La tomba dell’Uomo Selvatico

Lungo tutto l’arco alpino sono diffuse leggende e tradizioni popolari sulla figura dell’Uomo Selvatico [che avremo modo di analizzare mercoledì sera insieme a Massimo Centini sul nostro canale YouTube]. Grazie a questo reportage di G.M. Mollar scopriamo che sul fondovalle di Lanzo, in Piemonte, c’è addirittura quella che, secondo il folklore locale, sarebbe la sua tomba: andiamo a vedere precisamente cosa racconta la leggenda che si è trasmessa fino a noi attraverso i secoli.

di Gian Mario Mollar

A prima vista, è soltanto un grosso masso sul ciglio della strada. Si rischia di tirare dritto, senza farci caso. E invece la pietra si affaccia sul fondovalle di Lanzo, in Piemonte, lungo la strada che conduce al Rifugio Salvin, ha una storia da raccontare. Possiamo scoprirlo dedicando un po’ di attenzione al cartello esplicativo, installato dal Comune di Monastero di Lanzo. Il cartello racconta che il masso ha avuto diverse vicissitudini, prima di trovare la collocazione attuale. Negli anni Sessanta, durante i lavori per allargare la mulattiera, un bulldozer lo spinse nel greto del torrente Tesso, dove riposò, capovolto, per circa 50 anni. Nel 2016, grazie all’interesse di alcuni appassionati di folklore locale, il grosso masso (circa 3×2,5 m) venne faticosamente fatto risalire lungo la scarpata e riposizionato sul bordo della strada. La caduta non l’aveva lasciato indenne: la lastra superiore, quella di maggiore interesse, si era separata dal resto del masso. Durante il recupero, poi, qualcosa andò storto, e il masso rimase ancora a testa in giù per qualche tempo, prima di venire ribaltato e trovare finalmente pace nella posizione attuale.

Ma perché darsi tanta pena per un semplice roc (“pietrone” in piemontese)? Il masso è ricoperto da decine di croci, incise sulla sua superficie. Le croci sono per lo più di tipo “greco”, ovvero con i bracci di uguale lunghezza, ma alcune presentano anche dei rigonfiamenti circolari alle estremità: si tratta in questo caso di “croci pomate”. Il simbolismo della croce associato a monumenti litici merita qualche considerazione: in epoca medievale, infatti, si usava cristianizzare” gli antichi monumenti pagani (menhir, cromlech, massi coppellati, ecc…) apponendovi delle croci, simbolo della nuova fede in Cristo. Ma la croce, in molti casi, è anche un simbolo con radici antiche, già utilizzato e presente in epoca pre-cristiana. 

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Difficile, dunque, stabilire con precisione la datazione delle croci che abbiamo davanti. Ad aiutarci, in questo caso, è il folklore popolare, le storie raccontate durante le lunghe veglie invernali nelle stalle, riscaldate dal fiato dei bovini. I racconti dei vej, degli anziani, ci dicono che il masso è la tomba dell’om selvaj, l’uomo selvatico che un tempo abitava quei boschi silenziosi. Chi era l’uomo selvatico? Possiamo descriverlo come una sorta di uomo primordiale, un antico abitatore dei boschi con caratteristiche ferine. In molte tradizioni viene descritto come un essere antropomorfo di grande statura, con sembianze mostruose e ricoperto di pelli o di licheni, o addirittura con il corpo simile a quello di un primate, irto di peli (ipertricosi) e sempre accompagnato da una grossa clava. L’uomo è “selvatico”, perché abita le selve, ma non è “selvaggio”: sebbene preferisca aggirarsi solitario lungo i fianchi della montagna, non disdegna la compagnia degli uomini “civili”, soprattutto nelle fredde notti invernali, durante le quali si avvicina al calore dei falò ed è pronto a condividere con i montanari i suoi preziosi consigli. 

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L’uomo selvatico, infatti, è il depositario di un’antica sapienza: conosce i segreti della trasformazione casearia e insegna agli uomini il “miracolo” che permette di ricavare dal latte il burro, la ricotta e il formaggio. In altre valli viene anche associato all’apicoltura e alla produzione del miele, o ancora, ai segreti dell’allevamento bovino o a quelli dell’estrazione mineraria, un po’ come i nani e i coboldi della mitologia nordica. Secondo i racconti della Val di Lanzo, l’uomo selvatico era pronto a rivelare alla gente un segreto ulteriore: quello che permetterebbe di trasformare il siero di latte – lo scarto della lavorazione del formaggio – in cera. Quella notte, però, alcuni ragazzi del paese decisero di giocargli uno scherzo crudele: gettarono nel fuoco la pietra su cui era solito sedersi e, poco prima del suo arrivo, la rimisero al suo posto. L’uomo selvatico, ustionato dal contatto con la pietra rovente, scomparve nella notte, portando con sé quel suo ultimo, prezioso segreto.

Malgrado non si facesse più vivo intorno al fuoco, l’uomo selvatico continuò a scorrazzare nei boschi, e non lo scoraggiavano né la pioggia né la neve. Soltanto durante le giornate di vento spariva dalla circolazione e rimaneva rinchiuso nel suo rifugio, nel cuore della foresta. Il vento è il peggior nemico dell’uomo selvatico, e si dice che abbia trasmesso questa paura alle madri del posto, consigliando loro di tenere i bambini in casa nelle giornate ventose, per proteggerli dalle malattie. Quando gli uomini smisero di avvistarlo nei boschi, mandarono preoccupati un pastore a cercarlo. Questi sapeva dove si trovava il suo nascondiglio: nei pressi del Santuario di Marsaglia, un’elegante e maestosa chiesa barocca che sorge poco distante dalla pietra dell’uomo selvatico. Anche questa chiesa, risalente al 1770, ha una storia interessante: dedicato a Maria Vergine, si dice che sia stata costruita in seguito alla guarigione miracolosa di una pastorella sordomuta, a cui era apparsa la Madonna. La leggenda vuole che, quando si intrapresero i lavori, i materiali e gli strumenti per la costruzione vennero miracolosamente spostati nel corso della notte per intervento della Vergine Maria, che volle scegliere personalmente il luogo. Del resto, il santuario sorge probabilmente su un antico luogo di culto, all’imbocco di vie che portano agli alpeggi: non a caso, si sono trovati nei dintorni strumenti di pietra e incisioni rupestri.

Ma torniamo alla nostra storia: il pastore trova l’uomo selvatico in fin di vita, riverso su un pagliericcio. Successivamente, viene mandato un prete per confessarlo e somministrargli l’estrema unzione: l’uomo selvatico gli suggerisce di appendere il mantello a uno spiraglio di luce che filtra nella sua buia spelonca. Il sacerdote esegue quanto gli viene richiesto, e vede con meraviglia che il mantello resta sospeso a mezz’aria, attaccato al raggio di luce. Quando rivolge di nuovo la sua attenzione all’om servaj, scopre che questi ha ormai esalato l’ultimo respiro. Si racconta che l’uomo selvatico sia stato sepolto lungo la strada che porta al Santuario di Marsaglia, non lontano da dove sorgeva il suo rifugio. La pietra che abbiamo davanti, dunque, sarebbe stata posta dagli abitanti del posto sul suo luogo di sepoltura, per garantirgli un eterno e indisturbato riposo. Le croci che ancora oggi adornano il masso sarebbero state incise come buon auspicio e preghiera dai pastori che si trovavano a passare in quei paraggi, in memoria di quel misterioso abitatore dei boschi.

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La leggenda dell’uomo selvatico in Val di Lanzo termina qui e i tratti che evidenzia sono comuni a molte altre leggende diffuse lungo tutto l’arco alpino. Su questa strana figura, però, rimane ancora molto da dire, in quanto si tratta di un elemento mitologico con radici che affondano nella notte dei tempi. Già nella mitologia sumera, oltre duemila anni prima della nascita di Cristo, troviamo Enkidu, un uomo selvaggio con corna e coda di toro, che vive solitario nei boschi prima di innamorarsi di una cortigiana e diventare amico dell’eroe Gilgamesh. Anche nella Bibbia, Esaù, fratello di Giacobbe, era ricoperto da un folto mantello di peli e prediligeva la vita agreste, tanto da scegliere di barattare con quest’ultimo il diritto di primogenitura (e le conseguenti responsabilità) in cambio di un piatto di lenticchie.

Le selve dei greci e dei romani erano popolate di divinità ctonie, a metà tra l’umano e il ferino: tra le moltitudini di Ninfe e Naiadi, i fauni e il dio Pan (Silvano per i Romani) avevano diversi punti in comune con il nostro uomo selvatico, tanto per le loro caratteristiche fisiche (erano per metà capri, dalla vita in giù), tanto per il loro custodire segreti. È celebre la spietata rivelazione del fauno Sileno, che confidò al Re Mida che la gioia più grande, per gli uomini, è quella di non essere mai venuti al mondo. Cernunnos, il dio cornuto dei Celti, che vagava nelle selve della Gallia Cisalpina prima dell’arrivo dei conquistatori romani, potrebbe essere un altro antenato del nostro misterioso uomo selvatico.

Spostandoci in avanti nel tempo, incontriamo nuovamente l’uomo selvatico in bestiari medievali e rinascimentali, come la Monstrorum Historia di Ulisse Aldrovandi del 1642. Fu proprio questo naturalista a portare all’attenzione del mondo un “vero” uomo selvatico: lo spagnolo Pedro Gonzalez (latinizzato secondo il costume dell’epoca in Pedrus Gonsalvus), nato a Tenerife nel 1537 e morto a Capodimonte, in Italia, nel 1618. Gonsalvus era affetto da una grave forma di ipertricosi, con il corpo interamente ricoperto di lunghi peli rossicci. Grazie a questa sua particolarità, divenne un’attrazione dapprima presso la corte di Francia, poi nel ducato di Parma, dove si sposò ed ebbe sei figli, quattro dei quali affetti dalla sua medesima malattia. Malgrado i suoi modi compiti, tanto da guadagnarsi il soprannome di “selvaggio gentiluomo di Tenerife”, Gonsalvo dovette condurre l’esistenza piuttosto infelice del “fenomeno da baraccone”, considerato più una curiosità che un essere umano dai suoi contemporanei e si ritiene che abbia ispirato la celebre fiaba de La bella e la bestia.

Ma l’archetipo dell’uomo selvatico vive ancora oggi: si pensi, ad esempio, al celebre Bigfoot americano, o allo Yeti degli altipiani himalayani, che può vantare tra i sostenitori della sua esistenza anche il celebre alpinista Reinhold Messner. Sulle Alpi, poi, l’uomo selvatico si riverbera in una ricchissima serie di manifestazioni folkloriche. Nell’impossibilità di fornire un elenco esaustivo, ci limiteremo a ricordarne alcune: le maschere dell’“Orso” nella tradizione carnevalesca piemontese, il Krampus in Trentino e Sud Tirolo, i Mammuthones in Sardegna, l’Uomo Cervo (Gl’ Cierv’) in Abruzzo, e così via. In Lombardia, nel paese di Sacco, c’è una camera picta cinquecentesca con uno straordinario affresco dell’uomo selvatico, con tanto di pelo irsuto e clava. Il cartiglio che lo affianca ne riassume le caratteristiche:

Ego sonto un homo selvadego per natura, chi me ofende ge fo paura.”


Difficile stabilire quale sia stata l’origine di questo archetipo, che abbiamo visto essere così diffuso e ricorrente in tradizioni anche distanti e lontane tra loro sia nello spazio che nel tempo. Forse dietro a questa figura bizzarra dell’immaginario popolare si cela la memoria atavica di antichi eremiti o antichi banditi che si nascondevano nelle foreste.

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A questo proposito, è interessante ricordare che l’archetipo dell’om sarvaj, talvolta, è capace di reincarnarsi anche ai giorni nostri: uno dei casi più eclatanti e recenti è stato quello dell’americano Christopher Knight, che, un mattino del 1986, prese la strada del bosco e “scomparve” per ben ventisette anni. Sopravvivere ai gelidi inverni del Maine non è uno scherzo: Knight, tuttavia, riuscì a farlo senza accendere fuochi per non rivelare la propria posizione, scaldandosi unicamente con bombole a propano che trafugava dalle baite limitrofe. Nel corso della sua lunga carriera da “uomo selvatico”, Knight pronunciò una sola parola in quasi trent’anni – un “ciao” sussurrato a un escursionista di passaggio – e visse grazie a migliaia di piccole effrazioni, soprattutto per procurarsi cibo e libri, che lo portarono infine all’arresto. Nel cercare di immaginare un’esperienza estrema come quella di Knight, sembrano senz’altro appropriate le parole dell’antropologo Massimo Centini a proposito dell’uomo selvatico:

“il selvaggio è soprattutto espressione dell’alterità, in esso si incarnano caratteri ed esperienze che sono fortemente in contraddizione con il modello di civiltà espresso nel programma antropocentrico. Ciò che indichiamo come selvaggio è soprattutto ‘altro’.” 

L’uomo selvatico incarna appunto questo aspetto ambivalente del mondo naturale: da un lato è nascosto e potenzialmente feroce, dall’altro è prodigo di insegnamenti e consigli. Tremendo e affascinante al tempo stesso, come si addice alle divinità. Purtroppo, il nostro “progresso” ci ha allontanati dalle montagne e ha messo in fuga l’uomo selvatico una volta per tutte: non possiamo più udire il suo passo tra le foglie del bosco.

Prima di abbandonare la tomba dell’Uomo Selvatico in Val di Lanzo, ci sembra appropriato dedicargli alcuni versi del poeta irlandese William Butler Yeats (1865-1939):

“Devo andare: c’è una tomba
Dove ondeggiano narcisi e gigli
E io vorrei compiacere il fauno sfortunato,
sepolto sotto la terra addormentata,
con canti allegri prima che giunga l’alba.
I suoi giorni urlanti erano incoronati di gioia,
e io lo sogno ancora che calpesta il prato,
camminando spettrale nella rugiada,
trapassato dal mio lieto cantare
le mie canzoni della gioventù sognante della vecchia terra […]”

The Song of the Happy Shepherd

Per chi fosse interessato a visitare i luoghi di cui abbiamo parlato, si tratta di un percorso molto semplice, percorribile sia a piedi che in mountain bike (volendo anche in auto, ma ci si priva della magia del bosco): da Monastero di Lanzo, occorre seguire le indicazioni per Frazione Mecca, svoltando a destra all’altezza della cappella di San Grato. Di lì, la strada sterrata si snoda per circa 8 km, fino a raggiungere il Rifugio Salvin a quota 1580 m, dove vi attendono una vista mozzafiato sulla valle e un pasto che non dimenticherete tanto facilmente.


Riferimenti bibliografici:

Massimo Centini, Sulle tracce dell’Uomo Selvatico, Kiwi, 2018

Roberto D’Amico, Homo Silvaticus, articolo su “Gli Arcani” anno III n. 21, 1974.

Michael Finkel, Nel bosco. La straordinaria storia dell’ultimo vero eremita, Piemme, 2018.

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