Portfolio nativo. Perennialismo indiano e Regno della quantità

Wakan-Tanka tu sei ogni cosa, eppure al di sopra di tutte le cose. 

Alce Nero

La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimenti liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo.

Giacomo Leopardi, Lo Zibaldone

Ciò che io so delle scienze divine e delle Sacre Scritture l’ho imparato nei boschi e nei campi.
I miei maestri son stati i faggi e le querce, non ne avuti altri.

Ascolta una persona d’esperienza tu imparerai più nei boschi che nei libri.
Alberi e pietre ti insegneranno più di quanto possa acquisire dalla bocca di un maestro.

San Bernardo

Come appare comprensibile leggendo il titolo, questo scritto non è esattamente un articolo in quanto somiglia piuttosto a ciò si definisce un portfolio, un portfolio di immagini concernenti, in linea di massima, alcune espressioni principiali della cultura nativa nordamericana, segnatamente quella dei Lakota Sioux, che fanno da spunto a concise informazioni inerenti l’immagine unite tra loro da un filo conduttore.  

Si tratta quindi di rapidi ritratti, stesi con la penna come fossero colpi di pennello, sintetizzanti alcuni aspetti, tra i più significativi, in cui si espresse la spiritualità di queste genti, una spiritualità certamente da non omogeneizzare in un unico contenitore che renderebbe indistinguibili l’un ceppo etnico dall’altro ma che, purtuttavia, nella sua frammentarietà mostra comunque come queste “nazioni” ebbero una comune visione del “mondo”, fondando il loro “esserci” su alcuni pilastri principiali, come ad esempio “la danza guardando il Sole”, la cui testimonianza è individuabile fin dalla preistoria. 

“Dio” (il Grande Misterioso) è inteso in queste terre sia nella sua espressione impersonale che in quella personale ed egli si manifesta altresì nella dimensione dell’immanenza attraverso tutto l’universo delle sue “creature”, che rinviano costantemente, a chi sa leggere la realtà “sottile”, a un corrispettivo spirituale che precede la loro manifestazione terrena. Gli animali come il bisonte, che si prende ad esempio, vive come “idea” in immaginifiche caverne sotterranee, e in questa veste è raggiungibile solo per mezzo della visione, possibilità esperibile solo da coloro che vivono la realtà degli universi multipli, di cui discetta lo psichiatra Tobie Nathan e che trovano sponda negli iatromanti della Grecia arcaica. 

Il possente quadrupede è quindi accessibile nella sua veste imaginale, come apparizione e da questo “non dove” e perciò non ubicabile luogo , proietta la sua “ombra” come apparenza fisica (in senso bruniano quindi) nella manifestazione, 

Questa tipologia percettiva fa comprendere perché, del tutto spontaneamente, la Natura è “sacra” (espressione abietta nei nostri lidi) e la massima estrinsecazione di questa sacralità è esattamente la “natura selvaggia”, la wilderness, croce e delizia degli invasori europei che videro in essa, prima il regno ancora incorrotto dell’edenico Adamo, poi il possibile regno del diavolo che è plasticamente rappresentato dall'”Indiano” dal momento che questi vive nelle selve insieme ai suoi animali più rappresentativi, l’Orso e il Lupo, e che diabolicamente si oppone alla creazione della nuova Gerusalemme e quindi alla realizzazione di quel “destino manifesto” finalizzato alla inaugurazione dell’impero del bene. 

Questa finalità redentrice propria dell’uomo “nuovo” americano, il cui consolidato individualismo diviene l’evidente estrinsecazione del progresso in atto attraverso il continuo spostamento della “frontiera”, si traduce in una completa emancipazione di questa sorta di “nuova specie” dal proprio passato, un distacco ottenuto tagliando pressoché ogni radice che possa legarlo al Paese di provenienza. 

Due mondi quindi si incontrarono nel Continente della Tartaruga (così i Nativi hanno battezzato la loro terra) e, appena dopo, si scontrarono e le ragione di questa “incomprensione” è nelle premesse storiche che sostengono le ragioni dei due distinti universi. 

Parlando di natura si può affermare che se per l’europeo, divenuto nel Neolitico pastore e agricoltore, la caccia poteva costituire un passatempo pressoché ludico, vista la deviazione utilitaristica del suo rapporto con il mondo e con gli animali in particolare, per il nativo la natura, soprattutto quando essa viene contemplata nel suo stato verginale, riveste un profondo significato simbolico dal momento che ogni elemento è collegato reticolarmente al resto. Per questo la caccia è tutto il contrario di un passatempo più o meno ludico, come non esaurisce la sua funzione nella mera soddisfazione alimentare ma, in conseguenza della profonda simbolizzazione del paesaggio e dei suoi abitanti, l’attività venatoria costituiva sempre la manifestazione primaria della “cerca” spirituale, prima ancora che insieme di tecniche destinate alla soddisfazione delle necessità alimentari. 

Come sottolineano Joseph Epes Braun e Hossein Nasr l’assenza millenaria di una metafisica della natura in Occidente ha progressivamente condotto a una catastrofe spirituale il cui effetto degenerativo si sostanzia nella cupida affermazione del “Regno della quantità”, una ideologia che, nel calvinismo e suoi derivati, troverà la più compiuta espressione teologica come manifestazione della grazia concessa all’individuo privilegiato, il nuovo homo sapiens della specie umana. 

In relazione all’importanza degli “animali” presso le comunità native delle Grandi pianure possiamo sottolineare in breve che questa rilevanza è tanto significativa che la figura del “Messia” per i Lakota Sioux è rappresentata da Donna bisonte bianco, ovvero da una femmina di questo animale, singolarmente candido, che si trasforma in una donna magica e meravigliosa che dona le istituzioni rituali a questi popoli, tra cui, massimamente, la pipa sacra, oggetto di comunicazione cerimoniale tra Terra e Cielo. 

Alce Nero, ultimo depositario di questa tradizione orale, narrando di ciò a Joseph Epes Brown, lo studioso sollecitato da René Guénon a incontrare il vecchio medicine-man per il tramite dello Schuon, affermerà che, come Cristo, Donna bisonte bianco è destinata a ritornare. Ricordiamo che tra i Sioux il bisonte fa il paio con il ciclico Toro del dharma della tradizione orientale, ne è esattamente la copia conforme in diverso continente e segna quindi identicamente la ritmica della rapsodia ciclica, portando con sé i semi ideali di quell’apokatastais, che fu anche dottrina dei giudeo cristiani, oltreché di Origene, successivamente accantonata. 

I Nativi accettarono, come inevitabile conseguenza della concezione ciclica della totalità, la fine della loro epoca, una fine ritenuta comunque parte del disegno divino. Essa ha rappresentato e rappresenta una tappa necessaria per inaugurare il ciclo successivo nel quali la tradizione dell’uomo rosso tornerà di nuovo ad essere protagonista del ciclo vitale della Nuova Era.  


Un copione s’inaugurò nelle terre del nord America all’atto dell’attracco del Mayflower a Capo Cod nel settentrione del continente americano. I pii pellegrini, una volta sbarcati, stremati da un viaggio periglioso in cui molti di loro persero la vita, non avrebbero potuto sopravvivere al rigidissimo inverno locale se non fossero stati aiutati dalle popolazioni native, motivo per cui, doppiato il primo anno di permanenza e garantita la sicurezza dei “migranti”, si celebrò il “giorno del Ringraziamento” (Thanksgiving), che avrebbe dovuto sancire, nella originaria intenzione, un patto di mutua convivenza tra i nuovi venuti e le popolazioni locali, come mostra l’aulica immagine che qui si propone. Infatti, dopo il duro lavoro degli inizi, i Pellegrini indissero questo lieto giorno di ringraziamento a Dio per l’abbondanza ricevuta e per celebrare il successo del primo raccolto, i cui semi erano stati donati dagli indigeni, insieme alle tecniche di coltivazione degli stessi. 

I coloni invitarono alla festa anche gli autoctoni, grazie ai quali avevano potuto superare le iniziali difficoltà di adattamento ai nuovi territori, gettando così le basi per un futuro prospero e ricco di ambiziosi traguardi. Nel menù di quella giornata speciale, prodromico di una tradizione ininterrotta, ci furono pietanze che nel tempo divennero consuete anzi quasi obbligatorie per le feste successive in particolare il tacchino e la zucca insieme con altre carni bianche, carne di cervo, ostriche, molluschi, pesci, torte di cereali, frutta secca, noccioline e caramelle. Purtroppo il quadro di Jean Leon Gerome Ferris che accompagna questo scritto, ci mostra solo l’aspetto utopistico di una “fratellanza universale” ancora in fieri, perché, di li a poco, la realtà si rivelò nettamente distopica, rispetto alle premesse. 

Le cose nella loro effettività storica andarono difatti nel verso opposto, ripetendo, questi irriconoscenti puritani cristiani, quanto già Colombo aveva fatto sbarcando tra gli accoglienti Taino, segno della presenza di un immarcescibile d.n.a. suprematista comune di fondo a tutti i colonizzatori. Riacquistate le forze e quindi incistatisi sul territorio, i pellegrini del Mayflower si ricordarono chi erano “loro” e chi fossero i “selvaggi”, ovvero quelli con cui avevano lietamente condiviso il pasto. Il celebrato John Mason, fondatore della colonia che si realizzò solo grazie all’indispensabile aiuto di quegli indiani, si trasformò, appena dopo la “cura ricostituente” ricevuta, nel fanatico e sanguinario protagonista che massacrò i nativi, pochi anni dopo sul Mystic e in tutti gli altri luoghi ove i fanatici “padri fondatori” scatenarono la devastante guerra Pequot contro le comunità indigene.

L’ennesimo paradosso, ulteriormente irritante, si verificò Il 29 giugno 1676 quando Edward Rawson redasse una proclamazione ufficiale di Thanksgiving, mostrando riconoscenza a Dio per la buona sorte di cui godeva la comunità e per celebrare, con incredibile faccia tosta, la vittoria contro gli “indigeni pagani”, ovvero quegli stessi nativi che avevano accolto e condiviso il territorio con Bradford e gli altri fondatori della colonia di Plymourh. Fu l’inizio della fine che culminò, per farla breve, in un atto di suprema arroganza, l’incipit del futuro genocidio già in fieri. Il copione delle azioni future era ormai stato scritto e la violazione di qualsiasi patto, che presuppone un paritetico incontro di volontà, divenne la regola e non l’eccezione delle relazioni tra coloni e nativi.

Di ciò uno degli esempi più flagranti fu un accadimento occorso un paio di secoli dopo. Il presidente Andrew Jackson, presbiteriano e fiero avversario degli indiani, proclamò, in barba alle decisione della Suprema Corte contraria al provvedimento, il criminale Removeral Act, ovvero l’atto di rimozione forzata degli Indiani delle cinque nazioni (che si erano perfettamente adattati alle nuove condizioni di vita importate dall’Europa), con il quale costrinse, nelle peggiori condizioni climatiche (quasi una preordinata pulizia etnica), gli Indiani a lasciare le loro curate terre assegnate ora a famelici coloni, per prendere possesso, ormai decimati, delle parti più aride e inospitali del nuovo territorio di loro destinazione. 

Questa deportazione è conosciuta storicamente, e certamente non a caso, come il “Sentiero delle lacrime”. Per mera cronaca si vuole ricordare che un’identica sanguinaria deportazione fu organizzata anche nel territorio argentino e per gli stessi “appetitosi” motivi conducendo allo sterminio parte della popolazione forzatamente migrante. Wikipedia così descrive l’evento:

La conquista del deserto (in spagnolo: conquista del desierto) fu una campagna militare portata avanti dal governo argentino, e guidata principalmente dal generale Julio Argentino Roca negli anni intorno al 1870, per strappare la Patagonia al controllo delle popolazioni indigene. Recenti studi ritraggono la campagna come un vero e proprio genocidio perpetrato dall’Argentina contro le popolazioni indigene, mentre altre fonti vedono nella campagna la volontà di soggiogare quei gruppi che si rifiutavano di sottomettersi alla dominazione dei bianchi

In sintesi quello che stupisce, in questa lunga e davvero assai parziale catena di orrori, e che gli artefici di queste nefandezze erano tutti, a vario titolo, comunque cristiani appartenenti alle più varie confessioni comunque in aspro conflitto dottrinale tra loro, ma accomunate dal disprezzo dell’altro e dalla volontà di non volerlo assolutamente comprendere, ma solo sottomettere ed assimilare

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Questa immagine, di cui è autore Frithjof Schuon e che è tratta dal suo libro Il sole piumato, esprime con la massima chiarezza manifestata dalla posa caratteristica degli arti dell’uomo disposti tra Cielo e Terra, quasi a riceverne congiuntamente gli influssi l’aspirazione che anima il nativo nord-americano, autoctono delle grandi pianure, in ordine alla posizione ontologica che questi aspira ad assumere nell’ordine manifestato, che è quella propria dell’uomo pontificale, mediatore tra due poli: spirituale e terreno. Com’è piuttosto noto Il “filosofo” elvetico ebbe a sostare, non certo da turista, per alcuni anni in queste terre, ospitato dai pellerossa con cui condivideva una forte parentela d’animo. 

La sua indagine, tutta spirituale, si concentrava sulla ricerca di tracce della Tradizione Primordiale, che egli supponeva ancora vigorosamente esistenti, magari nascoste sotto la cenere di una superficiale “civilizzazione”, in quelle regioni ritenute dai coloni di nessuna sacertà anzi descritte, quasi universalmente, come selvagge e da pagani selvaggi abitate e quindi vere e proprie “spelonche di demoni”. Il medicine-man, un “diversamente” sciamano, era il sulfureo referente delle relazioni che stringevano questa genti con il “mondo di sotto”, un’opinione questa che tuttora perdura, affatto sottaciuta, in diversi ambienti confessionali.

L’ottica degli interpreti della tradizione era diversa. Schuon condivideva l’allora singolare e inaudita idea di Guénon che la presenza in una cultura dello sciamanismo costituiva un ottimo indizio per l’affermazione dell’esistenza di una retrostante Tradizione ancestrale, concetto che il Guénon aveva chiaramente espresso in questo passaggio tratto dal suo libro Il Regno della quantità e i segni dei Tempi, risalente al 1945. Qui si può leggere:

Se si esamina lo «sciamanismo» propriamente detto, si constata in esso l’esistenza di una cosmologia molto sviluppata, la quale potrebbe fornire il motivo di accostamenti con quelle di altre tradizioni quanto a numerosi punti, cominciando dalla divisione dei «tre mondi» che pare costituirne il fondamento stesso. Inoltre si riscontrano in esso riti paragonabili ad alcuni di quelli che appartengono a tradizioni del rango più elevato: certuni, ad esempio, ricordano in modo stupefacente taluni riti vedici, fra quelli, anche, che più manifestamente procedono dalla tradizione primordiale, come i riti in cui i simboli dell’albero e del cigno hanno una parte preponderante.

Nello specifico assai rilevante è anche il giudizio di J. Evola che nel libro L’arco e la clava (siamo nel 1968) scrive:

I pellirosse erano razze fiere con un loro stile, con una loro dignità, una loro sensibilità e una loro religiosità; non a torto uno scrittore tradizionalista F. Schuon, ha parlato della presenza nel loro essere, di qualcosa di ‘aquilino e di solare’. E noi non temiamo di affermare che se fosse stato il loro spirito a improntare in misura sensibile, nei suoi migliori aspetti e su un piano adeguato, la materia immessa nel crogiuolo americano, il livello della civiltà americana sarebbe stato probabilmente più alto.

Schuon 1995, pp. 40-41

Schuon sapeva quindi bene cosa cercare e dove andare a trovarlo e per questo incoraggiò Joseph Epes Brown, un allievo di A. Hultkrantz, massima autorità degli studi amerindiani (per inciso Brown ha avito una brillante carriera universitaria, dal 1970 al 1972 è stato docente presso la Università dell’Indiana, e, quindi, dal 1972 al 1989, presso la Università del Montana) a incontrare l’ultimo depositario dei sacerrimi “Sette riti” dei Sioux Oglala. 

Questo accadde perché, accanto a questi incarichi accademici, lo studioso era al contempo redattore della rivista statunitense di studi tradizionali Sophia, cui collaboravano alcuni autori di ispirazione “tradizionale”. Unendo così la sua preparazione “ortodossa” al suo particolare orientamento sapienziale e grazie alla provvidenziale intermediazione dello Schuon, poté diventare allievo e intimo confidente di Black Elk (Alce Nero), che, in maniera davvero predestinata, lo attendeva sulla soglia della sua dimora, ormai al tramonto della sua vita, per “gridare dai tetti” il “Vangelo” del suo popolo. Se conosciamo oggi dall’unica fonte autentica questo patrimonio sapienziale lo si deve al davvero provvidenziale lavoro di Joseph Epes Brown e agli “incoraggiamenti” che aveva alle spalle.

Alce Nero può essere considerato come l’espressione più qualificata dell’“uomo pontificale” nativo ed egli risulterà infatti depositario di una delle linee di quella “filosofia perenne”, le cui tracce Schuon inseguiva nei suoi spostamenti e che, nel caso di specie, si focalizzava sull’Ordine della Sacra Pipa, inaugurato da Donna bisonte bianco, e sulle modalità “liturgiche” dell’impiego del calumet. Un ordine riservato, quasi un parallelo della confraternita dei Fedeli d’Amore che si proponeva nella persona di Dante e attraverso la “Donna” di rinvigorire l’esausta tradizione occidentale.

Traiamo un passo da Hossein Nasr, intimo dello Schuon che ben conobbe Brown nella redazione della predetta rivista, al punto di stenderne un toccante necrologio il contenuto di significato che può assumere la locuzione “uomo pontificale”, propria a molte tradizioni spirituali (Taoismo, Islam, etc) una volta ambientata nel contesto nativo:

L’uomo pontificale è il riflesso del Centro sulla periferia e l’eco dell’origine nel corso dei cicli del tempo e delle generazioni della storia. È il vicario di Dio sulla terra, per usare un termine islamico, responsabile delle sue azioni nei confronti di Dio, custode e protettore della terra, della quale gli è stato conferito il dominio, a condizione che resti fedele a se stesso in quanto figura terrena centrale, creata a “immagine di Dio”, essere teomorfo vivente in questo mondo ma destinato all’eternità

Hossein Nasr, Conoscenza sacra, p. 194

Il passaggio tra la creazione artigianale degli oggetti alla loro serializzazione industriale è il trapasso tra la dimensione spirituale dell’arte tradizionale, che fa dell’essere umano un sub creatore, alla dimensione del lavoro meccanico che fa dell’uomo uno schiavo (una macchina addetto a costruire altre macchine). Come esempio di ciò, e del significato del lavoro per l’uomo libero, cogliamo questo passaggio in Brown:

I popoli che intrecciamo cesti, nell’atto di raccogliere le erbe e le tinture vegetali, e poi nella stessa azione di intrecciare, percepivano la ricapitolazione rituale dell’intero processo della creazione. Il cesto finito è l’universo in un’immagine, e nel processo di lavorazione manuale la donna gioca realmente il ruolo di creatore. Allo stesso modo, stabilendo una relazione dinamica tra l’ordito verticale e la trama orizzontale, la tessitrice di coperte navajo prende parte ad atti che imitano la creazione dell’universo.

L’eredità spirituale degli Indiani d’America, p. 63

Qui, come altrove, semplici gesti all’apparenza non significativi esprimevano invece il riflesso di una retrostante cosmogonia alla cui ricapitolazione era indirizzata ogni energia secondo un ordine di coinvolgimento che va dal fisico, allo psichico e allo spirituale.


Il paesaggio ritratto in questa immagine creata dall’artista nativo Carl Gorman somiglia straordinariamente a quello della valle della Vezère in Ariege, dove gli uomini dell’Aurignaziano, quindi risalenti a circa 35.000 anni fa, realizzarono il prodigioso calendario lunare, noto come calendario dell’Abri Blanchard, che contiene annotazioni tali da far ritenere che queste popolazioni avessero anticipato di decine di migliaia di anni il calcolo del ciclo metonico lunare. Una conoscenza questa certamente non fine a se stessa ma concepita in un ordine di vedute che innestava l’uomo in una delle ritmiche dell’universo visibile. Brown asserisce, concordando in ciò con le più recenti prospettazioni sul tema, frutto di rinvenimenti archeologici e non di astratte speculazioni, che anche i popoli autoctoni del Continente della Tartaruga vivevano probabilmente nei luoghi già dal 60.000 a.C., coltivando anch’essi un parallelo ed perspicuo interesse sacrale per gli astri.

Ciò non è una supposizione ma un dato che emerge nettissimo nelle narrazioni mitologiche nelle quali si rinviene l’indicazione di molteplici astri e di costellazioni (es. Pleiadi, in realtà è un ammasso della costellazione del Toro), che sono oggetti di attenzione mitica parimenti a quanto è accaduto nelle uranografie delle nostre latitudini. Tale attenzione mitologica è confermata dalle predette testimonianze provenienti dall’archeologia che ci esibisce la presenza di strutture che costituiscono dei veri e propri accordatori celesti, capaci di “mettere in terra il cielo” e quindi idonei a “convertire lo spazio in tempo”.

In definitiva, considerata la rilevanza che tuttora la volta celeste, coi suoi apparenti movimenti, riceve nella ritualistica nativa, è ragionevole pensare che anch’essi osservassero e osservino il cielo con lo stesso spirito dei loro arcaici cugini europei, i quali oggi non sanno più scrutare la volta celeste con gli occhi della visione interiore. Questi ultimi, infatti, hanno perso nel corso delle ere la cognizione delle ritmiche celesti e con essa sconoscono l’importanza della loro funzione soteriologica. I “moderni” sono approdati, infine, dopo una lunga letica discesa catabasica, a un sapere meramente scientifico e quantitativo della volta celeste. Per conseguenza, la presenza di un tempo qualitativo e/o liturgico si riduce odiernamente a una semplice espressione verbale e non innesca nell’Animo nessuna cospirazione tra i diversi piani su cui è articolata la manifestazione: Kairos è sparito dalle concezioni contemporanee

Se si parla di ritmo cosmico, si parla necessariamente di circolarità degli eventi che si osservano equidistantemente posizionandosi nel centro dell’axis mundi (quello che sostiene alcune architetture simboliche messe in piedi per i riti dei Nativi) e quindi, vedendo le cose da questo punto di vista, è come se questi occupasse il mozzo di una ruota. Le quattro stagioni sono quindi espressione del ritmo naturale; cerchio e quaternità costituiscono per i Nativi il fulcro “geometrico” della loro cultura (mito e rito) in quanto gli orientamenti, sia celesti sia terrestri, ripartiscono non solo lo spazio geografico ma anche lo spazio spirituale, ognuno con i suoi abitanti, si passi l’ossimoro, “simbolicamente reali”. 

Il grande, enorme dramma del nostro tempo è stato quello d’aver abbandonato, progressivamente, almeno da un paio di millenni, la concezione metafisica della natura che, appunto, ci discopre la sua funzione soteriologica celata sotto le apparenti spoglie dei suoi multiformi aspetti manifesti, perché “Ella” (come Maria Vergine, parallelo caro a Schuon) è “riempita di Dio”, come Maria Vergine è riempita di “grazia”. La natura è, fuor di metafora, il libro sacro dei nativi, cosa che San Bernardo in qualche modo condivideva, invitando il santo, seppur nella cornice dualista agostiniana, a risalire a “Dio” attraverso l’ammirazione stupefatta della natura che perciò non avrebbe dovuto essere in alcun modo violata. 

Per i nativi del Nuovo Mondo quindi la natura intatta non era il mezzo per giungere a qualcosa, ma il fine da preservare per “qualcosa”: il futuro delle generazioni che potevano “godere” dell’opera divina e alla stessa partecipare come veri uomini in una sorta di theosis nativa. La natura non è reificabile, non è un orologio messo in moto da un prodigioso orologiaio, piuttosto essa è un cosmos totalmente vivente e imbibito di divino. Quello che i pellebianca, con l’andare dei secoli volevano trasformare e quindi reificare, per l’altro era uno strumento di contemplazione da conservare, anche, e anzi soprattutto, per le successive generazioni: il concetto di terra “presa in prestito”. Questo brano ne offre perfetta esplicazione:

Prima dell’immigrazione europea nel nord America i Nativi del continente percepivano il loro mondo sonico, almeno in parte, come una sinfonia di suoni naturali dove tutte le voci delle creature erano parte integrante di una orchestra animale. Quando i loro habitat furono radicalmente trasformati dalla deforestazione, l’agricoltura e l’urbanizzazione e quando molte tribù vennero sradicate a causa di guerre e malattie, molte famiglie perdettero la fonte diretta delle strutture soniche naturali in un lasso di temporale relativamente breve. Questo ha prodotto un arresto nell’associazione diretta della loro musica al mondo naturale, e una conseguente frattura quando la natura selvaggia fu così profondamente trasformata.

Bernie Krause, L’ipotesi della nicchia: come gli animali ci hanno insegnato a ballare e cantare

Il ricordo di questo universo sonoro di plurivibrante sacralità è pienamente espressa dalle toccanti parole di Adelphena Logan (matriarca irochese discendente del capo tribù Logan) che qui si possono leggere:

Sembra che la natura riprenda a pulsare di fronte agli occhi e sembra di rivivere nelle antiche foreste, con le loro forme e colori meravigliosi. E tante voci mi pare di risentire, ogni volta che percuoto il mio tamburo… vogatori sulle loro canoe… vagabondi solitari dei boschi selvaggi e delle praterie sconfinate… voci lontane di gente che canta e danza, con le piume ondeggianti al ritmo del vento. 

Sì, il tamburo mi racconta i tempi passati: è una pagina di storia del mio popolo che narra di capi saggi e coraggiosi, seduti intorno a un falò; di gente forte, simbolo di potenza, resistenza e vigore, di anime nobili e piene di sogni, che tornano con il pensiero alla loro infanzia e la proiettano, nello stesso tempo, verso il futuro. Passato, presente e futuro sono intessuti insieme nel mio tamburo.

Alla fine possiamo concludere questa breve rassegna con l’amaro aforisma di Tatanka Yotanka (Toro seduto):

Per voi uomini bianchi il Paradiso è in cielo; per noi il Paradiso è la Terra. Quando ci avete rubato la Terra ci avete rubato il Paradiso.   


Straordinariamente diffusa presso i Nativi è la tradizione secondo la quale un essere sacro femminile ha portato un oggetto dal mondo dello Spirito: esso è la sacra Pipa e per il tramite di essa si può stabilire una comunicazione tra la Terra e il Cielo, una relazione che altrimenti sarebbe preclusa. Illo tempore La Donna Sacra ha consegnato il calumet a un personaggio umano, particolarmente qualificato a riceverlo, il quale ha, a propria volta, inaugurato una vera e propria catena iniziatica che alla ierofania femminile primigenia riconduce. 

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Questa originaria teofania umano-animale non è isolata nel panorama storico religioso, il che fa legittimamente sospettare una possibile origine comune del vari miti che ne trattano. A tal proposito F. Schuon ha proposto diverse comparazioni con esempi riscontrati in altri continenti e così ne scrive:

Nel mondo spiritualmente lontano degli Indiani d’America che è fondamentalmente un prolungamento dello sciamanesimo mongolo una personificazione caratteristica della Shakti è la ‘Donna Bisonte Bianca’ che portò il Calumet alle tribù degli Indiani Lakota. Nella sua sostanza celeste è la dea Wophe, ossia l’equivalente della dea indù Lakshmi; nella sua apparizione terrena viene chiamata Pte San Win, la ‘Donna Bisonte Bianca’ appunto. Alcuni secoli or sono forse – nessuno conosce né il tempo nè il luogo apparve sulla terra vestita di bianco e di rosso, o completamente nuda, secondo un’altra tradizione; il colore bianco, come la nudità, si riferisce alla primordialità, e il colore rosso si riferisce alla vita...

Schuon, Il sole piumato, p. 179

Questi intriganti parallelismi offrono un ottimo viatico alla constatazione della presenza della dottrina delle quattro età presso i nativi. È proprio Alce Nero a parlarne, riferendo il tutto al suo interlocutore John Epes Brown, il quale, data la rilevanza della dichiarazione, ne elabora i contenuti in senso comparativo e innesta una importante glossa al libro di Alce Nero sui sette riti. Qui si riporta integralmente il contenuto del predetto innesto:

Secondo la mitologia dei Sioux, all’inizio del ciclo fu messo ad ovest un bisonte per respingere le acque. Ogni anno questo Bisonte perde un pelo e a ogni età perde una zampa. Quando avrà perduto tutto il pelo e tutte e quattro le zampe, le acque invaderanno tutto un’altra volta e il ciclo finirà. A questo bisonte corrisponde in modo sorprendente il toro Dharma (la legge divina) della tradizione indù, ogni zampa la quale rappresenta una delle quattro età del ciclo totale. Nel corso di queste quattro età (yuga) la vera spiritualità si oscura progressivamente, finché il ciclo (manvantara) si chiude con una catastrofe. Allora si instaura la spiritualità primordiale e il ciclo ricomincia. Tanto gli Indiani d’America che quanto gli indù credono che, al momento attuale, i bisonte gli uni, e il toro gli altri si reggano sulla loro ultima zampa e che siano quasi del tutto privi di pelo.  

in Alce Nero: 2021, 34, n. 15

La pipa è, come anzidetto, per i Lakota l’oggetto donato dalla mitica entità alle origini della loro cultura. Il calumet è quindi lo strumento rituale che consente all’uomo pontificale il suo esercizio di coniugazione, stabilendo così, attraverso il fumo che da essa ascende una comunicazione tra questo mondo e il Grande Misterioso. L’immagine di F. Schuon, tra le diverse che arricchiscono il suo libro, di cui molte rappresentano gli Indiani accompagnati da questo fondamentale oggetto rituale, è, nella sua peculiare ieratica sobrietà, piuttosto eloquente. 

Scrive Epes Brown, a proposito di un insegnamento ricevuto sul simbolismo della pipa da un rappresentante di un’organizzazione iniziatica che è presente nei Crew, così come nei Piedi Neri, e che collega, piuttosto sorprendentemente, la cerimonia del fumo alla preghiera cardiaca:

Subito dopo l’iniziazione vengono insegnati certi canti da ripetere tutto il tempo come una specie di mantra. Sebbene la loro terminologia sia diversa da quelli di altre religioni quando gli ho spiegato che la ripetizione di una preghiera del cuore può stabilire un’identità tra il sincero cercatore spirituale e il Creatore […] lui ha subito detto che quello era lo scopo ultimo dello loro organizzazione.

Il Nativo ha poi precisato che questa confraternita ha origini molto antiche ed è rimasta dormiente, come molte linee iniziatiche di ogni tradizione, che si mettono in sonno nell’attesa dell’apparizione di un “rinnovatore”, mantenendosi però intatto il deposito originario (Brown : 2021, pp. 176-177). 

Le parole di Joseph Epes Brown dedicate alla Preghiera silenziosa indiana, così accostabile a quella degli esicasti, in cui l’orante ripete interiormente la medesima significativa espressione “Wakan Tanka abbi pietà di me”, rendono il confronto ancor più convincente. L’accostamento alla preghiera del cuore esicasta con quella nativa lo offre esattamente Alce Nero nella successiva frase e questo suggerimento sapienziale ce lo serve come su un piatto d’argento:

Indubbio, d’altronde, è il tratto sciamanico che connota il simbolismo del calumet e il suo funzionamento rituale. La struttura simbolica della pipa suggerisce difatti questa conclusione. Dal suo cannello penzolano quattro nastri, indicanti i quartieri dell’Universo e i loro spiriti ovvero la quadripartizione spirituale del cosmo antecedentemente accennata. La piuma d’Aquila che sormonta la Pipa indica l’Uno, di cui i quattro spiriti sono manifestazione. È stato Alce Nero, con la sua riconosciuta autorità, a voler reintrodurre il rito essenziale della concezione lakota, il cui impiego è stato paragonato, da taluno, a quello eucaristico. Tuttavia questo aspetto non sembra emergere in maniera così evidente se si approfondisce il simbolismo del rito. Difatti, in una precisazione sul tema, Brown scrive:

Il tabacco sacro che si brucia nel fornello, rappresenta l’ universo e anche l’uomo. Colui che carica la pipa con il tabacco sacro rappresenta il Creatore nell’atto della creazione. Fumando la pipa, l’universo, compreso l’uomo (o l’ignoranza) viene consumato nel fuoco, che è Wakan-Tanka; così il ciclo è completo. Wakan Tanka viene così rappresentato sotto l’aspetto del Creatore e Distruttore. Il percorso dal bocchino attraverso lo stelo fino al centro e poi la liberazione. 

Questo brano costituisce un seme di meditazione che si deve tralasciare di intraprendere, perché richiederebbe un commento articolato. Tuttavia non ci si può astenere dal rilevare come l’aspetto congiuntamente creatore e distruttore sembra potere accostare Wakan Tanka a Siva piuttosto che al dio biblico (con riserva di approfondimento del tema in altra circostanza), e nemmeno il concetto di “Liberazione” (e non “salvezza”) e di “Uno“ possono parimenti essere accostati con teologica disinvoltura al cristianesimo. Parimenti è da dire che se nel fuoco del fornello si brucia l’ignoranza questo evento ha necessariamente, come corrispettivo, il conseguimento della conoscenza, conoscenza che evidentemente non può essere altrimenti che conoscenza sacra.      

Alce Nero ben sapeva ciò e Epes Brown, in una lettera del del 19 novembre 1947, dimostra, ancora una volta, lo spirito libero e indomito di questo autentico “Padre della Patria” che non si flette e mantiene l’insegnamento dei suoi antenati nonostante la sua adesione (non conversione) al cattolicesimo e così manifesta la sua indipendenza:

Naturalmente vuol dire molto per Alce Nero avere il supporto di un padre cristiano (Padre Gall, suo figlio “adottivo”; NDR), dato che qui i sacerdoti hanno sempre insistito perché abbandonasse le sue “pratiche pagane” e le opere del diavolo per aderire in modo totale ed esclusivo al cattolicesimo. ‘Alce nero parla’ (il contestato libro di John G. Neihardt) non ha riconosciuto (con grande risentimento della chiesa) il fatto che una quarantina d’anni fa Alce Nero sia stato battezzato e sia stato responsabile della conversione di molti indiani. Alce Nero dice che gli dispiace se la sua azione per riportare in vita le tradizioni spirituali dei Lakota farà arrabbiare i preti, ma la loro rabbia dimostra soltanto la loro ignoranza, e in ogni caso Wakan Tanka è contento perché sa che è per sua volontà che Alce Nero compie questa opera

Ciò è confermato da una recente osservazione di Marco Toti, ottimo conoscitore della materia, che così ha scritto:

Il fenomeno storico in oggetto non coincide dunque con una conversione intesa nelle modalità esclusiviste proprie dei sostenitori del Cristianesimo, ma piuttosto con una continuazione della inclinazione antica e tradizionale del popolo verso quanto si può definire una adesione non esclusivista e cumulativa.   

Marco Toti in Alce Nero : 2021, 13

È noto che la caccia e la pesca, per le popolazioni che in forme residuali ancora vivono prevalentemente di questa forma di sussistenza economica, rappresentano un evento intriso di valori sacrali che si estrinsecano in preghiere, purificazioni e quant’altro e che riguardano la totalità dell’evento e quindi si va dalla preparazione della battuta di caccia fino alla “scomposizione” della preda. Per conseguenza sia le attività propedeutiche che l’inseguimento della preda, nonché la sua uccisione e tutte le attività successive di trattamento della spoglia, dalla pelliccia, alla carcassa, alle ossa, ricevono comunque un trattamento finalizzato alla valorizzazione spirituale dei “gesti e della parola”, prima che ad assolvere alla funzione utilitaristica, che ne è solo una conseguenza della precedente. Inutile dire che tra la caccia come pratica “ludica” dell’uomo moderno e la caccia sacralmente ritmata del Nativo non c’è alcuna relazione, a cominciare dall’impiego delle stessa tipologia delle armi. 

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Naturalmente i popoli dl nord America vivevano l’esperienza della caccia arcaica nel pieno coinvolgimento di tutti i piani che in questa attività cruenta e insieme necessaria afferivano, al punto tale che Joseph E Brown ha potuto scrivere:

Alce Nero disse che l’atto di cacciare è – non rappresenta – la ricerca della somma verità che si conduce nel corso della vita. La caccia è una ricerca ripeteva, che richiede la preghiera preparatoria e la purificazione sacrificale; le tracce scrupolosamente seguite sono i segni e gli indizi dell’obiettivo e il contatto finale con la preda è la realizzazione della Verità, scopo ultimo della vita.

Si osservi che Alce Nero parla di “realizzazione”, intendendo pertanto l’essere tutt’uno con la verità e non in mero conoscitore esteriore della stessa; conoscente e conosciuto formano un tutt’uno. Aggiunge il citato Brown, a dimostrazione del carattere non estemporaneo della dichiarazione di Alce Nero:

Simili esempi della caccia come rito meditativo possono essere offerti dai popoli sud occidentali, e Franck Speck ha rilevato lo stesso atteggiamento nei cacciatori Naskapi della penisola del Labrador.

J. Brown : 112-113

Aggiungiamo noi, per averne trattato poco tempo fa, che il rapporto di offerta tra preda e cacciatore è figurativamente ben illustrato nei pittogrammi di Porto Badisco dove è il cervo (la preda) a porgere l’arco al cacciatore, allo scopo di farsi inseguire, uccidere e per conseguenza consegnare con ciò un contenuto spirituale al suo uccisore. Si potrebbe (audacemente) concludere che la caccia, ritualmente intesa come forma di conoscenza rappresenti una forma di “gnosi”, e il parallelo venatorio ci richiama alla mente un crudo passaggio espresso da un espressione Dogon, colta da Dominique Zahan:

Il leone si serve di artigli potenti per dilaniare la sua preda. Ugualmente l’uomo scava con il suo spirito il mistero del mondo per raggiungere la verità. Il suo motto è il leone Liberatore, colui che dilania il cuore e il fegato freschi”.

La ricerca della verità ultima sembra essere quindi la radice di questi comportamenti cruenti e, per questo, si può ritenere che la caccia rappresenti un aspetto particolare della grande famiglia del “sacrificio” connotato da un aspetto particolare “volontaristico” su cui ci informa lo steso Brown. Questi appunto scrive:

Ogni essere e sostanza naturale avevano una vita e un potere in sé che andavano rispettati, poiché quel potere poteva essere trasmesso agli umani. La caccia agli animali era pertanto un’attività rituale in cui il cacciato offriva il suo essere al cacciatore; il cibo così come le pelle altre parti degli animali, erano dunque incluse in questo atto sacrificale e nel sacro potere dello specifico animale.

J. Brown : 114

Se dunque la caccia è, in essenza, un auto-sacrificio della vittima, essa può essere accostata al sacrificio rituale la cui componente fondamentale, incomprensibile per noi contemporanei, è il consenso della vittima. Ne parla Marcello de Martino nel volume ll mattatore sacrificale, il coltello e la vittima. Morfologia del Dio indoeuropeo della guerra e genesi delle tre funzioni duméziliane che certamente, com’è evidente dal titolo del testo, esplora in un contesto assai diverso il tema. Dalla lettura del testo, comunque, non possono non evidenziarsi dei tratti in comune con la concezione volontaristica propria dei nativi nord americani, come si può confrontare leggendo sinotticamente questo passaggio:

Il dio indoeuropeo della Guerra (c’è una significativa equivalenza tra caccia e guerra presso i nativi nord americani) era la recente incarnazione del primordiale Cacciatore Celeste e la grande mattanza del campo di battaglia si manifesta infine come il teatro di un enorme sacrificio. Il nume è quindi il mattatore sacrificale, la sua arma è la spada-coltello ricurvo con cui immola la sua vittima, la quale va incontro volentieri al proprio destino fatale: tre personaggi distinti che svolgono tre funzioni specifiche per un’“ideologia” indoeuropea, ma che diventano un solo Grande Dio, uno e trino.

Nel passaggio successivo, tratto da uno scritto di Roberto Calasso, si coglie il medesimo spirito:

Zειου συ ταχεως, scuotiti prontamente!, grida il Trigeo di Aristofane alla sua pecorella sacrificale: scuotendo la testa essa deve dare il proprio consenso. Il dio delfico lo aveva detto ben chiaro al Teopropide Euscopo: solo una pecora che consenta spontaneamente può essere un giusto sacrificio.

Ai tempi di Plutarco ancora ci si atteneva scrupolosamente a tale regola e a Dafni per esempio si versa latte e vino sulla testa dei suoi animali sacrificali, come si faceva per ottenere il richiesto cenno di assenso. Si poteva anche versare acqua nell’orecchio. Per un sacrificio a Delfi non bastava la testa scossa: l’animale doveva rabbrividire, perché la Pizia potesse pronunciare l’oracolo (Karl Meuli, “Griechische Opferbräuche”, in “Gesammelte Schriften”, Schwabe, Basel, vol. II, 1975, p. 995 – Citato da Roberto Calasso in “La rovina di Kasch”, 1983, p. 348, Adelphi – 2a ed. 1994). Come si comprende facilmente, nulla di tutto ciò ha similitudini nelle mattanze, di uomini e animali, contemporanee.


È di tutta evidenza che la “civiltà occidentale”, quella venuta in essere dopo il Medioevo, così antropologicamente connotata dalla posizione centrale dell’uomo vitruviano, ormai ha conquistato il mondo. Inutile perdersi in chiacchiere: l’Occidente è, praticamente, in ogni luogo e il lemma “occidente” è svuotato d’ogni significato locativo e, ormai, è indice di una mentalità, non di una dimensione geografica. Non per nulla anche il più remoto e inaccessibile fazzoletto di territorio della Terra testimonia, con la presenza di una sinistra bottiglietta di plastica abbandonata al suolo, che qualcuno è arrivato fin lì e ha lasciato traccia precisa della sua “civiltà”. Insieme a ciò, però, la cronaca ci consegna il problema, se non il dramma, dell’imminente cambiamento climatico, attribuendo, con quanta ragione non si sa, il disastro, dato per prossimo, proprio alla cupidigia dell’uomo “occidentale”, che ora vorrebbe rimediare attraverso una drastica cura dimagrante, spingendolo persino ad alimentarsi con una dieta insettivora, del tutto estranea alle sue tradizioni culinarie. Tardiva resipiscenza, ci sembra, visto che solo un secolo fa il celebre Toro Seduto aveva pronunciato quella che forse è la più celebre delle sue frasi:

Solo dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà inquinato, solo dopo che l’ultimo pesce sarà pescato voi vi accorgerete che il denaro non può essere mangiato.

Nessuno può sapere se le future generazioni si nutriranno di miele selvatico o di locuste del deserto, come sembra facesse il Battista ma, inevitabilmente, appare chiaro il fatto che, con la “cura dimagrante” proposta, se non addirittura imposta, l’orgoglio espansionista riceverà un notevole ridimensionamento, quando non addirittura un radicale ripensamento: la mercificazione globalista è prospetticamente indirizzata a ricevere un forte contraccolpo dai limiti stessi del nostro “sviluppo”. 

Tuttavia, sorge il legittimo dubbio che, quanto apparecchiato per riuscita della cosiddetta transizione, possa essere solo un maldestro tentativo o una “furbata” di non meglio identificati poteri occulti per vendere l’illusione di poter fermare un’automobile lanciata a folle velocità, quando essa ormai è in prossimità di un muro con cui è comunque inevitabile lo scontro qualsiasi manovra si tenti. Ormai altro non resta da fare che attendere: dal mondo non si può scendere e, per conseguenza, fermare la giostra dovrebbe potersi ritenere una mera illusione. 

Fra i Nativi, visitati mezzo secolo fa da F. Schuon e da E. Brown, nel momento in cui l’uso delle pipe rituali era tornato a essere protagonista della vita religiosa autoctona, circolava una lettura escatologica di questi eventi, ovvero mentre i Lakota restauravano i loro riti tradizionali, ristabilendo un saldo legame con il loro principio spirituale ossia Wakan Tanka, il Grande Sacro, che è “Nonno” nella sua dimensione impersonale e “Padre” in quella personale la civiltà degli uomini bianchi, per nemesi opposta, sarebbe in posizione così inclinata da non essere più concretamente rettificabile mostrando infine di essere giunta al suo termine, avendo espresso tutte le proprie potenzialità “quantitative”, e quindi inevitabilmente prossima alla sua estinzione.

Il rinascimento nativo si sarebbe concretato con la fine dell’egemonia dei pelle bianca. Annota E. Brown, completando l’esposizione del pensiero del suo interlocutore in ordine al carattere catastrofico di questa “profezia“:

La sua speranza è che alcuni del suo popolo costruiscano un ponte che porti dalla fine di questo periodo al successivo e questo sarà fatto con l’aiuto della pipa.  

Specifica Giovanni Sessa, nel suo puntuale commento al libro di Schuon Il Sole piumato:

Quando il Calumet viene acceso il fumo che si perde nello spazio indica la de-individualizzazione, che l’uomo deve realizzare per verticalizzare la sua vita e tornare al Principio. L’uomo in realtà, per essenza, è divino, e con il rito deve prenderne coscienza e divenire ciò che è. Deve farsi Sole, il Sole piumato con le penne d’aquila, l’uccello che più di ogni altro, con il suo volo, simbolizza l’ascesa al Cielo, tema ornamentale onnipresente nel vestiario Pellerossa.

Perché l’uomo, nella concezione nativa, è corpo-anima-spirito rappresentati iconograficamente dai Nativi per mezzo di simbolici “tre cerchi” e, proprio per questo, solo a quest’uomo reintegrato della sua spiritualità sarà “restituita” la terra (il che, sommessamente parlando, rimanda alle profezie sulla terza età di Gioacchino da Fiore).


AA.VV.: Same (a cura di Gilberto Mazzoleni) vol 1, La dimensione remota, Bulzoni editore Roma 1981

AA.VV.: Same (a cura di Gilberto Mazzoleni) vol 2, La diversità relativa, Bulzoni editore Roma 1982

AA.VV.: Il cosmo sciamanico. Ontologie indigene fra Asia e America (a cura di Stefano Beggiora), Franco Angeli editore, Milano, 2019

Alce Nero: La sacra pipa, i sette riti dei Sioux Oglala, Edizioni mediterranee, Roma, 2021 

Luca Baccelli: Bartolomee de la Casas, la conquista senza fondamento, Feltrinelli. Milano 2016

Antonio Bonifacio: L’uomo rosso e la tradizione, Simmetria, Roma. 2017 

Dee Brown: Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mofdadori Milano 2017

Joseph Epes Brown: L’eredità spirituale degli Indiani d’America, Lindau, Torino, 2021

Enrico Comba (a cura di): Testi religiosi degli Indiani del Nordamerica, Utet, Torino, 2017

Enrico Comba: La danza del Sole, Novalogos, Torino, 2017

Sandro Consolato: Ad Ovest con René Guénon, edizioni Arya, Genova, 2023

René Guénon: La tradizione e le tradizioni, Mediterranee, Roma, 2003 

Graham Hancock: Il mistero della civiltà perduta, Corbaccio/Garzanti, Milano, 2020 

Alessandro Martire: Wakan Tanka – Il Grande sacro, edizioni Età dell’Acquario-Lindau, Torino, 2013

Hossein Nasr Seyed: Conoscenza Sacra, Mediterranee, Roma, 2021

Jonh G .Neihardt: Alce Nero parla, Adelphi, Milano, 1968 

Heike Owusu: I simboli degli Indiani d’America, l’essenza della tradizione pellerossa, edizioni il Punto d’incontro, Vicenza, 1999

Carlo Pagetti: Il senso del Futuro, edizioni di Storia e letteratura, Roma, 1970 

Gianfranco Peroncini – Marcella Colombo: Al Dio degli inglesi non credere mai. Storia del genocidio degl’Indiani d’America 1492-1972, Oaks editrice s.l., 2017

David E. Stannard: Olocausto americano, Bollati Boringhieri, Torino, 2016

Philip Sherrard: Uomo e natura, Irfan, San Demetrio Corone (CS), 2012

Frithjof Schuon: Il Sole Piumato, Mediterranee, Roma, 2000

Arthur Versius: Terra sacra, Mediterranee, Roma, 2018 

La Preghiera silenziosa e la Natura selvaggia Tradizione primordiale e perennialismo nella ritualità dei nativi nord-americani” (di A. Bonifacio)

“Religious Studies” e “religious awakening”. F. Schuon e la sapienza nativo-americana – (di M. Toti)

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