I misteriosi indiani Natchez, Figli del Sole

Tra la miriade di popolazioni che abitarono in passato le vaste praterie dell’America settentrionale, un capitolo a parte meritano i Natchez della valle meridionale del Mississippi. Essi infatti, pur appartenendo alla confederazione di tribù Cree di lingua muskogee, parlavano un dialetto peculiare e ben distinto da quello delle altre popolazioni del Sud-Est, denominato Natchesan. Dalle poche fonti che la storia ci ha tramandato sembra che la loro cultura, di tipo sedentario, sia nata intorno al 700 d.C. e che sia stata fortemente influenzata dalle grandi civiltà mesoamericane, in particolar modo per quanto riguarda il culto del Sole—e del sovrano divinizzato in quanto suo figlio—e la pratica volontaria dell’immolazione come pratica degna del massimo onore.

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Simboli delle popolazioni native del ceppo Cree. Si noti come numerosi di essi (triscele, croce celtica, swastika) presentino corrispondenze innegabili con l’arte simbolica dei popoli dell’Europa del Nord.

Corrispondenze con civiltà precolombiane quali Aztechi, Maya o Incas possono essere accettate senza troppi problemi, ma c’è di più. La tradizione Natchez, infatti, presenta al contempo sorprendenti punti di contatto con le antiche civiltà indoeuropee (India vedica, Grecia e Roma arcaica, area nordica) a partire dal simbolo stesso della tribùdi natura chiaramente solaresimile ad uno swastika hindu, un simbolo che peraltro si ritrova nei mosaici italici e nelle decorazioni elleniche e nordiche dell’antichità. Altre corrispondenze con le culture dell’Europa arcaica sono il culto del fuoco sacro—che doveva rimanere perennemente acceso e che veniva spento ritualmente una sola volta all’anno, per poi essere nuovamente rinnovato—la divisione della società in tre caste secondo la suddivisione duméziliana (sacerdoti, guerrieri, produttori) e la cerimonia per la fertilità di mezzaestate, come avremo modo di vedere.

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I Natchez erano in grado di costruire edifici terrazzati e la loro economia si fondava principalmente sulla coltura del mais e sulla lavorazioni di pelli. A proposito della loro misteriosa provenienza, De la Vente scriveva: “I Natchez hanno una sicura e precisa tradizione e contano dai 45 ai 50 capi che si sono succeduti l’un l’altro nel tempo. Essi venivano da una terra molto lontana, probabilmente dal Sud-Ovest”. La loro antica terra d’origine poteva anche essere il Messico: questa tesi fu sostenuta anche da Du Pratz. Sappiamo che i Natchez si ritrovarono ben presto alla guida di un certo numero di tribù minori, la maggior parte delle quali non erano imparentate con loro. Questo fatto, forse, potrebbe spiegare l’esistenza presso i Natchez di un sistema sociale e politico assolutamente gerarchico, che prevedeva l’esistenza di 4 caste (o meglio del “Grande Sole” più tre classi: sacerdoti, guerrieri e produttori).

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Disco solare.

Tuttavia, sebbene il linguaggio utilizzato dalle classi sociali più agiate differisse anche notevolmente da quello delle classi inferiori, la caratteristica unica del sistema sociale dei Natchez è l’elevatissima mobilità sociale. Quest’ultima è desiderata al punto che per legge è vietato che membri della stessa casta si sposino: il matrimonio, dunque, avveniva obbligatoriamente tra persone di rango diverso. Sappiamo, infatti, che i membri della casta dei nobili dovevano per legge sposare plebei. La progenie di donne nobili e uomini plebei andava a riempire le fila della casta dei nobili, mentre i figli degli uomini nobili e delle donne plebee diventavano guerrieri. Questa norma consuetudinaria, adottata per evitare un eccessivo immobilismo sociale, non è assolutamente riconducibile ad alcuna cultura messicana conosciuta.

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Eugène Delacroix, ‘Les Natchez’.

Il Grande Sole e le immolazioni volontarie

Al leader ci si riferiva come al Grande Sole. Egli poteva avere numerose mogli e diversi servitori, che doveva mantenere. La linea di sangue reale era matrilineare, il che significa che il Grande Sole s’insediava nella sua carica grazie ai legami parentali che egli contraeva sposando una donna della casta più elevata. Il Grande Sole era adorato come un dio e disponeva di un potere assoluto sulla vita dei suoi sudditi e veniva spesso trasportato su una lettiga da otto uomini (si noti il simbolismo solare). I Grandi Soli erano riveriti al punto che alla morte di un Sole, molti praticavano il suicidio rituale volontario, così come avveniva anche alla morte di altre personalità tribali, quali la regina o il capo dei guerrieri. Alla morte del Capo della Guerra, Serpente Tatuato, nel 1725, due delle sue vedove, una delle sue sorelle, il suo primo guerriero, il suo medico, il suo aiutante capo e la moglie dell’aiutante, la sua nutrice e un artigiano di lance di guerra, scelsero spontaneamente di morire con lui. Sembra che persino suo fratello, il Grande Sole al potere a quel tempo, volesse morire con loro, ma si dice che fu convinto dalle suppliche dei suoi alleati francesi a rimanere in vita. All’inizio del XVIII secolo, i coloni francesi installati nella Louisiana francese assistettero ai funerali della Grande Regina durante i quali venivano organizzati sacrifici umani, come anche per quelli del Grande Sole, che probabilmente non erano altro che volontari suicidi rituali.

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Il trasporto del Grande Sole su una lettiga da parte di 8 servitori.

Le tre caste

Sottoposta al capo, vi era una casta permanente di nobili che svolgevano funzioni sacerdotali e cultuali: erano infatti incaricati di badare alle cose sacre e di provvedere al culto del sole e dei pianeti. La persona incaricata di guidare la cerimonia religiosa indossava una corona di piume rosse e bianche e, per richiamare il dio durante il rito, fumava il calumet in direzione del sole. Per quanto riguarda la casta dei guerrieri (o uomini onorevoli), spesso la loro posizione sociale era determinata dal numero di nemici uccisi in battaglia. Come i nobili trovavano il loro capo supremo nel Grande Sole, anche i guerrieri ne eleggevano uno, denominato Capo della Guerra. La rimanente casta è formata dagli artigiani e dai produttori: ad essi ci si riferisce talvolta con la denominazione di plebei. L’unica peculiarità che distingue il sistema castale dei Natchez da quelli indoeuropei è l’estrema mobilità sociale che lo caratterizza. Per il resto, constatiamo la piena corrispondenza con la tripartizione funzionale dell’India vedica (Brāhmaṇa, Kṣatriya, Vaiśya), della Roma arcaica (Flamini, Patrizi, Plebei; rappresentati dalla triade divina Giove, Marte, Quirino) e delle antiche popolazioni dell’Europa settentrionale (simboleggiato nella triade divina Wotan-funzione sacerdotale, Thor-funzione guerriera, Freyr-funzione produttiva).

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Le tre caste: da sinistra a destra, un guerriero, un nobile e un plebeo.

Tradizione solare e simbolismo dell’aquila

Per comprendere meglio l’aspetto maschile, solare e guerriero della società Natchez ci sembra doveroso citare il parere autorevole di Frithjof Schuon sugli Indiani delle pianure (La Tradizione dei Pellirosse, p.33):

L’affascinante combinazione di eroicità combattiva e stoica e il portamento sacerdotale conferiva all’Indiano delle Pianure e delle Foreste una sorta di maestà a un tempo aquilina e solare, donde quella bellezza potentemente originale e insostituibile che viene ricollegata all’uomo rosso e contribuisce al suo prestigio di guerriero e di martire. Come i Giapponesi del tempo dei Samurai, il Pellerossa era profondamente artista nella sua stessa manifestazione personale: oltre al fatto che la sua vita era un gioco perpetuo con la sofferenza e la morte, e per ciò una sorta di karma-yoga cavalleresco, egli sapeva dare a questo stile spirituale un rivestimento estetico di insuperabile espressività.

D’altra parte, come afferma Antonio Medrano (in appendice all’opera di Schuon, p.55):

Forse niente rivela in modo più chiaro l’orientamento solare della spiritualità delle antiche popolazioni dei boschi e delle praterie dell’America del Nord e la dignitosa superiorità di quei “selvaggi”, sacrificati sugli altari del “progresso”, quanto il simbolismo dell’aquila. L’aquila: l’uccello guerriero ed aristocratico dagli occhi fulgenti e dalle ali potenti, il cui volo ha qualcosa di regale e sovrumano: l’uccello che guarda il sole faccia a faccia e che nella sua maestosa ascesa sembra perdersi nella sublimità delle alture: l’animale che simbolizza nel modo più perfetto la realtà rinchiusa nell’espressione “razza solare”.

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Penne d’aquila come segni di distinzione per le imprese eroiche.

Similmente a numerose altre popolazioni native del Nord America, anche nel simbolismo Natchez l’aquila equivale ad una ierofania del divino. Le penne d’aquila sono onnipresenti nell’estetica Natchez (nell’abbigliamento di sacerdoti e guerrieri come nelle decorazioni cerimoniali—ad es. unita al calumet) e costituiscono il più alto segno di distinzione per le imprese guerresche, un “segno di verità e immortalità, di potenza spirituale e di omaggio ai poteri celesti” (p.63). Ciò, continua Medrano, non è affatto casuale, in quanto (p.56):

L’aquila, effettivamente, come animale emblematico che rappresenta il principio solare, come incarnazione del valore, della forza e della potenza, come simbolo del volo verso l’alto e della maestà che si eleva con apollinea serenità al di sopra delle cose terrene, appare in ogni momento associata allo spirito dell’uomo, alla sua più intima realtà.

Eagle_eyeDopo aver dunque constatato come la concezione dell’aquila da parte dei nativi americani “riproduce il principio nascosto in ogni manifestazione spirituale della stirpe aria, che fa dell’aquila l’uccello solare per eccellenza” (p.62), l’autore sottolinea che nella tradizione ellenica essa è l’attributo di Zeus olimpico e in quella romana di Giove (il dio supremo del tuono e del fulmine, come il Wakan-Tanka della tradizione amerindia) e che inoltre rappresenta un elemento centrale del rito della divinificatio degli imperatori, non solo a Roma ma anche presso gli Aztechi e, con simboli equivalenti, presso gli Egizi (il falco di Horus) e—aggiungiamo noi—gli Incas (il condor), i Tibetani (l’avvoltoio) e i Norreni (l’aquila come animale sacro a Wotan, il dio supremo del pantheon scandinavo).

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Il sistema religioso
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Illustrazione di un rituale Natchez.

La religione dei Natchez era di tipo scamanico-animista: il loro dio supremo era Coyocop Chill, il dio del sole, e gli spiriti erano chiamati Coyocop Techu. I Natchez praticavano la magia sia a beneficio della collettività che del singolo individuo. Lo sciamano eseguiva complessi riti tramandati segretamente, che gli consentivano il controllo dei fenomeni atmosferici; nei periodi di siccità effettuava riti propiziatori e purificatori, come lunghi digiuni e danze specifiche. Durante le danze rituali, i partecipanti al rito erano soliti indossare penne d’aquila e ali posticce, allo stesso modo degli Incas. Facevano uso anche della magia simpatica, e ritenevano che chi fosse vissuto senza uscire dalle regole della società tribale sarebbe giunto, dopo la morte, in un luogo di gioie simile al paradiso. Costruirono su tumuli antichissimi grandi templi a cupola nei quali scolpirono immagini di legno di uccelli rivolti verso Est. Sull’altare del tempio vi era una cassa fatta di canne, al cui interno erano conservate le ossa dei Soli defunti.

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Un Natchez durante una cerimonia religiosa.

Il fuoco sacro e la cerimonia del Green Corn
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Un disegno di De Pratz (1758) della processione funeraria di Serpente Tatuato. Sullo sfondo, il tempio del Sole sul tumulo. Sulla destra e sulla sinistra, coloro che decidono volontariamente di immolarsi con il capo.

In questi templi, i Natchez onoravano le loro divinità: in essi il fuoco sacro del Dio Sole non doveva mai essere spento. Tutti i fuochi del villaggio, incluso il fuoco sacro, venivano spenti una volta all’anno, la notte di mezzaestate, per la cerimonia del Green Corn, o Busk, in onore della Dea del Grano (o, più in generale, della fertilità, come la Cerere mediterranea) che immolandosi in tempi mitici aveva donato il mais—allora prerogativa degli dèi—all’umanità. Al mattino, il fuoco del tempio veniva acceso nuovamente e per mezzo  della sua fiamma tutti i membri della tribù provvedevano a riaccendere anche quelli domestici. Il culto del fuoco sacro viene solitamente fatto risalire ad un’antica concezione religiosa dei popoli Indoeuropei, che vede la sua prima manifestazione nel dio vedico Agni e, in seguito, nel culto del fuoco di Estia in Grecia e di Vesta a Roma. Esisteva infatti, nel tempio di Vesta, una fiamma perpetua che ardeva e che le Vestali, vergini consacrate alla dea, avevano il compito di mantenere sempre accesa; lo spegnimento anche accidentale del fuoco veniva punito con la condanna a morte. Anche presso i Natchez, chiunque avesse permesso al fuoco sacro di spegnersi andava incontro alla medesima sorte. È anche curioso notare altre due singolari corrispondenze. Anche il culto della dea Vesta prevedeva che una volta all’anno la fiamma sacra si rinnovasse: ciò avveniva il 1 marzo, giorno del capodanno romano. Inoltre, La dea Vesta veniva celebrata nelle Vestalia che si svolgevano nella settimana che va dal 7 giugno al 15 giugno, dunque d’estate.  Il primo giorno delle celebrazioni era dedicato all’apertura annuale del tempio per i riti sacrificali. Aggiungiamo anche che una celebrazione molto simile a quella del Green Corn la ritroviamo praticamente presso tutte le popolazioni dell’Europa arcaica (nordici, germanici, mediterranei, britannici, slavi, iberici, caucasici) spesso tramandataci con il nome di midsömmer (mezzaestate, per l’appunto). In Svezia, dove questa tradizione si è mantenuta intatta nei secoli, ancora oggi verso la fine di giugno ci si raduna intorno al midsommarstång, un palo ornato di fiori attorno a cui si balla, ovvero un simbolo di fertilità per la stagione estiva al suo culmine. Anche i Natchez, durante la celebrazione di mezzaestate, erano soliti riunirsi intorno ad un palo o ad una costruzione verticale ornata con le foglie del grano e le pannocchie, e danzare per ore intorno ad esso intonando canti per favorire il pieno risveglio della dea della fertilità, esattamente come fanno tuttora gli scandinavi.

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La cerimonia del Green Corn.

Corpus mitico e folklore

Sebbene la tribù dei Natchez esista ancora oggi—e sia retta da una forma di governo che grossomodo è una continuazione degli antichi costumi—non ci rimane granché del loro corpus mitico. Ciò dipende in primo luogo dagli innumerevoli casi di suicidi di massa (spesso di membri della casta nobile, depositaria dei misteri esoterici) che hanno interessato il popolo Natchez da quando se ne hanno notizie certe e che ha ridotto gradualmente, in modo sempre più allarmante, il numero dei membri della tribù. Inoltre, in seguito ad un massacro ad opera dei guerrieri Natchez ai danni di alcune centinaia di coloni insediati nei pressi del loro territorio, essi vennero ulteriormente decimati, deportati e venduti come schiavi dalle truppe francesi, fino a ridursi a poche centinaia.

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Olobit

Tra i personaggi mitici delle narrazioni Natchez troviamo la coppia di gemelli leggendari Lodge-Boy e Thrown-Away (o Wild-Boy), nati dall’uccisione della madre da parte di un mostro; il Coniglio, che impersona il trickster nella mitologia Natchez;  Olobit, un mostruoso serpente simile all’Uktena dei Cherokee; Tlanuwa, un mitico uccello gigante dotato di piume metalliche, anch’esso comune al folklore dei Cherokee; gli u’lax daxgi’ilu, una categoria di spiriti acquatici in forma di serpente dotati di una forza sovrumana, in grado di trascinare sott’acqua i poveri malcapitati; ed infine un gigante cannibale comune a tutte le tradizioni folkloriche del sud-est e una razza di piccoli uomini, più antichi dell’umanità attuale, che ritroviamo pressoché ovunque nelle leggende dei nativi americani.

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Tlanuwa e Olobit.

Delle narrazioni mitiche che ci sono giunte, ne riportiamo due: una legata ad una figura mitica, un eroe culturale inviato dal cielo come salvatore e civilizzatore; l’altra riguardante il mito pressoché universale del diluvio avvenuto in tempi mitici. Con riguardo al primo mito, i Natchez tramandano che nei tempi antichi il figlio del Dio del Sole discese sulla Terra e, avendoli prescelti, portò ad essi la civiltà conferendogli leggi, costumi, cerimonie e arti tali da renderli superiori ai popoli delle zone limitrofe. Dopo aver compiuto la sua missione, questa divinità si ritirò all’interno di una pietra, che da quel momento fu preservata all’interno del tempio principale (si noti che il dio solare indoeuropeo Mitra nasce da una pietra). Il già menzionato Shuon, citato da Medrano (p.65) fa notare come, nella visione dei pellerossa, esista un’associazione tra l’Uccello del Tuono e la roccia, “quest’ultima essendo legata, in tutte le tradizioni, al simbolismo sacro dell’immobilità, immutabilità e centralità solari”. Medrano aggiunge:

Mentre, da un lato, insieme con l’idea di solidità, fermezza, stabilità spirituale, la roccia materializza il principio celeste e luminoso—la pietra come manifestazione della luce che dal cielo si proietta sulla terra fatta materia sensibile—dall’altro reca implicito un chiaro significato guerriero: si tenga conto della sua resistenza a qualunque tipo di attacco e il suo potere offensivo e distruttivo (dalla roccia l’Indiano ricava il materiale per confezionale le sue armi).

Per quanto riguarda il diluvio, i Natchez dicono che in un passato mitico esso colpì il mondo intero e che solo alcune coppie, avvisate dal Cane, costruirono una zattera e vennero salvate dall’inondazione grazie ai rami di un grande albero. Dopo sette giorni dall’inizio dell’inondazione, quando i sopravvissuti arrivarono sulla terraferma, si resero conto che nessun altro oltre a loro era stato salvato; l’unico suono che sentivano era un ronzio insopportabile. Ad un certo punto arrivò un uomo molto vecchio, che disse loro: “Questo ronzio che sentite viene dagli antenati(l’umanità antidiluviana), che voi pensate siano morti. Essi, invece, non lo sono affatto, ma continuano a vivere in spirito“. Un’altra leggenda sul diluvio tramanda che i sopravvissuti, in conseguenza all’inondazione, non detenevano più il fuoco: ma l’Aquila volò in cielo, e—come un novello Prometeo—donò loro il fuoco, simbolo di sacralità, vita e potenza. Anche questo mito ci tramanda come per i nativi americani, citando nuovamente Medrano, l’aquila rappresenti (p.67):

[…] l’incarnazione simbolica della suprema forza spirituale, immutabile e inalterabile, sovrannaturale ed ultraterrena, la quale, proiettandosi sull’universo manifestato, opera in maniera creativa e distruttiva al tempo stesso, al fine di plasmare l’armonia cosmica.

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