Mircea Eliade: “I miti del mondo moderno”

Nel primo capitolo del suo studio Miti, sogni e misteri (pubblicato nel 1957), lo storico delle religioni romeno Mircea Eliade tratta la questione della sopravvivenza del Mito, più o meno “mascherato”, nel mondo moderno. L’interrogativo da cui parte la sua analisi è il seguente: «Che cosa sono diventati i miti nelle società moderne? O meglio: che cosa ha occupato il posto essenziale che il mito aveva nelle società tradizionali?». Con queste premesse, Eliade indaga dunque la funzione del pensiero mitico nel Novecento, analizzando in primo luogo i diversi tipi di escatologia sottesa ai miti politici della nostra epoca: il “mito comunista” e quello “nazionalsocialista”.

Nel secondo paragrafo, Eliade si concentra sulle sopravvivenze del pensiero mitico a livello dell’esperienza individuale dell’uomo moderno, giungendo alla conclusione che «il mito non è mai completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e nelle nostalgie dell’uomo moderno; e l’enorme letteratura psicologica ci ha abituati a ritrovare la grande e la piccola mitologia nell’attività inconscia e semiconscia di ogni individuo». La psicologia del profondo di scuola junghiana e il cristianesimo sono i due estremi che lo storico delle religioni prende in esame come “contenitori mitici” privilegiati dell’attuale epoca storica.

Nel paragrafo 3 si tratta degli archetipi come modelli di comportamento, come “esempi mitici”: Eliade rileva che, pur essendo questi “modelli esemplari” ormai “mascherati” nel mondo moderno, nondimeno l’uomo contemporaneo ne subisce ancora l’influenza, coscientemente o meno. Nel paragrafo conclusivo, infine, il Nostro analizza le tecniche utilizzate dall’uomo moderno per “uscire dal tempo”. Di primaria importanza a riguardo è la funzione mitica della poesia e della lettura: questo perché, in definitiva, «la difesa dal Tempo che ogni comportamento mitologico ci rivela, ma che in effetti è consustanziale alla condizione umana, la ritroviamo travestita soprattutto nelle distrazioni, nei divertimenti dell’uomo moderno».

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1.

Che cos’è propriamente un «mito»? Nel linguaggio corrente del secolo Diciannovesimo «mito» significava tutto ciò che si oppone alla «realtà»: la creazione di Adamo o l’«uomo mascherato», come la storia del mondo raccontata dagli Zulù o la Teogonia di Esiodo, erano «miti». Come molti altri cliché dell’illuminismo e del positivismo, anche questo aveva struttura e origine cristiane: infatti, per il cristianesimo primitivo tutto quello che non trovava giustificazione nell’uno o nell’altro dei due Testamenti era falso: era una «favola».

Ma le ricerche degli etnologi ci hanno costretto a ritornare su questa eredità semantica, sopravvivenza della polemica cristiana contro il mondo pagano. Si comincia finalmente a conoscere e a comprendere il valore del mito elaborato dalle società «primitive» e arcaiche, cioè dai gruppi umani in cui il mito costituisce il fondamento stesso della vita sociale e della cultura. E un fatto ci colpisce subito: tali società ritengono che il mito esprima la verità assoluta perché racconta una storia sacra, cioè una rivelazione transumana che è avvenuta all’alba del Grande Tempo, nel tempo sacro degli inizi («in illo tempore»). Essendo reale e sacro, il mito diventa esemplare, e di conseguenza ripetibile, poiché serve da modello e anche da giustificazione a tutti gli atti umani. In altri termini, un mito è una storia vera che è avvenuta agli inizi del tempo e che serve da modello ai comportamenti degli uomini. Imitando gli atti esemplari di un dio o di un eroe mitico, o semplicemente raccontando le loro avventure, l’uomo delle società arcaiche si stacca dal tempo profano e si ricongiunge magicamente al Grande Tempo, al tempo sacro.

Come si vede, si tratta di un capovolgimento totale dei valori: mentre il linguaggio corrente confonde il mito con le «favole», l’uomo delle società tradizionali vi scopre, al contrario, la sola rivelazione valida della realtà. Non si è tardato a tirare le conclusioni da questa scoperta. Evitando di insistere nel dire che il mito racconta cose impossibili o improbabili, ci si è limitati a dire che esso costituisce un modo di pensare diverso dal nostro, in ogni caso da non considerare – “a priori” – come aberrante. Si è poi tentato di integrare il mito nella storia generale del pensiero, considerandolo come la forma per eccellenza del pensiero collettivo. Ma poiché il «pensiero collettivo» non è mai completamente abolito in una società, qualunque ne sia il grado di evoluzione, non si è mancato di osservare che il mondo moderno conserva ancora un certo comportamento mitico: per esempio, la partecipazione di tutta una società a certi simboli è stata interpretata come una sopravvivenza del «pensiero collettivo».

Non era difficile dimostrare che la funzione di una bandiera nazionale, con tutte le esperienze affettive che implica, non differisce affatto dalla «partecipazione» a un qualsiasi simbolo nelle società arcaiche. E questo equivale a dire che, a livello di vita sociale, non esiste soluzione di continuità tra il mondo arcaico e il mondo moderno. La sola grande differenza era data dalla presenza, nella maggior parte degli individui che costituiscono le società moderne, di un pensiero personale, assente o quasi nei membri delle società tradizionali.

Non è il caso di esporre considerazioni generali sul «pensiero collettivo». Il nostro problema è più modesto: se il mito non è una creazione puerile e aberrante dell’umanità «primitiva», ma è invece l’espressione di un modo d’essere nel mondo, che cosa sono diventati i miti nelle società moderne? O meglio: che cosa ha occupato il posto essenziale che il mito aveva nelle società tradizionali? Infatti, certe «partecipazioni» ai miti e ai simboli collettivi sopravvivono ancora nel mondo moderno, ma sono ben lungi dall’assolvere la funzione centrale che il mito ha nelle società tradizionali: in confronto a queste, il mondo moderno sembra sprovvisto di miti. Si è anche sostenuto che le inquietudini e le crisi delle società moderne si spiegano proprio con l’assenza di un loro mito peculiare. Intitolando uno dei suoi libri L’uomo alla scoperta della propria anima, Jung sottintende che il mondo moderno – in crisi a partire dalla rottura in profondità con il cristianesimo – è alla ricerca di un nuovo mito che gli permetta di ritrovare una nuova fonte spirituale e gli restituisca le forze creatrici (1). Infatti, almeno apparentemente, il mondo moderno non è ricco di miti.

Si è parlato, per esempio, dello sciopero generale come di uno dei rari miti creati dall’Occidente moderno. Ma si tratta di un malinteso: si credeva che un’idea accessibile a un numero considerevole d’individui, e quindi «popolare», potesse diventare un mito per il semplice fatto che la sua realizzazione storica è proiettata in un avvenire più o meno lontano. Ma non così si «creano» i miti. Lo sciopero generale può essere uno strumento per la lotta politica, ma manca di precedenti mitici, e questo basta per escluderlo da ogni mitologia.

Ben diverso è il caso del comunismo marxista. Lasciamo da parte la validità filosofica del marxismo e il suo destino storico; fermiamoci invece alla struttura mitica del comunismo e al senso escatologico del suo successo popolare. Qualunque cosa si pensi delle velleità scientifiche di Marx, è evidente che l’autore del “Manifesto dei comunisti” riprende e prolunga uno dei grandi miti escatologici del mondo asiatico-mediterraneo, cioè la funzione redentrice del giusto (l’«eletto», l’«unto», l’«innocente», il «messaggero», oggi, il proletariato), le cui sofferenze hanno la missione di cambiare lo stato ontologico del mondo. Infatti la società senza classi di Marx, e la conseguente scomparsa delle tensioni storiche, trovano il loro più esatto precedente nel mito dell’Età dell’Oro, che secondo molte tradizioni caratterizza l’inizio e la fine della storia. Marx ha arricchito questo mito venerabile di tutta un’ideologia messianica giudeo-cristiana: da una parte, il ruolo profetico e la funzione soteriologica che egli attribuisce al proletariato; dall’altra, la lotta finale tra il Bene e il Male, che si può facilmente accostare al conflitto apocalittico tra Cristo e Anticristo, seguito dalla vittoria decisiva del primo. È anche significativo che Marx riprenda a suo modo la speranza escatologica giudeo-cristiana di una fine assoluta della storia; si separa in questo dagli altri filosofi storicisti (per esempio, Croce e Ortega y Gasset), per i quali le tensioni della storia sono consustanziali alla condizione umana e quindi non possono mai essere completamente abolite.

Paragonata alla grandezza e al vigoroso ottimismo del mito comunista, la mitologia adottata dal nazionalsocialismo appare stranamente maldestra: non soltanto a causa delle limitazioni stesse del mito razzista (come si poteva immaginare che il resto dell’Europa accettasse volontariamente di sottomettersi al Herrenvolk?), ma soprattutto grazie al pessimismo fondamentale della mitologia germanica. Nel suo tentativo di abolire i valori cristiani e ritrovare le fonti spirituali della «razza», cioè del paganesimo nordico, il nazionalsocialismo ha dovuto necessariamente sforzarsi di rianimare la mitologia germanica. Nella prospettiva della psicologia del profondo, simile tentativo equivaleva esattamente a un invito al suicidio collettivo: infatti l’eschaton annunciato e atteso dagli antichi Germani è il ragnarøkkr, cioè una «fine del mondo» catastrofica che include un combattimento gigantesco tra gli dèi e i demoni e che termina con la morte di tutti gli dèi e di tutti gli eroi e con la regressione del mondo nel caos. È vero che dopo il ragnarøkkr il mondo rinascerà rigenerato (infatti, anche gli antichi Germani conoscevano la dottrina dei cicli cosmici, il mito della creazione e della distruzione periodica del mondo), tuttavia sostituire al cristianesimo la mitologia nordica significava sostituire un’escatologia ricca di promesse e di consolazioni (per il cristiano, la «fine del mondo» completa la storia e la rigenera contemporaneamente) con un eschaton decisamente pessimistico.

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Tradotta in termini politici, questa sostituzione significava all’incirca: rinunciate alle vecchie storie giudeo-cristiane e risuscitate dal fondo delle vostre anime la credenza dei vostri antenati, i Germani; poi, preparatevi per la grande battaglia finale fra i nostri dèi e le forze demoniache; in questa battaglia apocalittica, i nostri dèi e i nostri eroi – e noi con loro – perderanno la vita, e questo sarà il ragnarøkkr, ma poi un mondo nuovo nascerà. Ci si domanda come una visione così pessimistica della fine della storia abbia potuto infiammare l’immaginazione di almeno una parte del popolo tedesco; tuttavia il fenomeno esiste e pone tuttora problemi agli psicologi.


2.

Al di fuori di questi due miti politici, non sembra che le società moderne ne abbiano conosciuti altri di analoga ampiezza. Pensiamo al mito come comportamento umano e contemporaneamente come elemento di civiltà, cioè come lo si ritrova nelle società tradizionali. Infatti, a livello dell’esperienza individuale, il mito non è mai completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e nelle nostalgie dell’uomo moderno; e l’enorme letteratura psicologica ci ha abituati a ritrovare la grande e la piccola mitologia nell’attività inconscia e semiconscia di ogni individuo. Ma ci interessa soprattutto sapere ciò che, nel mondo moderno, ha preso il posto centrale di cui gode il mito nelle società tradizionali. In altri termini, e pur riconoscendo che i grandi temi mitici continuano a ripetersi nelle zone oscure della psiche, ci si può domandare se il mito in quanto modello esemplare del comportamento umano non sopravviva anche, sotto una forma più o meno degradata, presso i nostri contemporanei. Sembra che un mito, al pari dei simboli che ne nascono, non scompaia mai dall’attualità psichica: cambia soltanto aspetto e traveste le sue funzioni. Ma sarebbe istruttivo insistere nella ricerca e smascherare il travestimento dei miti a livello sociale.

Ecco un esempio. È evidente che certe feste apparentemente profane del mondo moderno conservano ancora la loro struttura e le loro funzioni mitiche: i festeggiamenti di capodanno, o le feste per la nascita di un bambino, la costruzione di una casa o anche l’entrata in un nuovo appartamento, tradiscono la necessità oscuramente sentita di un inizio assoluto, di un incipit vita nova, cioè di una rigenerazione totale. Nonostante la distanza fra questi festeggiamenti profani e il loro archetipo mitico – la ripetizione periodica della creazione (2) -, è evidente che l’uomo moderno prova ancora il bisogno di riattualizzare periodicamente tali scenari, seppure desacralizzati.

Non è il caso di stabilire fino a che punto l’uomo moderno sia ancora conscio delle implicazioni mitologiche delle sue festività: interessa soltanto che tali festività abbiano ancora una risonanza, oscura ma profonda, in tutto il suo essere.

È soltanto un esempio, ma ci può illuminare su una situazione che sembra generale: certi temi mitici sopravvivono ancora nelle società moderne, ma non sono facilmente riconoscibili poiché hanno subito un lungo processo di laicizzazione. Il fenomeno è noto da molto tempo: infatti le società moderne si definiscono tali proprio perché hanno esasperato la desacralizzazione della vita e del cosmo; la novità del mondo moderno si esprime nella rivalutazione a livello profano degli antichi valori sacri (3). Ma a noi interessa sapere se tutto ciò che sopravvive di «mitico» nel mondo moderno si presenta unicamente sotto forma di schemi e valori reinterpretati a livello profano. Se questo fenomeno si verificasse ovunque, si dovrebbe riconoscere che il mondo moderno si oppone radicalmente a tutte le forme storiche che l’hanno preceduto. Ma la presenza stessa del cristianesimo esclude tale ipotesi: il cristianesimo non accetta affatto l’orizzonte desacralizzato del cosmo e della vita, che è l’orizzonte caratteristico di ogni cultura «moderna».

Il problema non è semplice, ma poiché il mondo occidentale si richiama ancora e in gran parte al cristianesimo, non si può eluderlo. Non insisterò su quelli che venivano chiamati gli «elementi mitici» del cristianesimo. Checché ne sia di questi «elementi mitici», da molto tempo sono cristianizzati e, in ogni caso, l’importanza del cristianesimo deve essere giudicata in un’altra prospettiva. Ma ogni tanto si alzano voci che pretendono che il mondo moderno non sia più, o non sia ancora cristiano. Il nostro scopo ci dispensa dall’occuparci di quelli che ripongono le loro speranze nell’Entmythologisierung, che pensano sia necessario «demitizzare» il cristianesimo per restituirgli la sua vera essenza. Alcuni pensano proprio il contrario.

Jung, per esempio, crede che la crisi del mondo moderno sia dovuta in gran parte al fatto che i simboli e i «miti» cristiani non sono più vissuti dall’essere umano totale, sono diventati soltanto parole e gesti privi di vita, fossilizzati, esteriorizzati e, di conseguenza, senza nessuna utilità per la vita profonda della psiche.

Per noi il problema si pone in altri termini: in quale misura il cristianesimo prolunga, in società moderne desacralizzate e laicizzate, un orizzonte spirituale paragonabile all’orizzonte delle società arcaiche, che sono dominate dal mito? Diciamo subito che il cristianesimo non ha nulla da temere da un simile confronto: la sua specificità è assicurata perché risiede nella fede come categoria sui generis di esperienza religiosa, nonché nella valorizzazione della storia. Eccettuato il giudaismo, nessun’altra religione precristiana ha valorizzato la storia come manifestazione diretta e irreversibile di Dio nel mondo, né la fede – nel senso inaugurato da Abramo – come unico mezzo di salvezza. Di conseguenza, la polemica cristiana contro il mondo religioso pagano è storicamente sorpassata: il cristianesimo non rischia più di essere confuso con una religione o una gnosi qualunque. Detto ciò, e tenendo conto della scoperta recentissima che il mito rappresenta un certo modo d’essere nel mondo, non è meno vero che il cristianesimo, per il fatto stesso di essere una religione, ha dovuto conservare almeno un comportamento mitico: il tempo liturgico, cioè il rifiuto del tempo profano e il ricupero periodico del Grande Tempo, dell’illud tempus degli «inizi».

Per il cristiano, Gesù Cristo non è un personaggio mitico ma, all’opposto, storico: la sua stessa grandezza trova il suo appoggio in questa storicità assoluta. Infatti il Cristo non soltanto si è fatto uomo, «uomo in generale», ma ha accettato la condizione storica del popolo in seno al quale ha scelto di nascere; non è ricorso a nessun miracolo per sottrarsi a questa storicità, anche se ha fatto parecchi miracoli per modificare la «situazione storica» degli altri (guarendo il paralitico, risuscitando Lazzaro, eccetera). Tuttavia l’esperienza religiosa del cristiano si fonda sull’imitazione del Cristo come modello esemplare, sulla ripetizione liturgica della vita, della morte e della risurrezione del Signore, nonché sulla contemporaneità del cristiano con l’illud tempus che si apre con la natività di Betlemme e si chiude provvisoriamente con l’ascensione. Sappiamo che l’imitazione di un modello transumano, la ripetizione di uno scenario esemplare e la rottura del tempo profano con una apertura che sfocia sul Grande Tempo costituiscono le note essenziali del «comportamento mitico», cioè dell’uomo delle società arcaiche, che trova nel mito la fonte stessa della sua esistenza. Si è sempre contemporanei di un mito, sia quando lo si narra sia quando si imitano i gesti dei personaggi mitici. Kierkegaard chiedeva ai veri cristiani di essere contemporanei del Cristo. Ma anche senza essere un «vero cristiano» nel senso di Kierkegaard, si è, non si può  non essere contemporanei del Cristo. Infatti il tempo liturgico, nel quale il cristiano vive durante il servizio religioso, non è più la durata profana, ma proprio il tempo sacro per eccellenza, il tempo in cui Dio si è fatto carne, l’illud tempus dei Vangeli. Un cristiano non assiste a una commemorazione della passione del Cristo, come assiste alla commemorazione annuale di un avvenimento storico. Non commemora un avvenimento, ma riattualizza un mistero. Per un cristiano, Gesù muore e risuscita davanti a lui, hic et nunc. Grazie al mistero della passione o della risurrezione il cristiano abolisce il tempo profano ed è inserito nel tempo sacro primordiale.

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Inutile insistere sulle differenze radicali che separano il cristianesimo dal mondo arcaico: sono troppo evidenti per provocare malintesi. Ma sussiste l’identità di comportamento che abbiamo appena ricordato. Per il cristiano, come per l’uomo delle società arcaiche, il tempo non è omogeneo: implica rotture periodiche che lo dividono in una «durata profana» e in un «tempo sacro», quest’ultimo è indefinitamente reversibile, cioè si ripete all’infinito senza cessare di essere il medesimo. Quando si afferma che il cristianesimo, a differenza delle religioni arcaiche, proclama e attende la fine del tempo, occorre fare una distinzione: l’affermazione è esatta se si riferisce alla «durata profana», alla storia, non più se si riferisce al tempo liturgico inaugurato dall’incarnazione; l'”illud tempus” cristologico non sarà abolito dalla fine della storia.

Queste poche e rapide considerazioni ci hanno mostrato in quale senso il cristianesimo prolunga nel mondo moderno un «comportamento mitico». Se si tiene conto della vera natura e della funzione del mito, il cristianesimo non sembra aver superato il modo d’essere dell’uomo arcaico; non poteva farlo. Homo naturaliter christianus. Resta ancora da sapere che cosa abbiano sostituito al mito quei moderni che hanno conservato del cristianesimo soltanto la lettera morta.


3.

Sembra improbabile che una società possa liberarsi completamente dal mito, perché fra le note essenziali al comportamento mitico – modello esemplare, ripetizione, rottura della durata profana e integrazione del tempo primordiale – almeno le prime due sono consustanziali a ogni condizione umana. Sicché non è difficile riconoscere in alcune istituzioni – per esempio quelle che i moderni chiamano istruzione, educazione, cultura didattica – la stessa funzione assolta dal mito nelle società arcaiche. Questo è vero non soltanto perché i miti rappresentano a un tempo la somma delle tradizioni ancestrali e le norme che non bisogna trasgredire, e perché la trasmissione – per lo più segreta, iniziatica – dei miti equivale all’«istruzione» più o meno ufficiale di una società moderna; ma anche perché l’omologazione delle rispettive funzioni del mito e dell’istruzione si verifica soprattutto se si tiene presente l’origine dei modelli esemplari proposti dall’educazione europea. Nell’antichità non vi era iato tra la mitologia e la storia: i personaggi storici si sforzavano di imitare i loro archetipi, gli dèi e gli eroi mitici (4). A loro volta, la vita e i gesti di quei personaggi storici diventavano paradigmi. Già Tito Livio presenta una ricca galleria di modelli per i giovani romani. Plutarco scrive poi le sue Vite degli uomini illustri, vera somma esemplare per i secoli futuri. Le virtù morali e civiche di quegli illustri personaggi continuano a essere il modello supremo per la pedagogia europea, soprattutto dopo il Rinascimento.

Fin verso la fine del secolo Diciannovesimo l’educazione civica europea seguiva ancora gli archetipi dell’antichità classica, i modelli che si sono manifestati in illo tempore, in quel lasso di tempo privilegiato che fu, per l’Europa letterata, l’apogeo della cultura greco-latina.

Non si era mai pensato di assimilare la funzione della mitologia a quella dell’istruzione perché si trascurava una delle note caratteristiche del mito: appunto quella che consiste nel creare modelli esemplari per un’intera società. Si riconosce d’altronde in ciò una tendenza che si può chiamare generalmente umana, cioè quella di trasformare un’esistenza in paradigma e un personaggio storico in archetipo. Questa tendenza sopravvive anche nei rappresentanti più in vista della mentalità moderna. Come ha ben compreso Gide, Goethe era pienamente conscio della sua missione di realizzare una vita esemplare per il resto dell’umanità. In tutto quello che faceva si sforzava di creare un esempio. A sua volta imitava nella vita, se non la vita degli dèi e degli eroi mitici, almeno il loro comportamento. Paul Valéry scriveva nel 1932: «Egli ci offre l’esempio, “signori uomini”, di uno dei migliori tentativi per renderci simili a dèi».

Ma l’imitazione dei modelli non passa unicamente attraverso la cultura scolastica. Assieme alla pedagogia ufficiale, e anche quando la sua autorità è svanita da tempo, l’uomo moderno subisce l’influenza di tutta una mitologia diffusa che gli propone molti modelli da imitare.

Gli eroi, immaginari o no, influiscono notevolmente sulla formazione degli adolescenti europei: tali sono i personaggi dei romanzi di avventura, gli eroi di guerra, i divi del cinema, eccetera. Questa mitologia si arricchisce con l’età: si scoprono via via i modelli esemplari lanciati dalle mode successive e ci si sforza di assomigliarvi. La critica ha spesso insistito sulle versioni moderne del dongiovanni, dell’eroe militare o politico, dell’innamorato sfortunato, del cinico o del nichilista, del poeta malinconico, e così via: tutti questi modelli prolungano una mitologia e la loro attualità è segno di un comportamento mitologico. L’imitazione degli archetipi tradisce un certo disgusto per la propria storia personale e la tendenza oscura a trascendere il proprio momento storico locale, provinciale, e a ricuperare un «Grande Tempo» qualunque, per esempio il tempo mitico della prima manifestazione surrealista o esistenzialista.

Un’analisi adeguata della mitologia diffusa dell’uomo moderno richiederebbe volumi. Infatti i miti e le immagini mitiche si ritrovano ovunque, laicizzati, degradati, travestiti: basta saperli riconoscere. Abbiamo accennato alla struttura mitologica dei festeggiamenti di capodanno o delle feste che salutano un «inizio», dove si intravede ancora la nostalgia della renovatio, la speranza che il mondo si rinnovi, che si possa cominciare una nuova storia in un mondo rigenerato, cioè creato di nuovo. Si potrebbero moltiplicare facilmente gli esempi. Il mito del paradiso perduto sopravvive ancora nelle immagini dell’isola paradisiaca e del paesaggio edenico: territorio privilegiato in cui le leggi sono abolite, il tempo si arresta. Occorre sottolineare quest’ultima circostanza, perché è soprattutto analizzando l’atteggiamento del moderno nei confronti del tempo che si può scoprire il travestimento del suo comportamento mitologico. Non bisogna perdere di vista che una delle funzioni essenziali del mito è proprio l’apertura verso il Grande Tempo, il ricupero periodico di un tempo primordiale. E questo si traduce nella tendenza a trascurare il tempo presente, ciò che viene chiamato il «momento storico».

Lanciati in una grandiosa avventura nautica, i Polinesiani si sforzano di negarne la «novità», il carattere d’avventura inedita, la disponibilità; per loro si tratta soltanto di una reiterazione del viaggio che un certo eroe mitico ha intrapreso in illo tempore per «mostrare il cammino agli uomini», per creare un esempio. Vivere l’avventura personale come la reiterazione di una saga mitica equivale a eludere il presente. Questa angoscia di fronte al tempo storico, accompagnata dal desiderio oscuro di partecipare a un tempo glorioso, primordiale, totale, si traduce nei moderni in un tentativo talvolta disperato di spezzare l’omogeneità del tempo, per «uscire» dalla durata risuscitando un tempo qualitativamente diverso da quello che, consumandosi, la loro propria «storia» crea. È in questo soprattutto che si riconosce meglio la funzione dei miti nel mondo moderno. Con mezzi molteplici, ma omologabili, l’uomo moderno si sforza di uscire dalla propria «storia» e di vivere un ritmo temporale qualitativamente diverso. È un modo inconsapevole di ricuperare il comportamento mitico.

Lo si capirà meglio osservando le due principali vie di «evasione» usate dal moderno: lo spettacolo e la lettura. Non insisteremo sui precedenti mitologici della maggior parte degli spettacoli; basta ricordare l’origine rituale della tauromachia, delle corse, degli incontri sportivi: tutti hanno in comune la caratteristica di svolgersi in un «tempo concentrato», di grande intensità, residuo o succedaneo del tempo magico-religioso. Il «tempo concentrato» è anche la dimensione specifica del teatro e del cinema. Anche non tenendo conto delle origini rituali e della struttura mitologica del dramma e del cinema, rimane il fatto importante che queste due specie di spettacolo utilizzano un tempo ben diverso dalla «durata profana», un ritmo temporale concentrato e spezzato a un tempo, che, al di fuori di ogni implicazione estetica, provoca una profonda risonanza nello spettatore.

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4.

La lettura costituisce un problema più sfumato. Si tratta, da una parte, della struttura e dell’origine mitica della letteratura e, dall’altra, della funzione mitologica assolta dalla lettura nella coscienza di quelli che se ne nutrono. La continuità mito-leggenda-epopea-letteratura moderna è stata ripetutamente illustrata e ci dispensiamo dal soffermarvici. Ricordiamo semplicemente che gli archetipi mitici sopravvivono in un certo senso nei grandi romanzi moderni. Le prove che deve superare un personaggio di romanzo hanno il loro modello nelle avventure dell’eroe mitico. Si è potuto anche dimostrare come i temi mitici delle acque primordiali, dell’isola paradisiaca, della cerca del Santo Graal, dell’iniziazione eroica o mistica, eccetera, dominano ancora la letteratura europea moderna.

Molto recentemente il surrealismo ha dato uno sviluppo straordinario ai temi mitici e ai simboli primordiali. La struttura mitologica della letteratura d’appendice è evidente. Ogni romanzo popolare presenta la lotta esemplare tra il Bene e il Male, tra l’eroe e il malvagio (incarnazione moderna del demonio), e ritrova i grandi motivi folcloristici della fanciulla perseguitata, dell’amore salvatore, della protettrice sconosciuta, eccetera. Anche nel romanzo poliziesco, come ha mostrato ottimamente Roger Caillois, abbondano i temi mitologici.

Non è necessario ricordare che la poesia lirica riprende e prolunga il mito. Ogni poesia è uno sforzo per ricreare il linguaggio, in altri termini per abolire il linguaggio corrente, di tutti i giorni, e per inventare un nuovo linguaggio, personale e privato, in ultima analisi segreto. Ma la creazione poetica, proprio come la creazione linguistica, implica l’abolizione del tempo, della storia concentrata nel linguaggio, e tende verso il ricupero della situazione paradisiaca primordiale, quando si creava spontaneamente, quando il passato non esisteva perché non esisteva coscienza del tempo, memoria della durata temporale. Lo si dice d’altronde ancora oggi: per un grande poeta il passato non esiste; il poeta scopre il mondo come se assistesse alla cosmogonia, come se fosse contemporaneo del primo giorno della creazione. Da un certo punto di vista si può dire che ogni grande poeta rifà il mondo, perché si sforza di vederlo come se il tempo e la storia non esistessero: singolare richiamo al comportamento del «primitivo» e dell’uomo delle società tradizionali.

Ma c’interessa soprattutto la funzione mitologica della lettura, perché essa costituisce un fenomeno specifico del mondo moderno, sconosciuto alle altre civiltà. La lettura sostituisce non soltanto la letteratura orale – ancora viva nelle comunità rurali dell’Europa – ma anche la narrazione dei miti nelle società arcaiche. E la lettura, forse ancor più che lo spettacolo, riesce a provocare una rottura della durata e contemporaneamente una «uscita dal tempo». Quando legge un romanzo poliziesco per «ammazzare» il tempo o quando penetra in un universo temporale estraneo che un qualsiasi romanzo gli rappresenta, il lettore moderno è proiettato fuori dalla sua durata e inserito in altri ritmi, vive altre storie. La lettura costituisce una «via facile», nel senso che offre la possibilità di modificare con poco sforzo l’esperienza temporale; la lettura è la distrazione per eccellenza del moderno, gli permette l’illusione di una padronanza del tempo in cui possiamo supporre a buon diritto un segreto desiderio di sottrarsi al divenire implacabile che conduce alla morte.

La difesa dal Tempo che ogni comportamento mitologico ci rivela, ma che in effetti è consustanziale alla condizione umana, la ritroviamo travestita soprattutto nelle distrazioni, nei divertimenti dell’uomo moderno. Proprio in questi si misura la radicale differenza fra le culture moderne e il resto della civiltà. In ogni società tradizionale un qualsiasi gesto responsabile riproduceva un modello mitico, transumano, e, di conseguenza, si svolgeva in un tempo sacro. Il lavoro, i mestieri, la guerra, l’amore, erano cose sacre. Il rivivere ciò che gli dèi e gli eroi avevano vissuto in illo tempore si traduceva in una sacralizzazione dell’esistenza umana, che così completava la sacralizzazione del cosmo e della vita. Questa esistenza sacralizzata, aperta sul Grande Tempo, poteva essere molte volte faticosa, ma era altrettanto ricca di significato; in ogni caso, non era schiacciata dal tempo. La vera «caduta nel tempo» comincia con la desacralizzazione del lavoro; soltanto nelle società moderne l’uomo si sente prigioniero del proprio mestiere, perché non può più sfuggire al tempo. E poiché non può «uccidere» il tempo durante le ore del lavoro – cioè quando gode della sua vera identità sociale – si sforza di «uscire dal tempo» nelle ore libere: si spiega così il numero vertiginoso di distrazioni inventate dalle civiltà moderne. In altri termini, succede esattamente il contrario che nelle società tradizionali, in cui le «distrazioni» quasi non esistono perché l’«uscita dal tempo» si ottiene con ogni lavoro responsabile. Proprio per questa ragione, come abbiamo appena visto, la grande maggioranza degli individui che non partecipano a un’esperienza religiosa autentica rivelano il loro comportamento mitico, oltre che nell’attività inconscia della loro psiche (sogni, fantasie, nostalgie, eccetera), nelle loro distrazioni. In altre parole, la «caduta nel tempo» coincide con la desacralizzazione del lavoro e la meccanizzazione dell’esistenza che ne consegue; essa implica una perdita malamente mascherata della libertà; sicché la sola evasione possibile su scala collettiva resta la distrazione.

Queste poche osservazioni possono bastare. Il mondo moderno non ha completamente abolito il comportamento mitico, ne ha soltanto rovesciato il campo d’azione: il mito non è più dominante nei settori essenziali della vita, è stato «rimosso» sia nelle zone oscure della psiche, sia in attività secondarie o anche irresponsabili della società. Nonostante che il comportamento mitico si prolunghi, travestito, nella funzione assolta dall’educazione, questa interessa ormai quasi esclusivamente l’età giovanile; anzi, la funzione esemplare dell’istruzione sta per scomparire: la pedagogia moderna incoraggia la spontaneità. Al di fuori della vita religiosa autentica, il mito nutre soprattutto le distrazioni. Ma non scompare mai: su scala collettiva, si manifesta talvolta con una forza considerevole, sotto forma di mito politico.

Nonostante tutto, la comprensione del mito sarà annoverata fra le più utili scoperte del secolo Ventesimo. L’uomo occidentale non è più il padrone del mondo: davanti a lui non vi sono più «indigeni», ma interlocutori. È bene sapere come avviare il dialogo; è indispensabile riconoscere che non c’è più soluzione di continuità fra il mondo «primitivo» o «retrogrado» e l’Occidente moderno. Non basta più, come bastava mezzo secolo fa, scoprire e ammirare l’arte negra od oceaniana; bisogna riscoprire in noi stessi le fonti spirituali di quelle arti, bisogna prendere coscienza di ciò che ancora resta di «mitico» in un’esistenza moderna, e che rimane tale proprio perché anche questo comportamento stesso è consustanziale alla condizione umana in quanto esprime l’angoscia di fronte al tempo.


Note:

Nota 1. Per «mondo moderno» s’intende la società occidentale contemporanea, ma anche una certa condizione di spirito che si è formata attraverso alluvioni successive cominciando dal Rinascimento e dalla Riforma. Sono «moderne» le classi attive delle società urbane, cioè la massa umana che è stata più o meno direttamente modellata dall’istruzione e dalla cultura ufficiale. Il rimanente della popolazione, soprattutto nell’Europa centrale e sudorientale, resta ancora attaccato a un orizzonte spirituale tradizionale per metà precristiano. Le società agricole sono generalmente passive nella storia; quasi sempre la subiscono, e quando vengono direttamente coinvolte nelle grandi tensioni storiche (per esempio, le invasioni barbariche della bassa antichità) il loro comportamento è di resistenza passiva.

Nota 2. Cfr. M. Eliade, Le Mythe de l’Eternel Retour, Gallimard, Parigi 1949 (trad. it.: Il mito dell’eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975, pp. 59 ss.).

Nota 3. Il processo è ottimamente evidenziato dalle trasformazioni dei valori attribuiti alla «natura». Non sono stati aboliti i rapporti di simpatia tra l’uomo e la natura – non lo si poteva fare -, ma questi rapporti hanno cambiato valore e orientamento: alla simpatia magico-religiosa sono state sostituite l’emozione estetica o semplicemente sentimentale, le pratiche sportive o igieniche, eccetera, la contemplazione è stata sostituita dall’osservazione, dall’esperienza e dal calcolo. Non si può dire di un fisico del Rinascimento o di un naturalista dei nostri tempi che non amano la «natura»; ma in questo «amore» non si ritrova l’atteggiamento spirituale dell’uomo delle società arcaiche, quello, per esempio, che sopravvive ancora nelle società agricole europee.

Nota 4. Cfr. a questo proposito le ricerche di Georges Dumézil, cfr. anche il nostro Mito dell’eterno ritorno cit., pp. 41 ss.