse: “Ciò che non si sa di Phil è che lui probabilmente era un filosofo in un mondo in cui la tecnologia ha sostituito la filosofia”. In questa affermazione è condensato il senso di tutta la poetica (nel senso greco del termine: poésis) del grande scrittore americano. Dick è unanimemente considerato uno dei padri della sci-fi, ma la sua opera travalica senz’altro i confini ordinari del genere per tramutarsi in una strana chimera abitante di un limbo inesplorato. I suoi romanzi e i suoi racconti parlano la lingua della fantascienza, le azioni, le ambientazioni, i personaggi sono quelli tipici della fantascienza, eppure il senso ultimo, il significato di tutte queste cose, è trascendente, nel senso più strettamente filosofico che questa parola possa assumere.

Avvolto nei duri termini della scienza, e della pseudo-scienza, c’è un pensiero vecchio di secoli, che si riassume in: ciò che appare non è ciò che è. Pur consapevoli che la sterminata opera di Dick si muova tra argomenti molto diversi tra loro [2], questo ne è il leitmotiv principale, l’ossessione, la paranoia costante. L’opera più emblematica in tal senso è anche il suo romanzo più conosciuto: Ubik.

Per capire che cosa sia Ubik, conviene partire dalla fine. In epigrafe a ciascuno dei diciassette capitoli in cui è suddiviso il romanzo, viene presentato Ubik. Di lui si parla, di volta in volta, come se si pubblicizzasse un prodotto per la casa. La cosa curiosa è l’avvertenza finale: del tutto innocuo se usato secondo le istruzioni. Questa strana pubblicità cambia solo nel capitolo finale, dove in epigrafe si legge:

« Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io sono.
Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le
forme di vita e i luoghi in cui esse abitano; io le
muovo nel luogo che più mi aggrada.
Vanno dove io dico, fanno ciò che io comando.
Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato.
Il nome che nessuno conosce. Io sono chiamato Ubik,
ma questo non è il mio nome. Io sono. Io sarò in eterno. »

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Nel corso del romanzo viene rivelato che la parola Ubik deriva dal latino Ubique = Ovunque. In se stesso, Ubik è uno spray in grado di invertire il corso del tempo, preservando persone e oggetti dal decadimento o dall’arretramento. In parole semplici è uno “stabilizzante” [3]. Che cosa si intenda per decadimento o arretramento è presto detto: è il deterioramento o il ringiovanimento delle cose, dovuti alla progressione o alla regressione del tempo. I protagonisti del romanzo, facenti parte della Runciter Associates di New York, sperimentano questa oscillazione temporale dopo essere (apparentemente) scampati a un attentato sulla Luna ordito da un’organizzazione rivale.

Anno 1992, viene lanciato l’allarme generale per la scomparsa dalle mappe della Runciter Associates dell’ennesimo soggetto dotato di poteri psi [4] appartenente all’organizzazione del sinistro Ray Hollis. La Runciter Associates, appartenente a Glen Runciter, è una società appaltatrice di servizi che fornisce “inerziali” laddove ce ne sia richiesta. Con i loro poteri (precognizione, telepatia e simili) gli psi sono potenzialmente pericolosi, perché minacciano di destabilizzare gli equilibri dell’economia, della politica e della società in generale. Gli inerziali sono soggetti capaci di controbilanciare e annullare i poteri degli psi, riportando equilibrio (stabilità!) nel cosmo. Lo psi scomparso, S. Dole Melipone, è descritto come uno degli psi più potenti di Hollis; la sua scomparsa mette la società, e perfino il principale, in terribile agitazione. Se gli psi dovessero sfuggire al controllo sarebbe un disastro.

Runciter gestiva la società, fino a qualche tempo addietro, insieme alla giovane moglie Ella, ora ibernata in una condizione di semivita in uno speciale sanatorio in Svizzera, il Moratorium Diletti Fratelli di Zurigo, diretto dal mellifluo Herbert Shoenheit von Vogelsang.  Era lei ad avere sempre l’ultima parola sulla strategia da seguire, e anche ora, in semivita, viene regolarmente consultata dal marito per consigli. È possibile, per mezzo di una particolare tecnologia, rimettere in moto l’attività cerebrale di un essere umano sospeso nella semivita, resuscitandolo per un breve lasso di tempo. Ella, giunta però ormai anche alla fine della semivita e in procinto di reincarnarsi, dialoga per un po’ con Runciter, ma i suoi pensieri vengono interrotti dall’intromissione di un terzo soggetto, Jory Miller, un ragazzino in semivita collocato accanto a Ella, la cui superiore forza intellettuale residua causa continue “interferenze di comunicazione”.

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Profondamente contrariato, Runciter lascia l’istituto e, rientrato a New York, accetta un misterioso incarico sulla Luna, all’apparenza commissionato da Shepard Howard, ma in realtà commissionato da Stanton Mick. La Runciter Associates crede in tal modo che gli psi sfuggiti al controllo stiano creando problemi a Stanton Mick. Con destinazione Luna, partono lo stesso Runciter, il responsabile degli inerziali, Joe Chip, e tutti i più potenti inerziali della Runciter, a cui si è unita da poco una certa Pat Conley, dotata della particolare capacità di tornare nel passato e cambiarlo, così da alterare il futuro.

Purtroppo, l’incarico si rivela una trappola, forse ordita da Hollis con la complicità della stessa Pat (questo punto non è mai chiarito del tutto): Stanton Mick, recatosi a riceverli, è in realtà una bomba antropomorfa. Miracolosamente, nell’esplosione rimangono tutti illesi, meno Glen Runciter. Da questo momento iniziano a verificarsi strani fenomeni.

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Tutti i tentativi di conservare Runciter almeno in semivita falliscono. Il suo funerale si svolge nella sua città natale, Des Moines, nell’Iowa. Già da un po’, tuttavia, Joe Chip ed altri inerziali, come Al Hammond, hanno iniziato a notare strani mutamenti nelle cose. Le sigarette appena acquistate sono già rinsecchite, il caffè, il latte, si irrancidiscono in un batter d’occhio, le monete iniziano a presentare, stranamente, il volto di Glen Runciter. Alcuni inerziali vengono ritrovati misteriosamente semi-mummificati. Oltre a questo, Joe Chip viene fatto oggetto di strani messaggi che fanno riferimento a un fantomatico Ubik, provenienti da un’entità sconosciuta.

Ultimo a condividere l’orribile sorte della mummificazione è Al Hammond, nel bagno della sede newyorkese della Runciter Associates. È qui che avviene l’apparente rivelazione (in questo romanzo tutto è apparente): in realtà quelli che sono morti sono tutti quanti loro, ed ora esistenti solo nella sospensione della semivita al Moratorium di Zurigo. Unico sopravvissuto è Glen Runciter, che sta cercando di mettersi in contatto con Joe Chip nella semivita tramite i messaggi a tema Ubik.

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Joe Chip non ne è tuttavia sicuro dal momento che, a contraddire l’ultimo messaggio rivelatore scritto sullo specchio del bagno, c’è una videoregistrazione che mostra Glen Runciter dichiarare la propria morte e le istruzioni successive per tutti loro. Joe Chip sospetta che questo sia il video che dice la verità, registrato appositamente per l’evenienza della propria dipartita. Chip ha perciò bisogno di vedere con i propri occhi il cadavere di Runciter. Parte così per Des Moines, dove sono già presenti gli altri inerziali per assistere alle esequie del loro capo. Il viaggio da New York a Des Moines è fantasmale.

Tutte le cose cominciano ad assumere dei connotati obsoleti. Il mondo, da che era l’anno 1992, comincia a regredire fino all’anno 1939. Joe Chip sospetta che tutto quello sia in qualche modo dovuto al potere di Pat Conley, ma, neanche a dirlo, non è così. Giunto difficoltosamente a Des Moines su un monoplano Curtiss-Wright, con il costante terrore di una ulteriore regressione a un’epoca pre-aviatoria, Joe Chip assiste effettivamente alle esequie di Glen Runciter. Si convince (è un classico “atto di fede”) che sia quello il “mondo reale”, anche se sottoposto al potere del Demiurgo Pat Conley, individuo freddo, sadico e geloso.

Ma l’ennesimo colpo di scena, che rimette tutto in discussione, avviene nella camera d’albergo di Joe Chip a Des Moines. Qui, nella penombra della stanza, Joe incontra Runciter, che gli spruzza addosso lo spray Ubik, impendendogli di condividere la sorte della mummificazione rapida. L’ectoplasma di Runciter gli dichiara ancora una volta che sono tutti loro a essere morti e che egli sta cercando di salvarli nella semivita. Ormai rassegnato alla verità, Joe Chip intraprende una peregrinazione senza meta in quel mondo fittizio del 1939, i cui abitanti non si rendono minimamente conto dell’irrealtà del loro pseudo-mondo e di se stessi.

L’incontro con Ella Runciter mette Joe Chip a conoscenza che in quel mondo si stanno scontrando due forze tra loro opposte, una benevola (Ella stessa) e una malevola, Jory Miller, l’impertinente ragazzino che si trova di fianco a Ella nel Moratorium del “mondo reale”. Lo pseudo-mondo del 1939 non è causato da Pat Conley, ma da Jory Miller: è lui il vero Demiurgo della situazione. Ciò che non si spiega è che Jory Miller aveva in origine creato un mondo a lui noto, del 1992, ma tuttavia, per qualche motivo, questo va regredendo:

“Poi di colpo capì il perché. Jory aveva detto la verità; aveva costruito un mondo, o meglio il suo fantastico corrispondente, che apparteneva al suo tempo. E la decomposizione a quelle forme non era dovuta a lui; accadeva nonostante i suoi sforzi. Questi sono atavismi naturali, si disse Joe, che si manifestavano automaticamente con il decrescere delle energie di Jory. Come dice lui, pensò Joe, è uno sforzo tremendo. Questa è forse la prima volta che si trova costretto a creare un mondo così diversificato, per tante persone in una volta sola. Non è normale che tanti semivivi siano collegati fra di loro. Abbiamo imposto uno sforzo anomalo a Jory, si disse. E abbiamo pagato per questo”.

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Ormai intrappolato nel suo pseudo-mondo, con Ella avviata ormai alla sua reincarnazione, Joe Chip rimane solo. Dall’altra “parte”, Glen Runciter dispera ormai di risolvere la questione e fa convocare un’ultima volta la bara di Ella per interrogarla. Apprestandosi ad allungare una mancia al fattorino, si accorge però di qualcosa di strano:

« Diede uno sguardo alle monete, e aggrottò la fronte. “Che razza di denaro è questo?” disse. Runciter osservò con estrema attenzione pezzi da cinquanta centesimi. Vide subito cosa intendeva dire l’altro; chiaramente, le monete non erano come dovevano essere. Di chi è questo profilo? si chiese. Chi c’è su queste tre monete? Non è la persona giusta. Eppure lo conosco. Mi è familiare. E di colpo riconobbe il profilo. Chissà cosa significa, si chiese. La cosa più strana che abbia mai visto. Molte cose nella vita possono trovare una spiegazione. Ma… Joe Chip su una moneta da cinquanta centesimi? Era il primo denaro Joe Chip che avesse mai visto. Ebbe allora la raggelante intuizione che, se avesse cercato nelle altre tasche, e fra le banconote nel portafogli, ne avrebbe trovato dell’altro. Questo era soltanto l’inizio. »

Come nell’immagine del famoso Uroboro, o nel detto di Eraclito [5], il romanzo si chiude così come si era aperto, con la visita di Runciter a Ella. La rivelazione finale lascia intendere che anche il “mondo reale” di Runciter sia in realtà uno pseudo-mondo. Quanti mondi ci sono? Anche Runciter è rimasto ucciso? L’“incidente”, l’esplosione, ha creato due mondi della semivita distinti dove ognuno crede di essere vivo rispetto all’altro? Tutti sono veri, tutti sono falsi allo stesso tempo? Che cos’è vero e che cos’è falso, se la vita, come dice von Vogelsang, è un “incidente di Dio”?

Unica certezza sembra essere Ubik, l’Onnipotente, quello che è capace di mantenere la “stabilità” di tutti questi mondi di carta. Di carta, per l’appunto, perché Ubik è un metaromanzo. Tutto, in Ubik, è verbalismo, pura fiction. Ubik è il verbo che “esiste fin dal principio”, il verbo che crea i mondi. Ubik-romanzo non è un’occasione per la creazione di personaggi solidi, partecipi del loro mondo (pur fittizio): Ubik-romanzo è irreale: ma è l’ir-realtà che Ubik-spray crea e mantiene, che, come Vishnu sognante, “conserva”. I suoi personaggi non esistono neppure “in esso”.

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Ubik è la pura apparenza, ma è anche il Principio: qua e là nel romanzo emergono citazioni platoniche: su tutte il Mito della Caverna e la curiosa applicazione della dottrina degli universali: le “cose” sono solo maschere calate su altre maschere, che cadono man mano che il processo di regressione o di decadimento si abbatte su di esse:

« L’impianto TV doveva essere tornato indietro di parecchio; si trovò davanti un cassone di legno scuro, una radio Atwater-Kent a modulazione d’ampiezza vecchissima, completa di antenna e di collegamento a muro per la messa a terra. Dio del cielo, si disse sgomento. Ma perché il televisore non era invece regredito a pezzi di plastica e di metallo informi? Dopotutto, quelli erano i suoi componenti; era stato costruito con quelli, e non con i pezzi di una radio precedente. Forse ciò confermava curiosamente un’antica teoria filosofica caduta in discredito; quella degli oggetti-idea di Platone, gli universali che, in ogni classe, erano sempre reali. La forma apparecchio TV era stata soltanto una maschera imposta in successione a tante altre maschere, come la processione delle immagini in una sequenza di film. Le forme precedenti, rifletté, devono proseguire in ogni oggetto una vita invisibile e residua. Il passato è latente, sommerso, ma ancora qui, capace di affiorare alla superficie quando l’ultima maschera, sfortunatamente — e in contrasto con le esperienze ordinarie — svanisce nel nulla. L’uomo non contiene il ragazzo ma gli uomini precedenti, pensò. La storia è iniziata molto tempo fa. I resti disidratati di Wendy. La processione di forme che solitamente ha luogo… quella successione era cessata. E l’ultima forma si era consunta, senza crearne un’altra successiva; nessuna nuova forma, nessun prossimo stadio di ciò che noi vediamo come crescita, che prendesse il suo posto. Dev’essere questo che noi proviamo come vecchiaia, pensò; da quest’assenza derivano la degenerazione e la senilità. Solo che in questo caso accadeva di colpo… nel giro di poche ore. Ma quell’antica teoria… Platone non affermava che qualcosa sopravviveva al decadimento, qualcosa di interiore che non era suscettibile di deterioramento? Il vecchio dualismo; l’anima separata dal corpo. Il corpo finiva come Wendy, e l’anima… fuori dal nido, l’uccello si dirigeva da un’altra parte. Forse è davvero così, pensò. Si rinasce di nuovo, come dice il Libro Tibetano dei Morti. »

Il televisore non può andare più indietro delle sue componenti, poiché l’“idea-televisore” è in  quelle componenti. A questa stregua, solo ciò che nasce “radio” può regredire a “idea-radio”, ovvero a “pezzi di plastica e metallo informi”. Tutto regredisce (o degrada?) verso la propria essenza: anche (soprattutto) gli esseri umani. È “il vecchio dualismo”: il corpo (sòma) e l’anima (psyché).

Estinto il corpo, l’anima vola via come un uccello (gli egizi raffiguravano l’anima proprio così, come un uccello che si aggira intorno al sarcofago); Herbert Shoenheit von Vogelsang, curiosamente, significa proprio Herbert “Bellezza del Canto degli Uccelli”. Il direttore del Moratorium Diletti Fratelli, sepolcro delle bare ghiacciate, è il Signore della Morte, l’Anubis, lo psicopompo. Egli regge la Morte, ma in quale mondo? In quello di Runciter, in quello di Chip o in un terzo che li sovraintende? Neanche la morte è affare certo. Dove rinascerà l’anima di Ella Runciter, che vede ormai davanti a sé la luce rossa del nuovo utero materno? A tutte queste domande non è possibile dare risposta esauriente. Si sa solo che finché c’è Ubik c’è speranza.

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Da conoscitore dello gnosticismo qual è [6], Philip K. Dick è tragicamente consapevole dell’illusorietà del mondo che cade sotto il dominio dei sensi. Dietro questo mondo ce n’è un altro, ma di esso, tendenzialmente inafferrabile, si può avere solo un vago sentore. A differenza di quanto insegna lo gnosticismo classico, per Dick non c’è nessun “pneumatico” che grazie alla gnosi (jnāna dice l’induismo) sia in grado, da solo, di liberarsi dal carcere cosmico. Il risveglio è in Dick sempre accidentale e causato da macroscopici “errori” del Demiurgo di turno, che inducono lo gnostico a una comprensione meramente esteriore e “suo malgrado”.

Rubando una definizione presente in un romanzo di Guido Morselli, misconosciuto autore di uno libro di fantascienza intitolato Dissipatio H.G. (dove H.G. sta per Humani Generis) [7], i personaggi dickiani “non agiscono, ma sono agiti” da preponderanti forze esterne. La loro vita è nella maggior parte dei casi un mero “evento verbale”, perché il mondo che essi “parlano” non è reale, eppure idoneo, se non fosse per la rivelazione esterna improvvisa, a durare in eterno nella sua solida irrealtà. Esattamente come questo nostro mondo.

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Note:

[1]  Studioso dell’opera di Philip K. Dick e autore di PKD: The Dream Connection. Ha analizzato anche la famosa serie cult degli anni ’60 Il Prigioniero (The Prisoner), con Patrick McGoohan. Poco dopo aver dato le dimissioni, un agente segreto dal nome sconosciuto viene misteriosamente rapito e condotto in un bizzarro villaggio (il Villaggio, appunto) popolato da personaggi che, come lui, hanno non ben identificate “informazioni”. Qui gli viene affibbiato il nome di Numero 6, e la sua vita nel Villaggio si svolge nel segno della tremenda lotta psicologica ingaggiata contro i potenti carcerieri e il loro capo di turno, il Numero 2, che tentano in tutti i modi di carpirgli il motivo per cui ha dato le dimissioni. Data l’asserita importanza del soggetto, i tentativi di indurlo a parlare non prevedono metodi estremi, ma sono strutturati secondo le tipiche tecniche della suggestione piscologica, del controllo sociale, della manipolazione. A tutte queste tecniche il Numero 6 riesce a resistere eroicamente senza cedere fino all’episodio finale, quando viene finalmente messo a confronto con l’imperscrutabile Numero 1. Celeberrima, nella sigla di apertura, l’onnipresente esclamazione del Numero 6: “Io non sono un numero, sono un uomo libero!”.

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[2]  Con la sua ironia al vetriolo, Dick indirizza una feroce e sistematica critica alla società capitalistica, circostanza che lo accosta senz’altro alla letteratura postmoderna (Thomas Pynchon, Don De Lillo). Questa è del resto una chiave di lettura che ben si attaglia anche a uno gnostico come Franz Kafka. A parere di chi scrive, Philip K. Dick può tranquillamente essere definito un Kafka fantascientifico.

[3]  La ricerca della stabilità è un’altra delle costanti dickiane. Il suo primo racconto in assoluto, del 1947, si intitolava proprio Stabilità.

[4]  FACOLTÀ PSI: “Capacità o proprietà paranormali di un determinato soggetto. Da notare che il termine ‘psi’ non è abbreviazione della parola ‘psichico’, bensì il nome della lettera dell’alfabeto greco, che rappresenta il paranormale in genere e i relativi studi. Esistono, inoltre, molte espressioni legate a questo concetto: campo psi, livello psi, energia psi” (Into the unknown, Selezione dal Reader’s Digest s.p.a., Milano, 1984, p. 337).

[5]  “Comune è l’inizio e la fine del cerchio”.

[6]  Questo interesse traspare chiaramente, ad esempio, da uno dei romanzi più notevoli di Dick, Tempo fuor di sesto (Time out of joint). Il titolo è una citazione del famoso verso dell’Amleto (“The time is out of joint”), in cui Amleto dichiara che il tempo è “fuori assetto” o “fuor di sesto”, e che lui è nato col compito di raddrizzarlo. A un certo punto del romanzo si fa riferimento a uno strano corso universitario, avente ad oggetto “le eresie cristiane del V secolo”, e Ragle Gumm (protagonista del romanzo), così come Amleto, è l’ignorante Demiurgo designato a mantenere l’ordine cosmico. Non sappiamo fino a che punto Dick avesse intuito la natura saturnina di Amleto, ma con questo straordinario autore non può darsi nulla per scontato.

Vale la pena di spendere alcune parole su questo romanzo, poiché, come in Ubik, anche qui tutto si svolge all’insegna del verbalismo: il mondo di Ragle Gumm (un mondo alla Happy Days, tipico della provincia americana anni ‘50) è soltanto “parlato”, niente affatto reale. Il protagonista, che vive delle piccole vincite quotidiane assegnategli da un gioco proposto dal quotidiano locale (Indovina dove andrà oggi il nostro omino verde), comincia a sospettare che qualcosa non va quando inizia a vedere che gli oggetti del “suo mondo” si smaterializzano, lasciando solo un bigliettino con su scritta la cosa che è scomparsa. Anche i suoi familiari iniziano a vivere strane esperienze: suo cognato Victor ha l’impulso di accendere una lampadina tirando una cordicella, anziché, come sarebbe normale, premere l’interruttore, e vede l’autobus su cui sta viaggiando sparire lentamente, lasciando solo l’autista e se stesso sospesi a un metro da terra, con la strada che scorre sotto di loro. Dopo un fallito tentativo di fuga dalla città per andare in cerca del kantiano Ding an sich, la Cosa in Sé (è nominata per davvero, in tedesco, nel romanzo), Gumm scopre che la cittadina del 1959 e il gioco che, contro ogni elementare legge della statistica, ogni giorno riesce a risolvere sono fasulli. La sua vita è un’invenzione: i suoi parenti, i suoi vicini, non sono tali, ma altrettante “comparse”:

“Io sono il centro dell’universo” dichiara Ragle Gumm “o per lo meno è quanto ho dedotto dal loro modo di agire nei miei confronti. Non so altro, se non che si sono dati una gran pena per costruirmi attorno un mondo fasullo dove farmi vivere tranquillo. Case, auto, un’intera città, all’apparenza naturali, ma completamente irreali… Sotto ad ogni cosa c’è la parola… forse la parola stessa di Dio. Il Verbo – All’inizio era il Verbo –”.

In realtà, l’anno è il 1997 e il “gioco” è un complesso di coordinate che indicano i punti della Terra verso cui i dissidenti della Luna lanciano i loro missili nucleari. In passato, Ragle Gumm era stato un alto esponente delle forze governative terrestri e grazie alla sua abilità preternaturale nel prevedere la traiettoria dei missili era diventato il vero e proprio salvatore della Terra. Tuttavia, aveva iniziato a nutrire dubbi sulla bontà della guerra ai lunatici e si era indotto un’autosuggestione che lo aveva convinto di essere negli anni ’50, epoca nella quale aveva vissuto da bambino. Il 1959 assumeva per lui i connotati dell’Eden, o dell’Età dell’Oro, un’epoca di nostalgico equilibrio e “stabilità”. I suoi superiori, pur di non perdere la sua preziosa abilità, gli avevano costruito intorno una città e una vita del 1959, continuando a fornirgli il lavoro che lui inconsciamente portava a termine risolvendo un banale concorso a premi. Il finale è prettamente fantascientifico, ma non toglie nulla all’ardita architettura filosofica della narrazione. Oltretutto, Dick si rivela un fine conoscitore del simbolismo antico, quando descrive i tatuaggi facciali nel club di ritrovo dei “fan dei lunatici” sulla Terra: Atena in compagnia della civetta e Kore che emerge dalla terra. Due simboli lunari! Su tutto l’interrogativo immenso: è più vera la parola o la cosa che la parola indica? Quale viene prima? Secondo Dick (ma, senza scomodare il Vangelo di Giovanni, diceva pressappoco lo stesso Wittgenstein) il mondo si svolge entro i limiti del linguaggio:

“Che cos’è la parola? Un simbolo arbitrario. Ma la vita dell’uomo si basa sulle parole. La nostra stessa realtà è fatta più di parole che di cose. Cose che, in sé, non esistono. La sostanza è un’illusione e le parole sono più concrete degli oggetti che rappresentano. Le parole non rappresentano la realtà, sono la realtà. Per l’uomo, almeno. Forse Dio penetra fino alle cose, ma non noi”.

[7] In Dissipatio H.G. (lett. “Volatilizzazione del Genere Umano”, titolo di una fantomatica opera di Giamblico) si immagina che il genere umano sia improvvisamente scomparso senza lasciare traccia. Solo una persona, per qualche motivo, è rimasta ad interrogarsi su questo misterioso evento.


Bibliografia:

Philip K. Dick, Ubik, Fanucci, 1998.

Philip K. Dick, L’uomo dei giochi a premio (Tempo fuor di sesto), Mondadori, 1968. L’edizione considerata fa parte della collana di fantascienza Urania, diretta da Carlo Fruttero e Franco Lucentini (n. 491 del 30 giugno 1968).


Un commento su “In principio era il Verbo: la fanta-gnosi di Philip K. Dick in “Ubik”

  1. Innanzitutto faccio i miei più sentiti complimenti all’autore per questo stupendo articolo.
    Lascio un commento, perché mi piacerebbe sapere da dove è stata tratta l’ultima citazione (“Che cos’è la parola? Un simbolo arbitrario. Ma la vita dell’uomo si basa sulle parole. La nostra stessa realtà è fatta più di parole che di cose. Cose che, in sé, non esistono. La sostanza è un’illusione e le parole sono più concrete degli oggetti che rappresentano. Le parole non rappresentano la realtà, sono la realtà. Per l’uomo, almeno. Forse Dio penetra fino alle cose, ma non noi”).

    Grazie e buon proseguimento!

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