La fine dell’età primordiale e la “Caduta dell’Uomo”

Appunti di carattere mitico-tradizionale sulla storia esoterica dell’umanità del presente Manvantara: dall’Età dell’Oro alla “Caduta”, dal “Sonno di Adamo” al “Peccato Originale”, dalla tripartizione Adamo-Eva-Lilith alla rivolta dell’Orsa contro il Cinghiale.


di Michele Ruzzai
originariamente pubblicato su EreticaMente
copertina: Vsevolod Ivanov

Il complesso tema delle origini umane, attorno al quale si dibatte da sempre, è stato toccato anche, tra gli altri, dagli autori ascrivibili al filone culturale definito “Perennialismo” o “Tradizionalismo integrale”, in primis Julius Evola e René Guénon.

È stato soprattutto il metafisico francese a trasmetterci il concetto di Manvantara, presente nella tradizione indù come ciclo chiuso di manifestazione di una umanità completa in tutte le sue varie espressioni, e che a sua volta si suddivide in quattro età successive (Yuga) di decrescente durata e valore spirituale: il Satya (o KritaYuga, il Treta Yuga, il Dvapara Yuga e l’ultimo, il Kali Yuga, nel quale ci troviamo attualmente. Queste ere sono paragonabili – ma a nostro avviso non del tutto sovrapponibili – alle fasi delineate da greco Esiodo, ovvero le età dell’Orodell’Argentodel Bronzodegli Eroi e del Ferro, che infatti non sono quattro bensì cinque.

René Guénon definisce il Manvantara completo su una durata di circa 65.000 anni, con il Satya Yuga che si estese dall’inizio del ciclo fino a circa il 37.000 a.c., il Treta Yuga dal 37.000 a.c. fino a circa il 17.000 a.c., il Dvapara Yuga dal 17.000 a.c. fino a circa il 4.400 a.c. ed il Kali Yuga dal 4.400 a.c. fino ai nostri tempi, secondo una proporzione aritmetica 4-3-2-1.


La Terra Primordiale nella Tradizione

È noto che il punto di inizio della Tradizione Primordiale, sorta nel momento aurorale del nostro Manvantara, nei miti dei popoli di ogni latitudine viene collocata nelle regioni iperboree. La cosmografia indù, infatti, ricorda il continente primordiale Ilavrita al centro del quale si erge il Monte Meru in posizione letteralmente polare, mentre nella tradizione buddista tibetana si accenna a Shambhala, mitica terra posta all’estremo nord dell’Asia nelle aree che circondano il polo. In quella cinese si ricorda una terra boreale anticamente popolata da uomini “trascendenti e da una misteriosa “razza dalle ossa molli”, mentre nella gnosi islamica, come ci segnala l’orientalista Henry Corbin, troviamo la “terra celeste” – Hurqalya – posta anch’essa nell’estremo settentrione, dalle chiare caratteristiche paradisiache e polari. Vi è poi la tradizione greca con Thule ed il mitico popolo degli Iperborei, quella norrena che ricorda Asgard, gli iranici con la terra originaria Ayrianem Vaejo, mentre i vari popoli mesoamericani accennano ad una Tula dalle caratteristiche simili.

Sono comunque mitologie via via sempre più miste e confuse, nelle quali non sempre è agevole capire se la terra di provenienza evocata riguardi il singolo gruppo etnico in questione o la totalità del genere umano, come anche se la stessa rappresenti la patria veramente primordiale di inizio ciclo o invece un centro secondario e più recente; infatti – avverte anche Evola – molto spesso i ricordi tendono a sovrapporsi, come forse nel caso della Ilavrita, letteralmente polare, con la successiva Uttarakuru semplicemente nordica, o anche con la stessa Tula/Thule che, già iperborea, nel mito ellenico viene poi ad identificarsi con una terra posta invece nell’Atlantico settentrionale e corrispondente all’isola di Ogigia.

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Gerardus Mercator, Iperborea, da “Septentrionalium Terrarum Descriptio”, 1623.

Il Paradiso Terrestre, il “sonno di Adamo” e la “Caduta”

In termini cristiani, il Satya Yuga corrispose alla fase edenica, al Paradiso Terrestre di biblica memoria, e quindi la sua fine – avvenuta circa 39.000 anni fa – vide quella traumatica Caduta dell’Uomo, che forse era stata in qualche modo già parzialmente preparata alcuni millenni prima con l’episodio del Sonno di Adamo ed il correlato doppio evento della nascita delle sue due compagne, la meno nota Lilith e l’universalmente conosciuta Eva; ciò probabilmente a rappresentare le articolate modalità della discesa umana da una fase veramente primordiale, polare ed incorporea (da cui il mito dell’Androgine platonico, della casta unitaria ed indivisa Hamsa, degli “Uomini trasparenti”, ecc…) ad una più tarda, ormai corporeizzata e centrata forse sul nord-est siberiano, ma ancora “paradisiaca” e sempre immersa in quella “eterna primavera” ricordata dal latino Ovidio.

Da vari dati tradizionali sappiamo infatti che, in termini macrocosmici, il Satya Yuga fu contraddistinto da due elementi ora perduti, ovvero la perpendicolarità dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica e le connesse condizioni equinoziali con il relativo clima particolarmente mite che avrebbe interessato anche le regioni ad elevata latitudine.

Ovviamente, sul piano fisico, a costituire l’evento primario che decretò la fine della sede iperborea e dell’età paradisiaca fu il sopraggiungere dell’inclinazione assiale, mentre la recrudescenza della glaciazione wurmiana e l’aggressione delle aree nordiche, fino ad allora rimaste preservate, ne fu l’immediata conseguenza (oltre, ovviamente, all’avvìo del ciclo stagionale). Tale evento dovette essere molto più traumatico dei precedenti cataclismi che si erano probabilmente verificati circa a metà del Satya Yuga in corrispondenza del citato “Sonno di Adamo”, ma che tuttavia non avevano intaccato la corrispondenza tra equatore terrestre e piano dell’eclittica. Ciò che avveniva ora, invece, era un repentino cambiamento degli stessi poli celesti – ovvero gli immaginari punti della volta uranica verso i quali dirigono i prolungamenti dell’asse – cosa che, a livello astrofisico, dovette rappresentare quasi il significato di una “caduta” del Principio stesso, assimilato al Polo di rotazione.

In effetti, Julius Evola sottolinea come, prima ancora del fatto astrofisico, risieda necessariamente in ambito “sottile” la causa di quanto poi precipita al livello materiale, e quindi la perdita della perpendicolarità dell’asse terrestre non potè che rappresentare l’inevitabile conseguenza “grossolana” di un’analoga deviazione precedentemente avvenuta, come vedremo, sul piano spirituale ed antropologico.

Il precedente avvento della corporeizzazione umana fu soprattutto connesso, secondo la visuale cosmologica indù, all’azione del Raja guna, qualità costitutiva della manifestazione che genericamente promuove il dinamismo e l’attività, agendo alternativamente sul più basso Tamas guna per reprimere il più elevato Sattwa guna, o viceversa. Verso la fine del Satya Yuga, probabilmente il Raja guna iniziò sempre più ad agire sul Tamas con delle conseguenze significative: la riproposizione, analogamente a quanto avvenuto, in tempi aurorali, per l’angelo Lucifero (Iblis nel mondo islamico) – ma ora applicato sull’umanità – di quello che in termini cristiani è il “peccato di orgoglio che, come segnala Frithjof Schuon, rappresenta l’ostacolo più temibile sulla via spirituale dell’Uomo. L’orgoglio, infatti, è da intendersi come una vera e propria “inversione” dei normali rapporti gerarchici, ovvero la preferenza di sé stessi a Dio, addirittura la contrapposizione a Lui, ed è ben più grave dell’altro ostacolo, la passione (ovvero la preferenza del mondo rispetto a Dio, quella che probabilmente era entrata in campo nella fase del “Sonno di Adamo” e che aveva provocato l’“uscita” centrifuga della Femmina, assimilata all’evento della corporeizzazione).

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Su di un piano più interiore, un’analogia di questo “peccato” potrebbe essere fatta con l’infrazione commessa dall’Anima nei confronti dello Spirito, nel momento in cui essa se ne distingue e vi si oppone nella sua pervicace volontà di affermare la propria esistenza individuata; invece, da un punto di vista più “metastorico” l’episodio in questione costituisce proprio quel peccato originale che comportò la “Caduta dell’Uomo” e l’allontanamento irreversibile dal Paradiso Terrestre.

Notiamo tuttavia come Frithjof Schuon rilevi anche un’interpretazione in parte difforme, presente in altre tradizioni rispetto a quella biblica, sul passaggio dall’innocenza originaria alla “conoscenza del bene e del male: non, cioè, come una prima traumatica esperienza peccaminosa e nemmeno come una caduta ontologica di livello, ma piuttosto come un necessario completamento della personalità attraverso un’esperienza che era stata già a priori prevista per l’Uomo.

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Michelangelo Buonarroti, “Adamo ed Eva”, Cappella Sistina, Roma, 1512.

Brahmana e Kshatriya: il Cinghiale e l’Orso

D’altro canto, il summenzionato impulso verso l’inversione dei normali rapporti gerarchici può rappresentare anche una spiegazione del mutamento che, verso la fine del Satya Yuga, interessò il rapporto intercorrente tra la prima casta, maschile-sacerdotale (Brahmana) e la seconda, femminile-guerriera (Kshatriya), che erano venute a polarizzarsi a partire dalla primordiale casta unitaria Hamsa, in analogia all’uscita della coppia Lilith-Eva dall’Adamo che, fino a quel momento, era ancora androgino.

È infatti probabile che, nell’ambito della casta guerriera, i gruppi maggiormente soggetti alle influenze di matrice lunare – ora via via sempre più predominanti – iniziarono progressivamente a deviare dal punto di vista spirituale, e che, a nostro avviso, tale allontanamento possa essere sorto inizialmente tra i popoli spintisi repentinamente più a sud, riferibili all’ aspetto Lilith della mutevole Luna (nella sua fase oscura e di novilunio); fu un evento forse agevolato anche dal persistere di una certa prossimità di questi con le forme subumane, tamasicamente dominate, prodotti ormai larvali ed involuti della anzidetta caduta luciferica di inizio Manvantara (avvenuta a seguito del rifiuto di adorare l’immagine divina, spirituale ed incorporea, di cui il primo Adamo era luminosamente sostanziato).

A partire dalle popolazioni legate a Lilith, comunque, l’azione si sarebbe progressivamente estesa, favorita dal comune substrato “sottile” acqueo-selenico, a quelle più settentrionali, relazionabili all’ aspetto Eva della Luna (nella sua fase chiara e di plenilunio); una conferma in tal senso potrebbe essere data da una tradizione di ambito cristiano, secondo la quale il Serpente che tentò Eva nel giardino dell’Eden coincideva proprio con Lilith.

In questo modo, le forze più lontane dal Principio, per il tramite di Eva e della casta kshatriya ormai deviata, sarebbero infine giunte sino a corrompere e a far cadere lo stesso Adamo, cioè la parte di umanità rappresentata dalla casta brahmana, che invece era rimasta più intimante legata alle forze solari del piano sottile, nella veste di quei “Numi” e quegli “Dei” che ancora venivano a soggiornare tra gli uomini.

Diverse fonti tradizionali segnalano infatti come, ad un certo punto, le popolazioni collegate alla casta kshatriya mossero un deciso attacco ai danni dell’autorità spirituale rappresentata da quelle connesse alla casta brahmana. Ad esempio, la mitologia nordica pone chiaramente in relazione la fine del periodo primordiale con l’avvento di genti guerriere che, sotto il simbolo dell’Orsa, avrebbero aggredito il Cinghiale legato a Freyr-Frodhi. Dal canto suo René Guénon sottolinea come, significativamente, fu proprio Atalanta – allevata da un’Orsa – a colpire per prima il simbolo sacerdotale, da cui il chiaro riferimento all’azione di genti occidentali che si sarebbero rese responsabili di scatenare l’attacco contro la prima casta.

Il ruolo primario svolto, nell’occasione, dalle popolazioni atlantiche, sembra confermato anche da altri autori che pongono l’evento in corrispondenza, o in prossimità, al momento in cui fu proprio il Titano Atlante ad assumersi il pesante carico del mondo, mentre ulteriori elementi mitici ci segnalano come fu proprio alla fine dell’età di Kronos che si verificarono quei movimenti astronomici, già accennati all’inizio, dei quali forse un’altra traccia è rinvenibile nella vicenda di Fetonte: in questa narrazione, che è stata ipotizzata essere un ricordo dello spostamento prospettico della galassia, è sempre il titano Atlante a sostenere la Terra, ma anche a venire pericolosamente sbilanciato fino ad inclinare l’asse del mondo [cfr. A. Casella, Il “Fuoco celeste”: Kronos, Fetonte, Prometeo].

E pure qui, analogamente a tanti altri casi, va sottolineato, come ricorda lo stesso Evola, l’aspetto chiaramente ambivalente del simbolismo rivestito dal titano occidentale, nel quale l’idea “negativa” di un castigo subìto da Zeus (per avere, secondo alcuni, partecipato alla lotta contro gli Olimpici) e quella “positiva” di una funzione polare assunta sulle sue spalle, paradossalmente vengono a coesistere: non è infatti un caso se, ad esempio, Omero collocò il nume nello stesso paese mitico degli Iperborei, ove si trovavano le possenti colonne che reggevano il cosmo, e se anche nel rabbinismo ebraico il mito di Atlante, secondo cui la terra poggiava, invece, su un solo pilastro, equivale al “pio” che sostiene il mondo con la forza delle sue virtù.

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John Singer Sargent, “Atlas and the Hesperides”, 1925.

Cenni bio-antropologici e linguistici

Se, d’altro canto, ora lasciamo il piano mitico-tradizionale e passiamo ad inquadrare il problema da un punto di vista più prettamente bio-antropologico, potremmo ipotizzare che la conclusione dell’età primordiale sia da mettere in relazione con una confusa serie di migrazioni e meticciamenti avvenuti verso la fine del Satya Yuga. Venne interessata soprattutto la terra atlantidea e coinvolte dapprima, in coerenza con quanto espresso più sopra, le popolazioni australi “Lilith” e quelle “intermedie” accostabili ad Eva, che avrebbero così trascinato nell’ibridazione anche, progressivamente, quelle più boreali corrispondenti ad “Adamo”; ciò, oltretutto, appare in buon accordo anche con quanto segnalato da Platone, che indicò nell’eccessivo mescolamento tra la natura “terrestre” e quella “celeste” la causa della caduta dell’umanità primigenia.

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Verosimilmente dovette derivarne la generazione degli uomini Cro-Magnon, inquadrabili come l’aspetto più compiuto e stabilizzato della multiforme Razza Rossa e che sorsero proprio nel momento finale del suo periodo di predominanza (ovvero, la seconda metà del Satya Yuga); la particolare forma assunta, improntata da un certo “gigantismo”, dovette probabilmente rappresentare una intrinseca possibilità umana che si presentò quasi come “simmetrica” rispetto a quella di direzione opposta, “pigmoide”, e che probabilmente aveva contraddistinto soprattutto le popolazioni, pur “Sapiens”, assimilabili a Lilith.

Cro-Magnon di circa 35-40.000 anni fa sono chiaramente accostabili alla razza bronzea di Esiodo e non va dimenticato che anche dalla odierna ricerca preistorica, vengono quasi unanimemente considerati la risultante di un processo di ibridazione avvenuto tra popolazioni piuttosto eterogenee. Essi assumeranno, nei tempi successivi al termine dell’età paradisiaca, una certa rilevanza antropologica, che però in una prima fase cadrà sotto il segno tellurico dell’Età della Madre, di originaria matrice australe come anche i gruppi umani che da ora in poi inizieranno a predominare.

Più in particolare, seguendo le ipotesi della recente linguistica “macro-classificatoria”, riteniamo che il ceppo nord-orientale riconducibile ad “Adamo” corrispose pressappoco a quel tronco definito in termini ampi come Nostratico, al quale l’archeologo Colin Renfrew attribuisce un’età (a nostro avviso, troppo ridotta) di circa 27.000 anni; significativamente, al termine “Nostratico”, Aharon Dolgopolskij, preferì piuttosto quello di “Boreale”, ad indicare comunque le genti che poi si sarebbero ulteriormente suddivise nelle branche elamodravidicasumerica, caucasicocartvelica, afroasiatica, amerindia (il cui inserimento in tale raggruppamento è tuttavia oggetto di discussione) ed infine euroasiatica.

Quest’ultimo ramo è stato ipotizzato da Joseph Greenberg e comprende a sua volta sei distinte famiglie linguistiche le quali, rispetto al più ampio insieme nostratico (che, in alcune versioni della teoria, appare come alternativo a quello eurasiatico) risulterebbero anche per Merritt Ruhlen più strettamente collegate tra loro: la uralica, l’altaica, la coreanaainugiapponese, la ciukciocamciadali, la eskimoaleutina e la nostra, quella indoeuropea.

Arrivati al livello indoeuropeo, ci troviamo ormai davanti ad un’unità genetica ben definita nei rapporti di reciproca parentela tra i sottogruppi interni (es. romanzogermanicoslavoceltico, ecc…), tant’è che, se scegliamo a caso due lingue indoeuropee, esse appaiono di gran lunga più vicine tra loro di quanto non lo siano nei confronti di una qualsiasi altra lingua esterna alla famiglia: la solidità filogenetica dell’insieme indoeuropeo è, quindi, un dato praticamente incontestato e largamente condiviso in ambito glottologico (anche se riteniamo interessante ricordare come, singolarmente, René Guénon lo considerasse invece nulla più di una mera astrazione della linguistica di scuola tedesca).

In ogni caso, tornando al livello dei raggruppamenti linguistici di ordine più ampio, è probabile che il ramo euroasiatico e quello amerindio abbiano tra loro mantenuto, per un certo periodo, ancora un significativo grado di contiguità e, soprattutto per la branca eurasiatica, una localizzazione a latitudine relativamente elevata, cosa che appare evidente ancora oggi con gli idiomi che ne fanno parte.

Attraverso alcune sue frange, comunque, le stirpi riconducibili ad Adamo dovettero entrare in contatto, secondo modalità variegate e di non semplice ricostruzione, con quelle connesse ad Eva (a nostro avviso, corrispondenti alle popolazioni comprese nella macro famiglia SinoDeneCaucasica) e a Lilith (l’ampio insieme ancora più meridionale, Africano ed AustroPacifico), che, nel corso della seconda metà del Satya Yuga, in tempi diversi e partendo da nord erano andate a stabilirsi più a sud, arrivando così a produrre le ibridazioni ricordate sopra.

Ma, soprattutto, tali migrazioni sortirono l’effetto di lasciare deserta la sede iperborea – Varahi, la “Terra del Cinghiale – posta in un quadrante nordorientale del Vecchio Mondo (la perduta Beringia?) che, similmente ad altre aree più meridionali del pianeta, fino a quel momento era stata felicemente abitata.

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Bernardino di Betto (Pinturicchio), “Atalanta e Meleagro a caccia del cinghiale calidonio”.

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9 commenti su “La fine dell’età primordiale e la “Caduta dell’Uomo”

  1. ma, io non ho capito una cosa: tutte queste nozioni, queste ere umane o preumane, questi eventi, sono accaduti veramente, sono stati verificati con metodo scientifico? perché sennò il rischio è quello di legittimare le credenze che poi hanno portato al nazismo, tipo che la Terra ha avuto nella sua storia quattro lune etcetcetc

    1. Il metodo del Ruzzai si pone a metà strada fra l’analisi di carattere mitico-tradizionale (ciò comprendendo non solo i “perennialisti” del ‘900 quali Evola, Guénon, Géorgel, Coomaraswamy, Schuon, Burckhardt, ma anche e soprattutto gli autori classici e i testi antichi, quali ad es. Purana, codici precolombiani, ecc.) e l’analisi di carattere scientifico (paleontologia, biologia, genetica, ecc.). Naturalmente non si può pretendere di verificare unicamente con il metodo scientifico se “tali eventi sono accaduti veramente” (anche perché il paradigma attualmente in voga non tiene conto in alcun modo delle tradizioni mitiche basate sulla credenza dei cicli cosmici), ma ciò non significa che non si possa tentare di ricostruire coerentemente una storia “esoterica” del Manvantara presente (poiché questo ciclo tematico di articoli si riferisce quasi unicamente al presente ciclo temporale, che la tradizione fa risalire a circa 65.000 anni fa) tenendo conto sia degli elementi mitico-tradizionali che dei dati scientificamente verificati. Indubbiamente si tratta di una prospettiva analitica quantomeno “originale”, e non pretendiamo certo di fossilizzare questioni così complesse in una sorta di “nuovo paradigma”: tuttavia, riteniamo che integrare quanto si sa della storia dell’umanità da una prospettiva meramente scientifica con dati di carattere, appunto, “mitico-tradizionale” possa fornire punti di vista illuminanti, o quanto meno suggestivi. D’altronde, un metodo simile è già stato utilizzato dal sottoscritto in merito al ciclo mitico-tradizionale andino,nonché dal Casella nella sua serie di articoli (di ispirazione prettamente desantillianiana) su cosmologia e cicli temporali. Quindi, con questo nuovo ciclo di articoli di cui questo è solo il primo, non si cerca la legittimazione di alcuna credenza “nefasta” né si pretende, come già detto, di imporre alcun paradigma alternativo: il nocciolo della questione, io credo, si potrebbe riassumere nell’invito di James Hillman a “pensare miticamente”; che poi è, in ultima analisi, l’invito che estendiamo implicitamente ai nostri Lettori pressoché ad ogni nostra pubblicazione.

      1. Trovo che sia un esperimento mirabile il tuo, un occhio sempre alla deriva che qualche debosciato possa intraprendere, però, non da parte tua ovviamente ma di tutti

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