Alfredo Cattabiani: “La festa di Ognissanti e il Capodanno celtico”

Il 1° novembre è lo spartiacque fra un anno agricolo e l’altro. Finita la stagione dei frutti la terra, che ha accolto i semi del frumento destinati a rinascere in primavera, entra nel periodo del letargo. Per i cristiani si celebrano in questi giorni due feste importanti, Ognissanti e la Commemorazione dei defunti. Ma un tempo, nelle terre abitate dai Celti, che si estendevano dall’Irlanda alla Spagna, dalla Francia all’Italia settentrionale, dalla Pannonia all’Asia Minore, questo periodo di passaggio era il Capo d’anno: lo si chiamava in Irlanda Samuin ed era preceduto dalla notte conosciuta ancor oggi in Scozia come Nos Galan-gaeaf, notte delle Calende d’inverno, durante la quale i morti entravano in comunicazione con i vivi in un generale rimescolamento cosmico, come già si è constatato in altri periodi critici dell’anno.

di Alfredo Cattabiani

tratto da Calendario, cap. VIII
copertina: William Stewart MacGeorge, Halloween, 1911

Al declinar d’ottobre

Finita la vendemmia, ottobre declina verso la stagione buia e fredda. Cominciano le piogge insistenti che possono durare a lungo, come dice il proverbio del 16: «Se piove per San Gallo piove per cento giorni», cui si contrappone: «Si fa belo a San Gal fa belo fino a Nadal». tempo di arare poiché la stagione agricola sta finendo e sta per cominciare la nuova, sicché si dice: «Chi semina in ottobre miete in giugno»; oppure: «O molle o asciutto, per San Luca semina tutto»; e infine: «Per San Simone leva il bue dal timone, metti la stanga nel vangone», perché l’aratura per questo periodo – siamo al 28 – dev’essere terminata e anche le prode vangate. Gli insetti a loro volta muoiono o si rifugiano in luoghi riparati dal freddo, sicché: «Per San Simone una mosca vale un piccione».

La liturgia cattolica non prevede solennità ma solo feste di santi, il 18 l’evangelista Luca e il 28 gli apostoli Simone e Giuda, che non rientrano in questo viaggio non avendo un’importante funzione calendariale come d’altronde gli altri santi di cui si celebra la memoria, da santa Teresa d’Avila a sant’Ignazio d’Antiochia. Certo, incontrando nello scorrere dell’anno liturgico figure tanto sublimi, la tentazione di ripercorrere la loro vita spingerebbe a rovesciare le dighe di questo viaggio per dilatarlo in una maestosa collana di testimoni del Cristo. Vinta la tentazione, accompagniamo nel suo spegnersi fra le brume autunnali il mese d’ottobre in una notte magica per gli antichi, ma forse ancora per noi.


La festa di Ognissanti e il Capodanno celtico

Il 1° novembre è lo spartiacque fra un anno agricolo e l’altro. Finita la stagione dei frutti la terra, che ha accolto i semi del frumento destinati a rinascere in primavera, entra nel periodo del letargo: «Per l’Ognissanti siano i grani seminati e i frutti rincasati» consiglia un proverbio. Per i cristiani si celebrano in questi giorni due feste importanti, Ognissanti e la Commemorazione dei defunti. Ma un tempo, nelle terre abitate dai Celti, che si estendevano dall’Irlanda alla Spagna, dalla Francia all’Italia settentrionale, dalla Pannonia all’Asia Minore, questo periodo di passaggio era il Capo d’anno: lo si chiamava in Irlanda Samuin ed era preceduto dalla notte conosciuta ancor oggi in Scozia come Nos Galan-gaeaf, notte delle Calende d’inverno, durante la quale i morti entravano in comunicazione con i vivi in un generale rimescolamento cosmico, come già si è constatato in altri periodi critici dell’anno.

Era festa grande per i Celti, così come le feste solstiziali di Capodanno lo erano per i Romani, e veniva ancora celebrata all’inizio del medioevo. Per cristianizzarla l’episcopato franco istituì al 1° novembre la festa di Ognissanti alla cui diffusione contribuì soprattutto Alcuino (735-804), l’autorevole consigliere di Carlo Magno. Qualche decennio dopo, l’imperatore Ludovico il Pio, su richiesta di papa Gregorio IV (827-844) ispirato a sua volta dai vescovi locali, la estese a tutto il regno franco. Ma ci vollero ancora parecchi secoli perché il 1° novembre diventasse in tutta la Chiesa d’occidente la festa d’Ognissanti: fu papa Sisto IV a renderla obbligatoria nel 1475. La tradizione di festeggiare tutti i santi, anche quelli ignoti, non è nata tuttavia in Francia. Fin dalla seconda metà del secolo II in Oriente e del III in Occidente la Chiesa festeggiava ogni anno l’anniversario del dies natalis di ogni martire, ovvero il giorno della sua rinascita in cielo che coincideva, come s’è già spiegato, con la morte.

In greco mártyr significava testimone; e il primo dei martiri, il modello, era stato il Cristo stesso, «il testimone fedele», come l’aveva chiamato nell’Apocalisse Giovanni, il quale tuttavia aveva dato il medesimo titolo ad Antipa, ucciso a Pergamo per la sua fede [1]. Non era certo una contraddizione poiché il martire che confessa la propria fede nel Cristo fino all’estremo sacrificio diventa una realtà sola con il Crocifisso Risorto e rende al Padre la stessa testimonianza di fedeltà che gli ha reso il Figlio: figlio nel Figlio, nel mistero della comunione celeste. Nei primi secoli si ricordava il martire presso il suo sepolcro con la celebrazione dell’eucaristia. Inizialmente si pregava il Signore per lui, poi si cominciò a pregare suo tramite, a considerarlo cioè intercessore presso Dio, come testimoniano i graffiti romani della Memoria apostolorum che risalgono all’incirca al 260. L’usanza di celebrare ogni martire nel suo dies natalis indusse le Chiese locali a compilare un elenco con la data della morte e il luogo della depositio del corpo, ovvero della morte, come prescriveva san Cipriano, vescovo di Cartagine (morto nel 258) [2]: sicché fin dalla metà del secolo III nacquero i primi abbozzi dei calendari cristiani e dei martirologi.

René Charles Edmond His, All Saints’ Day, 1897

La prima depositio martyrum pervenutaci è contenuta nel già ricordato Cronografo Filocaliano (354), così detto perché fu composto da Furio Dionigi Filocalo, artista greco e inventore di caratteri di rara eleganza di cui egli si sarebbe servito più tardi per far scolpire sulle tombe dei martiri le iscrizioni dettate dal suo maestro, papa Damaso. Il Cronografo, che era destinato a un cristiano, come dimostra la dedica (Floreas in Deo, Valentine: possa tu fiorire in Dio, Valentino) contiene nella prima parte un calendario con i fasti romani, seguito dai sette giorni della settimana con le loro proprietà astrologiche; nella seconda, i fasti consolari, il catalogo dei prefetti della città, la descrizione di Roma e infine alcuni testi cristiani fra cui la depositio martyrum con le indicazioni essenziali: per esempio, al terzo giorno dalle Idi di agosto, cioè all’11, si legge Laurenti in Tiburtina, ovvero a Lorenzo sulla via Tiburtina. La riportiamo qui di seguito premettendo tra parentesi la traduzione in date moderne di quelle romane:

item depositio martyrum (25 dicembre): VIII Kal. Jan. Natus Christus in Bethleem Judeae.
Mense Januario (20 gennaio): XIII Kal. feb. Fabiani in Calisti et Sebastiani in Catacumbas.
(21 gennaio): XII Kal. feb. Agnetis in Nomentana.
Mense Februario (22 febbraio): VIII Kal. mart. Natale Petri de catedra.
Mense Martio (7 marzo): Non. mart. Perpetuae et Felicitatis, Africae.
Mense Maio (19 maggio): XIV Kal. jun. Partheni et Calogeri in Calisti, Diocletiano IX
et Maximiano VIII cons. (304).
Mense Junio (29 giugno): III Kal. Jul. Petri in Catacumbas et Pauli Ostense, Tusco et
Basso cons. (258).
Mense Julio (10 luglio): VI id. Jul. Felicis et Filippi in Priscillae; et in Jordanorum
Martialis, Vitalis, Alexandri; et in Maximi, Silani; hunc Silanum martyrem Novati furati
sunt; et in Praetextati, januari.
(30 luglio): III Kal. aug. Abdos et Sennes in Pontiani, quod est ad Ursum piliatum.
Mense Augusto (6 agosto): VIII id. aug. Xysti in Calisti, et in Praetextati, Agapiti et
Felicissimi.
(8 agosto): VI id. aug. Secundi, Carpophori, Victorini et Severiani in Albano; et
Ostense VII ballistaria, Cyriaci, Largi, Crescentiani, Memmiae, Julianae et Smaragdi.
(9 agosto): III id. aug. Laurenti in Tiburtina.
(13 agosto): id. aug. Ypoliti in Tiburtina et Pontiani in Calisti.
(22 agosto): XI Kal. sept. Timotei, Ostense.
(28 agosto): V Kal. sept. Hermetis in Bassillae, Salaria Vetere.
Mense Septembre (5 settembre): Non. sept. Aconti in porto, et Nonni et Herculani et
Taurini.
(9 settembre): V id. sept. Gorgoni in Labicana.
(11 settembre): III id. sept. Proti et Jacinti in Bassillae.
(14 settembre): XVIII Kal. oct. Cypriani Africae, Romae celebratur in Calisti.
(22 settembre): X Kal. oct. Bassillae, Salaria vetere, Diocletiano IX et Maximiano VIII
cons. (304).
Mense Octobre (14 ottobre): prid. id. oct. Calisti in via Aurelia, miliario III.
Mense Novembre (9 novembre): V id. nov. Clementis, Semproniani, Claudi, Nicostrati
in comitatum.
(29 novembre): III Kal. dec. Saturnini in Trasonis.
Mense Decembre (13 dicembre): id. dec. Ariston in Portum.

Albrecht Altdorfer, All Saints, 1500 circa

Il Cronografo contiene anche una depositio episcoporum perché ogni Chiesa locale teneva aggiornato l’elenco dei suoi vescovi per attestare la sua filiazione apostolica e dunque la sua legittimità. Anche per i vescovi era indicato il luogo di sepoltura perché il vescovo in carica potesse visitare alla data fissata la tomba del suo predecessore con una piccola delegazione di chierici e fedeli. Fra i vescovi, a partire dal secolo IV, si cominciò a onorare chi, pur non essendo stato martirizzato, aveva dimostrato di essere testimone del Cristo, ovvero «confessore». Questo termine, originariamente sinonimo di martire, era stato applicato nel secolo III ai cristiani imprigionati, condannati alla prigione perpetua o torturati per la loro fede, che tuttavia erano riusciti a sfuggire alla condanna. Poi fra il secolo IV e il VI assunse il significato di «martire bianco», ovvero di colui che aveva sacrificato la propria vita all’ascesi. Infine con il medioevo sarebbe stato sostituito da quello pagano di santo che in latino – sanctus – significava sacro, degno di religioso rispetto, accetto agli dèi.

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Era logico che anche i non martiri venissero venerati perché con l’età costantiniana erano tramontate le persecuzioni, e i fedeli avevano cominciato a onorare altre forme di testimonianza evangelica, come quelle dei Padri del deserto, degli asceti, dei fondatori del monachesimo, delle vergini o delle vedove che si erano consacrate al Cristo, e infine dei pastori che meglio avevano testimoniato la loro fede. Sicché a partire dal secolo V si fusero in un unico elenco martiri e confessori: nacquero i primi martirologi che, diversamente dai calendari, la cui funzione era di indicare i fasti locali delle varie Chiese, ordinavano nell’ordine dei giorni tutti i nomi dei santi appartenenti alla Chiesa universale che l’autore riusciva a conoscere. Il più antico pervenutoci è il cosiddetto Martirologio Geronimiano, attribuito erroneamente a san Girolamo. La copia, che risale al 592, fu compilata ad Auxerre, in Francia, ma l’originale, scritto nell’Italia settentrionale e perduto, doveva probabilmente risalire all’incirca alla metà del secolo V. Il Geronimiano aveva ricavato le notizie dal già citato Cronografo Filocaliano, da un martirologio siriaco del 411 (ispirato a sua volta a un martirologio greco redatto a Nicomedia nel 360 all’incirca), dal calendario di Cartagine, anch’esso del secolo V; e altre notizie l’estensore le aveva attinte dalle Chiese dell’Italia settentrionale, della Gallia, della Spagna e della Bretagna.

Alla fine del secolo VI san Gregorio Magno ne conosceva l’esistenza perché scriveva a Eulogio, patriarca di Alessandria: «Riuniti in un sol libro, abbiamo i nomi di quasi tutti i martiri, con le loro passioni segnate a ogni giorno, e ogni giorno celebriamo messe in loro onore. In questo volume non è tuttavia indicata la forma della loro passione. Vi è soltanto il nome, il luogo e il giorno della morte» [3]. Alla lacuna ovviò il monaco inglese Beda il Venerabile (morto nel 735) che all’inizio del secolo VIII compose un martirologio meno denso di nomi ma con una breve notizia per ciascuno, ricavata dagli acta, dalle Passiones martyrum e dalle successive leggende. Nascevano così i martirologi classici, fra i quali assunse maggiore autorità quello di Usuardo di Saint-Germain (865) che sarebbe stato letto per tutto il medioevo nei capitoli canonicali e nei monasteri, e si sarebbe arricchito via via di altre notizie. Questo testo, collazionato con quello di Beda e con un altro di Adone di Vienna (860), servì per la preparazione del Martirologio romano voluto da Gregorio XIII per mettere ordine nel gran guazzabuglio di date, spesso infondate o in contraddizione fra di loro. La prima edizione del Martirologio romano, che uscì con lettera ufficiale di Gregorio XIII nel 1584, non era tuttavia perfetta. Ne seguirono molte altre rivedute e corrette fino a quella di Benedetto XIV nel 1748 che è servita di base per le ristampe successive con l’aggiunta dei nuovi santi.

Tutti i Santi in una miniatura senese del XV secolo

Se il culto dei singoli martiri e santi risale ai primissimi secoli, a partire dalla fine del secolo IV si sentì in Oriente l’esigenza di celebrare tutti i santi, conosciuti o ignoti, in un’unica festa: la Chiesa siriaca durante il tempo pasquale, la bizantina la domenica successiva alla Pentecoste. A Roma la nascita di quella che sarebbe poi diventata la festa di Ognissanti risale invece al 13 maggio del 610, quando papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon alla Vergine Maria e a tutti i martiri (Sancta Maria ad martyres). Successivamente si tentò di introdurre nella città anche la festa bizantina che cadeva la domenica successiva alla Pentecoste; ma la nuova data durò poco perché un’antica tradizione imponeva ai Romani il solenne digiuno delle Tempora che si concludeva con la veglia domenicale. Con il medioevo la festa franca del 1° novembre istituita nel secolo IX, come s’è detto, si estese a poco a poco dal regno franco agli altri paesi finché papa Sisto IV la rese obbligatoria per tutta la Chiesa occidentale.

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Ognissanti è considerata nel nuovo calendario liturgico una solennità, cioè fa parte delle feste più rilevanti perché secondo la costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II «nell’anniversario dei Santi la Chiesa proclama il mistero pasquale realizzato nei santi che hanno sofferto con Cristo e con Lui sono glorificati». Essi sono coloro che avendo assimilato il «modello» Cristo, avendo offerto la propria vita col martirio «rosso» (i martiri veri e propri) o con il «bianco» (gli asceti), partecipano ontologicamente della natura divina: attraverso la porta stretta della «grande tribolazione», come scrive Giovanni, hanno raggiunto la gioia della comunione, introdotti alla presenza inesprimibile e ineffabile di Dio. Lo contemplano nel suo mistero d’amore di Padre, Figlio e Spirito Santo [4]. «Tutti stavano in piedi davanti al trono e all’Agnello,» è scritto nell’Apocalisse «avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani»: simboli di resurrezione, di vittoria sul male e di gloria. Figli di Dio nel Figlio diventano canali di grazia nel corpo mistico del Redentore dove tutti sono lieti quando un membro è nella gioia e soffrono quand’egli soffre; e dunque, non potendo restare insensibili alle necessità spirituali dei fratelli, intercedono presso il Signore perché la grazia richiesta sia concessa. Tuttavia, come afferma la costituzione conciliare Lumen gentium a proposito della Santa per eccellenza, la Vergine soccorritrice e mediatrice, il ricorso a loro «va inteso in modo che nulla detragga o aggiunga alla dignità e all’efficacia di Cristo, unico mediatore» [5].

Il 1° novembre, che celebra la morte di tutti i santi come giorno della loro «nascita», della loro vittoria, dell’assunzione nella comunione divina, ha cristianizzato il capo d’anno celtico non contraddicendone lo spirito perché, se si paragonano i santi ai chicchi di grano, scesi nella stagione autunnale nella terra per rinascere come piante in primavera, si possono comprendere meglio le parole che il Cristo disse ad Andrea e Filippo: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve il Padre lo onorerà» [6].

Julio Larraz, Halloween, 1973

La Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Il giorno successivo, 2 novembre, la Chiesa commemora tutti i defunti secondo un’usanza universale che si riscontra in ogni tradizione e non ha mai avuto, se non nell’Occidente moderno, carattere triste e funebre. Vi è però un paese europeo dove la commemorazione assomiglia a una festa familiare durante la quale i morti sembrano confondersi con i vivi. «In Irlanda» scriveva Yeats «il mondo dei morti non è tanto distante da quello dei vivi. Essi sono a volte così prossimi che le cose del mondo paiono soltanto ombre dell’aldilà.» Per questo motivo il luogo dove si riunivano i clans irlandesi era un vecchio cimitero ancora utilizzato oppure fuori servizio, dove si amministrava la giustizia.

Oggi ancora nelle notti di Ognissanti e dei Morti i cimiteri irlandesi sono un mare di lumini, quasi a continuare la tradizione celtica del Samuin quando si aprivano le tombe e i morti si mescolavano ai vivi: il sentimento di vicinanza era tale che ogni vivente – si diceva – poteva scendere con loro nel mondo infero all’unica condizione di rimanervi fino al Samuin successivo. In quei giorni di freddo autunno i Celti portavano nei cimiteri fiori a profusione – forse secchi, forse coltivati in serre – per alludere all’aldilà come paradiso. Usavano anche accatastare teschi perché si pensava che il morto appartenesse, per un certo tempo, a entrambi i regni: per quanto, nessuno poteva dirlo. «Il che gli consentiva, e consentiva in particolare al suo cranio» spiega Margarethe Riemschneider «di profetare a beneficio dei rimasti in vita. Egli poteva inoltre, se riverito, irradiare su di loro certe energie paradisiache… L’ossario con i suoi teschi accatastati è più che una forma di sepoltura. La vicinanza dei teschi – che non sono necessariamente di antenati noti – è tale, come dice Yeats, che la loro ombra dall’aldilà cade sui vivi.» [7] Si sono ritrovate case di ossa in Bretagna, Boemia e Carinzia, tutti paesi celtici nell’antichità.

Paul Cornoyer, Halloween, 1887

Durante la veglia funebre si dipingevano i teschi custoditi nell’ossario e si trascorreva la notte bevendo, suonando e cantando in compagnia dei morti. Un’eco sbiadita di quelle veglie si ritrova oggi nella notte di Hallow’en in Irlanda e negli Stati Uniti, durante la quale i ragazzi si mascherano da scheletri o fantasmi mimando il ritorno dei trapassati sulla terra, e girano di casa in casa chiedendo piccoli tributi e minacciando se non li ottengono di giocare qualche scherzo che consiste nell’imbrattare di sapone le finestre o nell’impiastricciare le vetrine. In una diversa area culturale, in Messico, le feste di Todos los Santos, che comprendono anche il giorno dei Morti, riflettono tradizioni azteche non dissimili da quelle celtiche. I cimiteri sembrano un prato fiorito a primavera, non c’è tristezza ma gioia nella rievocazione dei parenti e degli amici. Per la festa si confezionano dolci di pane in forma di teschi e scheletri a significare che dai morti, dai «semi sotterrati» rinasce la vita, ovvero che i morti «ci nutrono».

D’altronde, anche nel nostro paese si mangiano ancora le «ossa dei morti» al 2 novembre: così si chiamano in Sicilia quei dolci di mandorla che le pasticcerie vendono dalla vigilia fino a tutto il 2 novembre. Ma l’usanza non è limitata alla Sicilia: in varie altre regioni, dalla Sardegna all’Umbria, si vendono per l’occasione i dolci dei morti. Che i morti portano la vita è dunque una credenza anche italiana: d’altronde, nella stessa Sicilia si dice che i defunti, nella notte a loro consacrata, rechino doni ai bambini, come la Befana; le mamme raccontano ai figli che i morti abbandonano in quelle ore magiche le loro dimore e scendono a frotte verso le case dei vivi portando loro regalini. Anche gli Etruschi credevano che i defunti sedessero accanto a loro sul bordo dei sepolcri partecipando al pasto funebre: nelle necropoli vivi e morti erano sempre gli uni alla presenza degli altri, quasi non esistesse un confine tra i due mondi per un tempo determinato.

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James Elder Christie, Halloween Frolics, 1890 circa

Se i Celti festeggiavano i morti al 1° novembre, gli antichi Romani dedicavano loro nove giorni di febbraio, durante il passaggio dall’inverno alla primavera, dal vecchio al nuovo anno; e anche quando le Calende di gennaio s’imposero come unico capo d’anno si continuò a onorare gli antenati durante i Parentalia che duravano dal 13 al 21 febbraio. Le cerimonie consistevano nella parentatio tumulorum, che indicava un servizio funebre prestato alle tombe. Si offrivano sul sepolcro familiare corone di fiori, viole sparse, farina di farro con un grano di sale, pane inzuppato nel vino: parva petunt Manes, i Mani si contentano di poco, scriveva Ovidio. Il giorno culminante e finale dei Parentalia erano i Feralia (il 21 febbraio) che anticamente cadevano nell’ultimo quarto di luna. Secondo Varrone «Feralia deriva da inferi, morti, e ferre, portare, perché in quel giorno si portavano i funerei cibi al sepolcro della famiglia da chi aveva il diritto di farlo» [8]. Festo invece faceva derivare il nome da ferio, ovvero «ferire» le vittime; ma questa interpretazione non sembra giustificata da nessun sacrificio ricordato in quel giorno [9]. I parentes erano anche ricordati singolarmente nel loro dies natalis, ovvero nel compleanno. I familiari si radunavano intorno al sepolcro del defunto per offrire libagioni o presentare alimenti ai suoi manes e per partecipare al refrigerium, al banchetto funebre.

Anche i cristiani cominciarono a onorare i loro defunti che seppellivano nelle necropoli costruite lungo le vie consolari: ogni morto aveva un loculo scavato nel tufo, dove nella ricorrenza non della nascita ma della morte, che come s’è spiegato rappresentava il vero dies natalis, gli si offriva una messa. Ai tempi di sant’Ignazio di Antiochia e di san Policarpo, nella seconda metà del secolo I, l’usanza era ormai diffusa. La Chiesa però volle frenare quelli che considerava abusi e stabilì che la messa fosse celebrata soltanto sui sepolcri dei martiri; successivamente, nel secolo IV proibì anche i banchetti funebri forse per distinguere la commemorazione cristiana dalla pagana. Ma alcune usanze sopravvissero a lungo: Prudenzio, che visse a cavallo fra il secolo IV e il V, ricorda le viole e i fiori che si spargevano sui sepolcri, come le libagioni sulle tombe dei cari. Talvolta, attraverso fori praticati sui coperchi dei sarcofagi si facevano gocciolare latte e miele oppure unguenti preziosi direttamente sulla salma. Poi con le scorrerie dei barbari le catacombe, che si trovavano fuori della cinta delle mura aureliane, divennero insicure e si cominciò a tumulare i morti all’interno delle città, nelle chiese e lungo i narteci.

William-Adolphe Bouguereau, The Day of the Dead, 1859

La Commemorazione di tutti i defunti nacque invece più tardi, nel cuore del medioevo, a imitazione dei bizantini che celebravano un Ufficio in suffragio di tutti i morti al sabato prima della domenica di Sessagesima, ovvero l’ottava prima di Pasqua, nel periodo compreso tra la fine di gennaio e quella di febbraio: furono i monasteri benedettini a introdurre questa pratica nella Chiesa latina durante il secolo X. Pochi decenni dopo, nel 998, sant’Odilone di Cluny ordinò ai cenobi dipendenti dall’abbazia francese di far risuonare le campane con i tradizionali rintocchi funebri dopo i vespri solenni del 1° novembre, annunciando ai monaci che dovevano celebrare in coro l’Ufficio dei defunti. Il giorno seguente tutti i sacerdoti avrebbero offerto al Signore l’eucaristia «pro requie omnium defunctorum»: evidente la preoccupazione di cristianizzare le cerimonie celtiche che probabilmente sopravvivevano ancora nelle zone rurali non del tutto evangelizzate.

Il rito si diffuse a poco a poco nei rituali diocesani e in quelli di altri ordini religiosi fino al Trecento prima che Roma l’accogliesse: l’Anniversarium omnium animarum – così si chiamava appare per la prima volta al 2 novembre nell’Ordo romanus del secolo XIV. In quel giorno non si celebrava il concistoro né si predicava durante la messa. La quale aveva e ha la funzione di impetrare la misericordia per i defunti sottolineando la comunione dei santi che unisce la Chiesa orante e militante a quella penante ed espiante nel purgatorio: corpo mistico dove dimorano i beati del cielo, i «viatori» della terra e le anime purganti.

Oggi, dopo la messa, ci si reca nei cimiteri per adornare le tombe di fiori, soprattutto crisantemi (simboli in Oriente, da dove sono giunti, di solarità e dunque di immortalità), e per ricordare con tutta la famiglia i parenti scomparsi. Ma diversamente dagli antichi, viviamo questa giornata all’insegna della mestizia e consideriamo i cimiteri come luoghi lugubri, da non frequentarsi se non nelle occasioni tristemente necessarie. E invece i camposanti dovrebbero tornare ad essere luoghi familiari e ridenti perché contengono le nostre radici, tutti coloro che ci hanno preceduto trasmettendoci non soltanto la vita ma anche il patrimonio di tradizioni, di cultura e di regole morali su cui è fondata la nostra comunità. Per questo motivo la Commemorazione dei defunti non è soltanto una ricorrenza religiosa o un’occasione per rievocare i nostri defunti, ma una vera festa della città. E giustamente nel 1987 il Comune di Torino ha invitato i cittadini ad adornare con i fiori, che l’amministrazione metteva a disposizione gratuitamente, tutte le tombe e ha mandato nei cimiteri la Banda dei Vigili urbani perché con le sue note gioiose sottolineasse anche la valenza civile della Commemorazione. Infine, per spingere i torinesi a passeggiare nei camposanti al di fuori della ricorrenza, ha distribuito gratuitamente una guida del cimitero monumentale, intitolata significativamente Le nostre radici: così è nata una nuova usanza che si dovrebbe estendere a tutte le città italiane.

Jakub Schikaneder, All Souls’ Day, 1888

Note:

[1] Cfr. Apocalisse 1, 5 e 2, 13.

[2] Epistula 12.

[3] Epistula 8, 29.

[4] Cfr. a questo proposito anche Giovanni Marchesi, Il Vangelo della speranza, commenti al lezionario festivo, anno B, Roma 1987, p. 514.

[5] Lumen gentium 62.

[6] Giovanni 12, 24-26.

[7] Margarethe Riemschneider, Vivere coi morti, in «Conoscenza religiosa», n. 1, 1981, p. 69.

[8] De lingua latina VI 34.

[9] Festo, Feralia.

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