I benandanti friulani e gli antichi culti europei della fertilità

di Marco Maculotti
copertina: Luis Ricardo Falero, “Witches going to their Sabbath“, 1878).


Carlo Ginzburg (nato 1939), rinomato studioso del folklore religioso e delle credenze popolari medievali, pubblicò nel 1966 come opera prima I Benandanti, una ricerca sulla società contadina friulana del Cinquecento. L’autore, grazie ad un notevole lavoro su un cospicuo materiale documentario relativo ai processi dei tribunali dell’Inquisizione, ricostruì il complesso sistema di credenze diffuse fino ad un’epoca relativamente recente nel mondo contadino dell’Italia settentrionale e di altri paesi, di area germanica, dell’Europa centrale.

Secondo Ginzburg, le credenze riguardanti la compagnia dei benandanti e le loro battaglie rituali contro le streghe e gli stregoni nei giovedì notte delle quattro tempora (Samain, Imbolc, Beltaine, Lughnasad), erano da interpretare come un’evoluzione naturale, avvenuta lontano dai centri cittadini e dall’influenza delle varie Chiese cristiane, di un antico culto agrario con caratteristiche sciamaniche, diffuso in tutta Europa fin dall’età arcaica, prima della diffusione della religione giudaico-cristiana. Di notevole interesse è anche l’analisi di Ginzburg sull’interpretazione proposta ai tempi dagli inquisitori, i quali, sovente spiazzati da quanto sentivano in sede di interrogatorio dagli imputati benandanti, si limitarono per lo più ad equiparare la complessa esperienza di questi ultimi alle  nefande pratiche della stregoneria. Anche se con il passare dei secoli i racconti dei benandanti si fecero sempre più simili a quelli riguardanti il sabba stregonesco, l’autore notò che questa concordanza non era assoluta:

« Se, infatti, le streghe e gli stregoni che si danno convegno la notte del giovedì per darsi a «salti», «spassi», «nozze» e banchetti, evocano immediatamente l’immagine del sabba—quel sabba che i demonologi avevano minuziosamente descritto e codificato, e gli inquisitori perseguitato almeno dalla metà del ‘400—nondimeno esistono, tra i raduni descritti dai benandanti e l’immagine tradizionale, vulgata del sabba diabolico, differenze evidenti. In questi convegni, a quanto sembra, non viene reso omaggio al diavolo (alla cui presenza, anzi, non si accenna neppure), non si abiura la fede, non si conculca la croce, non si fa vituperio dei sacramenti. Al centro di essi vi è un rito oscuro: streghe e stregoni armati di canne di sorgo che giostrano e combattono con benandanti provvisti di rami di finocchio. Chi sono questi benandanti? Da un lato, essi affermano di opporsi a streghe e stregoni, di ostacolarne i disegni malefici, di curare le vittime delle loro fatture; dall’altro, non diversamente dai presunti avversari, asseriscono di recarsi a misteriosi raduni notturni, di cui non possono far parola sotto pena di essere bastonati, cavalcando lepri, gatti e altri animali. »

—Carlo Ginzburg, «benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento», pp. 7-8

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La «camisciola» e la chiamata dell’angelo

Ginzburg attesta subito (I benandanti, p.23) che i benandanti costituiscono, da quanto emerge dagli atti dei processi inquisitori, una vera e propria setta, organizzata militarmente attorno a un capitano e legata da un vincolo di segretezza, che tuttavia i membri infrangono continuamente, per loquacità, vanteria o per assecondare gli inquisitori. Secondo uno di loro, di nome Moduco, «Fanno parte di questa “compagnia” tutti quelli che sono nati vestiti… et quando vengono alli venti anni sonno chiamati apunto a guisa del tamburo che chiama li soldati, et a noi bisogna andare» (B. p.11). L’iniziazione dei benandanti avviene in un’età precisa, corrispondente all’incirca alla raggiunta maturità: Moduco a 20 anni, Gasparutto a 28). Ginzburg aggiunge anche che, come in un esercito, dopo un certo periodo (10, 20 anni) «si è liberati dall’obbligo di recarsi la notte a combattere» (p.25).

Gli adepti di questa setta sono legati anzitutto da un elemento comune: tutti quanti sono nati con la «camisciola», ovvero avvolti nella membrana amniotica. Si crede che questa camiciola protegga i soldati dai colpi, allontani i nemici, persino aiuti gli avvocati a vincere le cause. Che i bambini nati con la camicia fossero condannati a diventare stregoni è tradizione viva nel folklore di molte parti d’Italia, compresi il Friuli e l’Istria (p.25); in alcune tradizioni europee, e non solo, inoltre, la camicia è considerata come la «sede dell’anima esterna»: un ponte di passaggio, un tramite tra il mondo dei viventi e quello dei morti. In Danimarca si pensa che chi sia nato con la camicia possieda la capacità di vedere i morti (p.93). Nei racconti dei benandanti non si parla della camiciola come di un dono demoniaco, ma anzi gli si riserva un’aurea benefica. Diciamo con il Moduco che esistono, a quanto pare, «stregoni che sono boni, detti vagabondi et in loro linguaggio benandanti, i quali impediscono il male, mentre altri lo fanno» (p.5). Un altro benandante, Gasparutto, mette in relazione il suo essere nato vestito con l’apparizione dell’angelo che lo introdurrà nella compagnia dei benandanti: «Mia madre, circa un anno avanti che mi aparisse quel angelo, mi dette una camisola con la qual io ero nato, dicendomi che l’haveva fatta battezzare insieme con me, et che li haveva fatto dir sopra nove messe, et benedirla con alcune orationi et evangelii; et mi disse che io ero nato benandante, et che quando io fussi grande sarei andato fuora di notte, et che io la tenesse e portasse adosso, che sarei andato con li benandanti a combattere con li strigoni» (p.24).

Alla domanda dell’inquisitore su chi gli avesse insegnato a entrare in questa compagnia di benandanti, il Gasparutto risponde: «L’angelo del cielo… di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo sonno… mi apparse un angelo tutto d’oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori… Egli mi chiamò per nome dicendo: “Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere le biade…” Io gli risposi “Io andarò, et son obediente”» (p.15). Anche il Moduco sembra aver vissuto la stessa esperienza iniziatica e mette anch’egli in relazione la camiciola con l’apparizione dell’angelo: «Mi apparve una certa cosa invisibile in somnio, la quale haveva somiglianza di homo, et mi pareva di dormire et non dormiva, et parevami che fusse uno di Trivignano, et perché io haveva al collo quella camisciola che io nacqui, et mi pareva che mi dicesse: “tu hai da venir meco perché hai una cosa delle mie“». C’è di più: la camiciola, segno distintivo del benandante, una volta perduta dal Moduco gli impedisce di uscire la notte, per recarsi ai convegni della compagnia, giacché «quelli che hanno la camisciola et non la portano addosso non ci vano» (p.18). Il Gasparutto racconta all’inquisitore che, quando l’angelo lo chiamò, «lo spirito uscì fuori, perché nel corpo non può parlare» e sostiene di aver visto l’angelo «ogni volta che andava fuori, perché sempre veniva con lui» (p.16). Ancora secondo il Gasparutto, l’angelo dei benandanti è «bello e bianco», mentre quello degli stregoni «è negro et è il diavolo» (p.17).

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I benandanti e gli antichi culti della fertilità

Dietro i racconti di questi misteriosi convegni e battaglie notturne vediamo emergere chiaramente un rito di fertilità, modellato puntualmente sulle principali vicende dell’anno agricolo: le quattro tempora. I benandanti armati di mazze di finocchio combattono contro streghe e stregoni armati di mazze di sorgo «per amor delle biave», ovvero per assicurare alla comunità la fertilità dei campi e l’abbondanza dei raccolti futuri. Si tratta di un rito agrario conservatosi straordinariamente vitale quasi alla fine del ‘500, in una zona marginale, meno toccata dalle comunicazioni, quale era il Friuli, come fa notare Ginzburg (p.36). L’autore continua:

« I benandanti escono la notte del giovedì delle quattro tempora: in una festività, cioè, proveniente da un antico calendario agrario e tardivamente entrata a far parte del calendario cristiano, che simboleggia la crisi stagionale, il pericoloso trapasso dalla vecchia alla nuova stagione, con le sue promesse di semine, di raccolti, di mietitura e di vendemmia. È allora che i benandanti escono per proteggere i frutti della terra, condizione della prosperità della comunità, dalle streghe e dagli stregoni, dalle forze cioè che occultamente insidiano la fertilità dei campi. »

Citando la testimonianza del Moduco: «Io sonno benandante perché vo con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè le quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo spirito et resta il corpo; et noi andiamo in favor di Christo et li strigoni del diavolo, combattendo l’uno con l’altro, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo. Et se noi restiamo vincitori, quello anno è abondanza, et perdendo è carestia in quel anno» (p.10).

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Del finocchio erano note, nella medicina popolare, le virtù terapeutiche, nonché gli veniva attribuito il potere di tener lontane le streghe (il Moduco afferma che i benandanti mangiano aglio e finocchio, «perché sonno contra li strigoni») mentre Ginzburg ipotizza la scelta del sorgo come arma delle streghe identificandolo con la scopa, loro tradizionale attributo (p.39). Sono chiare le connessioni tra le battaglie notturne descritte dai benandanti e le contese rituali tra Inverno e Primavera che si rappresentavano, e ancora si rappresentano, in molte zone dell’Europa centro-settentrionale, e a riti ancora più antichi, come quello della cacciata della Morte, o della Stregala Giöbia che ancora oggi viene bruciata sul rogo in Lombardia e Piemonte l’ultimo giovedì di gennaioo ancora, nella cultura celtica, delle lotte tra il dio dell’Agrifoglio (Re dell’Anno Calante e dell’oscurità) e il dio della Quercia (Re dell’Anno Crescente e della luce). In talune zone della Svizzera, il primo marzo si svolge la cerimonia della cacciata dell’Inverno, accompagnata da una battaglia rituale tra due schiere di giovani, praticata «per far crescere l’erba» [cfr. Cicli cosmici e rigenerazione del tempo: riti di immolazione del ‘Re dell’Anno Vecchio’].

Nella Germania meridionale, durante i giorni delle quattro tempora, si svolgono processioni attraverso i campi, volte a ottenere da Dio raccolti prosperi. Nel folklore tirolese troviamo i Perchtenlaufen, riti che in determinate ricorrenze vedono il contrapporsi di due schiere di contadini, mascherati gli uni da Perchte (la dea germanica della fertilità) «belle», gli altri da Perchte «brutte», che si rincorrono agitando fruste e bastoni di legno (p.89) [cfr. Il substrato arcaico delle feste di fine anno: la valenza tradizionale dei 12 giorni fra Natale e l’Epifania]. Un rito analogo viene operato dagli eschimesi Inuit: all’avvicendarsi dell’inverno, due schiere, formate rispettivamente dalle persone nate in inverno e da quelle nate in estate, fanno una gara di forza: se vince la seconda schiera, si può sperare in una buona stagione (Frazer, Il ramo d’oro, p.99). L’antropologa Marjia Gimbutas, ricercatrice degli antichi culti matriarcali, parla di «riti collegati alla sepoltura dell’Anno Vecchio» e incentrati sulla «Vecchia Strega Lunare» che si celebravano in età arcaica nel santuario di Artemide Brauronia, dove è collocato il mito di Ifigenia (Il linguaggio della dea, p.313).

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Adolf Hirémy-Hirschl, Souls in the Acheron (1910).

Letarghi, unguenti e crisi epilettiche

Sebbene i benandanti ammettano di recarsi ai convegni con il solo «spirito», nondimeno essi non misero mai in dubbio la realtà di tali esperienze. Tutti affermavano che, prima di recarsi ai convegni, ai quali giungevano in groppa ad un animale (lepri, gatti, galli, becchi), cadevano in uno stato di profonda prostrazione, di catalessi (Ginzburg li denomina «letarghi rituali»). In alcuni casinon, tuttavia, in quelli del Moduco e del Gasparuttosi registra anche l’utilizzo di ungenti per permettere allo spirito di lasciare il corpo e recarsi ai detti convegni, così come è risaputo facessero le streghe per recarsi al sabba. Ginzburg cita il teologo spagnolo Alfonso Tostado (metà ‘400), il quale notò che le streghe, dopo aver pronunciato determinate formule, si spalmavano le tempie con unguenti a base di datura (stramonium) e cadevano in un profondo sonno, che le rendeva insensibili perfino al fuoco o alle ferite; ma, una volta risvegliate, asserivano di essersi recati in luoghi lontani, a convegno con altre compagne, banchettando e amoreggiando (p.27).

Ginzburg, pur accettando in parte l’ipotesi che streghe e benandanti soffrissero di patologie psichiche (epilessia et similia), nega recisamente che sia possibile spiegare le loro credenze e le loro esperienze notturne riducendo tutto all’ambito della malattia: questo perché «le presunte allucinazioni, anziché situarsi in una sfera individuale, privata, posseggono una consistenza culturale precisa» (p.29). In altre parole, le esperienze che streghe e benandanti narravano agli inquisitori si fondavano tutte su una mitologia ben precisa, troppo precisa per permettere di bollare queste esperienze come semplici allucinazioni del singolo. Secondo l’autoree noi siamo del medesimo parereil fatto che queste esperienze fossero provocate dall’azione di unguenti a base di stupefacenti, o dovute a crisi epilettiche, o ancora ottenute con l’aiuto di particolari tecniche estatiche, non permette di decifrare il problema dei benandanti e delle loro credenze, il quale «va risolto nell’ambito della storia della religiosità popolare, non della farmacologia o della psichiatria» (p.30).

Anche secondo Galli, come Ginzburg, la questione della stregoneria non si può analizzare unicamente come patologia, superstizione o fantasticheria, ma si trattava in realtà di un «movimento in espansione, di una vera e propria cultura alternativa traducentesi in comportamenti, con radici antiche (le civiltà matristiche, le baccanti, gli gnostici), riemergenti in condizioni specifiche (la crisi della Chiesa, la ripresa di credenze magico-astrologiche)», aggiungendo che tale movimento fu combattuto «perché aveva radici culturali e sociali, perché senza sconfiggerlo […] l’ “età moderna” non avrebbe potuto essere tale, coi valori che le sono propri» (Occidente misterioso, p.170). Galli aggiunge che «il diavolo è il Dioniso delle streghe», i sabba sono un aggiornamento dei raduni delle menadi e «gli stessi rapporti con gli animali si collegano a una tradizione che ha in Pasifae e nel suo mito cretese l’antecedente, come eco di un periodo nel quale la promiscuità dell’essere umano nella natura era normalmente vissuta» (p.173) [cfr. Da Pan al Diavolo: la ‘demonizzazione’ e la rimozione degli antichi culti europei].

Anche Henry Kamen la pensava così (Il secolo di ferro. 1550-1660, pp. 325-326):

« La superstizione popolare non aveva nulla di più complicato della magia folcloristica, la magia bianca e nera delle collettività rurali. […] Il momento in cui la comune magia folcloristica europea divenne irrazionale fu quello in cui il diavolo fece il suo ingresso nella storia. Fu quando la dottrina del sabba incominciò a essere seriamente considerata, nel Trecento e nel Quattrocento, che il problema della stregoneria prese veramente corpo. […] L’antica magia popolare si era ormai estesa in una minaccia diabolica e in quanto diabolica i teologi intervennero con le loro osservazioni. »

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Fritz Roeber, Walpurgisnacht (Faust).

La società di Diana

Ginzburg fa notare come, a Modena, i primi accenni ai convegni notturni delle streghe riguardino non l’adorazione del demonio ma il culto di una misteriosa divinità femminile, Diana, presente nell’Italia settentrionale almeno dalla fine del ‘300. Bisognerà aspettare il 1532 per incontrare racconti del sabba comprendenti descrizioni di ostie profanate, crocifissi calpestati o accoppiamenti con demoni; tuttavia, in questo contesto rimarrà presente, per quanto trasformata, la figura di Diana come somma «badessa» del convegno notturno (p.46). Margaret A. Murray è del parere che la caccia alle streghe fu in realtà la persecuzione che l’inquisizione di Roma ordì nei confronti dei superstiti di antichi culti pagani in via di estinzione: essa definisce «culto di Diana» quella che presenta come religione delle streghe (che adorerebbero il «dio cornuto»); e «cavalcata di Diana» è definito il galoppo delle streghe nell’aria, al quale si riferisce il Canon episcopi, probabilmente un capitolare franco di Ludovico II del 867 (Galli, Occidente misterioso, p.158). Secondo la Murray, «il documento, pur demonizzando la superstizione di sapore pagano che faceva sì che alcune donne volassero nella notte al seguito di Diana esprime scetticismo sulla reale possibilità di tale avvenimento». Nel Canon di Reginone (intorno al 900), la dea delle streghe assume il nome di Erodiade, i cui primi accenni si ebbero nel veronese. Secondo Giorgio Galli, «la confutazione sull’esistenza di un vero e proprio “dio delle streghe”, il capro cornuto trasformato in demonio, può essere valida se si pensa al valore puramente simbolico di una figura che ha molte analogie con Dioniso e i satiri» (p.156).

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Il domenicano J.Nider (XIV-XV secolo) riferì che gli individui che asseriscono di essere stati trasportati ai convegni notturni di Erodiade, «ritornati in sé dopo un periodo di deliquio, raccontano cose straordinarie sulle anime che sono nel purgatorio o all’inferno, su oggetti rubati o perduti, e via dicendo» aggiungendo che, durante la loro estasi, «non avvertono neppure il bruciore della fiamma di una candela» (I Benandanti, p.66). Racconti di tal guisa non possono non portare alla nostra mente i resoconti di esperienze sciamaniche da ogni parte del mondo, durante le quali lo sciamano accede ai mondi inferiori e superiori, recupera le anime perdute, conversa con le anime dei morti e ritrova oggetti rubati o perduti.

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William Blake, Triple Hecate.

La dea delle streghe e la processione notturna

Ginzburg, facendo partire la sua riflessione dal proverbiale «volo delle streghe», attesta come questa credenza nelle cavalcate notturne ebbe una notevole diffusione nell’Europa medievale. A capo di questa processione notturna si trova Diana o Erodiade, sostituita nelle zone germaniche da Perchta e Holda, divinità germaniche della vita come della morte, dee della vegetazione e quindi della fertilità, ma anche della luna e della notte. Emanuela Chiavarelli collega Perchta a «Berctha, l’arcaica progenitrice dei Germani, la divina filatrice il cui nome rinvia sia a Berta dai “grandi piè”, madre di Artù, sia all’omonima genitrice di Odino-Wotan, la Berta festeggiata il 2 gennaio» (Diana, Arlecchino, p.122). Anche Diana-Ecate, nella mitologia greco-romana, era seguita nelle sue peregrinazioni notturne da una schiera di morti senza pace: i morti anzitempo, i bambini deceduti prematuramente, le vittime di morte violenta. La già menzionata Chiavarelli nomina un documento ecclesiale, il Chronicum dell’abate Reginone di Prün, che predica il rifiuto del dianaticus, rituale pagano in cui la dea Diana «se ne va in giro di notte con la sua schiera», un esercito di anime—spesso di donne morte di parto—e di entità stregonesche (p.25). Ginzburg, in un altro suo lavoro (Storia notturna, p.66), riporta testualmente il documento, che recita:

« Non bisogna tacere che certe donne scellerate, divenute seguaci di Satana, sedotte dalle fantastiche illusioni dei demoni, sostengono di cavalcare la notte sopra certe bestie insieme a Diana, dea dei pagani, e a una gran moltitudine di donne; di percorrere grandi distanze nel silenzio della notte profonda; di obbedire agli ordini della dea come se fosse la loro signora; di essere chiamate in determinate notti a seguirla. »

Ma è soprattutto la Chiavarelli, nella sua ricerca dei culti dell’Europa arcaica, a parlare diffusamente della dea Diana-Artemide, Signora degli Animali, la quale «emerge nel suo ruolo di regina di un antico culto estatico imperniato intorno ad una misteriosa “società notturna”». Con la decadenza della religione antica e l’avvento del cristianesimo, Diana assunse «le sembianze di una sorta di fata-maga—”la donna del bon zogo”—chiamata indifferentemente Diana, Hera, Ecate, Erodiana, Erodiade, Venere, Frau Venus, Abundia, Dame Habonde, Bona Dea, Sibilla, Madonna Oriente, Holda, Hölle, Helle, Richella, Pertcha… che, in determinate periodi (solitamente le quattro tempora dei solstizi e degli equinozi), vaga di notte con il suo esercito volante» (Diana, Arlecchino, p.27). A questa sfilza infinita di nomi, la Chiavarelli aggiunge anche quello di Dana, dea della regalità e antenata delle popolazioni celtiche dette Tuatha Dé Dana (“il popolo di Dana”), la quale «non solo ricorda foneticamente e semanticamente Diana, […] ma veniva celebrata il 24 giugno, giorno natale di Artemide». Di più: nella tradizione popolare durante la ricorrenza, dedicata a S.Giovanni, si celebrava «una “caccia fantasma” che evocava il ruolo di Diana-Artemide come cacciatrice divina, sollecitando l’accostamento con il fenomeno della “caccia selvaggia”» (p.32). Nel suo encomiabile lavoro di ricerca, inoltre, la Chiavarelli analizza le credenze riguardanti la «malformazione podalica della Signora del Sabba, spesso dotate di estremità ursine, asinine o di zampe d’anatra, bestie collegate ad aspetti demonizzati della Grande Madre» e collega a questo culto arcaico l’adorazione dell’albero del noce, sacro a divinità infere come Persefone ed Artemide/Diana, nonché riporta quanto sostiene Barnal sulle «sacerdotesse di Artemide originarie di Karyai, in Laconia» che sarebbero «le fate del noce» che decadranno poi in streghe (p.57). 

Da parte sua, Ginzburg aggiunge a questo elenco la tradizione popolare rumena, dove «venivano praticati rituali semiestatici sotto la protezione di Doamna Zînelor, detta anche Irodiada o Arada», ipotizzando la somiglianza delle credenze con il fatto che popolazioni celtiche si erano insediate da secoli, a volte fin dal V secolo a.C, in Romania (Storia notturna, p.80). Ginzburg riporta anche che «ancora al principio del ‘400 i contadini del Palatinato credevano che una divinità di nome Hera, portatrice di abbondanza, vagasse volando durante i dodici giorni tra Natale e Epifania, il periodo consacrato al ritorno dei morti», periodo durante il quale, nel mondo germanico, «si pensava che i morti andassero in giro vagando» (pp.81-83) [cfr. Il substrato arcaico delle feste di fine anno: la valenza tradizionale dei 12 giorni fra Natale e l’Epifania].

La credenza nelle processioni notturne era diffusissima in tutta la Svizzera: ad esse ci si poteva recare unicamente con l’anima, lasciando il corpo nel letto, e quindi anche esseri viventi, reputati particolarmente fortunati e pii, erano ammessi (p.81). Ginzburg raccoglie un’ampia letteratura di casi, tra il 1400 e il 1500, in Alsazia, Baviera, Tirolo e Svizzera, in cui gruppi di individui, generalmente donne, durante le quattro tempora cadono in deliquio e affermano di giungere in spirito a convegni notturni presieduti da una divinità femminile (Frau Venus, Frau Selga, Perchta, Holga/Holle, etc). Tali processioni, secondo l’autore, si ricollegano al mito più antico della «caccia selvaggia», e dunque anche le credenze dei benandanti friulani sarebbero da inquadrare nella stessa cornice, portando come esempio la dichiarazione di una benandante di Latisana, Maria Panzona, processata nel 1619, la quale «dichiara di essersi recata più volte, in spirito, nella valle di Josefat, a cavallo di un animale, e di aver reso omaggio “bassando la testa” insieme con gli altri benandanti, a “una certa dona sentata in maestà sopra una cariega da pozo, chiamata la Badessa» (p.84).

Un’altra clamorosa analogia con i benandanti Ginzburg la trova in Svevia, dove nel XVI secolo si racconta (negli Annales Svevici) di alcuni «clerici vagantes» (si noti l’assonanza con «vagabondi», altro nome dei benandanti) che conoscevano il passato e il futuro, erano in grado di ritrovare oggetti perduti, conoscevano incanti che proteggevano la gente e gli animali dall’azione delle streghe e allontanavano la grandine. Non solo: essi dichiaravano anche di essere capaci di evocare «l’esercito furioso, composto da bambini morti prima di essere battezzati, dagli uomini uccisi in battaglia e da tutti gli “ecstatici”», cioè da coloro la cui anima aveva abbandonato il corpo senza farvi più ritorno. Ancora, essi affermano di essere in grado di compiere tali prodigi per essere stati ammessi nel «misterioso regno di Venere»: ciò, naturalmente, li ricollega alla divinità femminile adorata durante questi ambigui convegni notturni, la Frau Venus germanica che ricorda la Afrodite mediterranea. Non stupisce, quindi, che l’inquisitore Ignazio Lupo affermasse che «le streghe del bergamasco si radunassero il giovedì delle quattro tempora sulla montagna di Venere, il Tonale, per adorare il diavolo e fare le loro orge» (pp.85-88).

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Il mito della «caccia selvaggia» e il dio che guida l’«esercito furioso»

Il mito della processione notturna ricorda, come abbiamo detto, quello della «caccia selvaggia», diffuso in tutta l’Europa centro-settentrionale, formato da coloro che sono morti prima del tempo, come ad esempio i guerrieri morti in battaglia, costretti a vagare durante le quattro tempora (e in particolare nelle notti che vanno da Natale all’Epifania) finché non sia trascorso il periodo che dovevano trascorrere sulla terra. Secondo molte testimonianze, la schiera dei morti, denominata «esercito furioso», sarebbe guidata dal leggendario uomo selvatico o demone della vegetazione, conosciuto con il nome di Harlechinus o Hellequin (I benandanti, p.77). Secondo la Chiavarelli, il mito della processione di Diana e quello della caccia selvaggia finì per fondersi: ormai sintetizzati nelle nuove credenze, i due fenomeni diventeranno inscindibili e contribuiranno entrambi alla tradizione del sabba stregonesco; il personaggio demoniaco che guida la mesnie ferale si confonde a volte con Odino che «da antico dio nordico, è decaduto ormai nel prototipo del diavolo», altre con Artù, il sovrano dei cavalieri della Tavola Rotonda nell’epica britannica, altre ancora con l’antico dio celtico Cernunno o Kernunno (Diana, Arlecchino, p.26), il «dio cornuto» della religione delle streghe di cui parla la Murray (Il dio delle streghe, pp.21-42) [cfr. Cernunno, Odino, Dioniso e altre divinità del ‘Sole invernale’].

I personaggi di Odino e di Artù sono entrambi in relazione con l’orso (con la cui pelle, ricordiamo, si travestivano le sacerdotesse di Artemide Brauronia durante i loro rituali). L’animale, oltre ad una relazione con Afrodite, evoca possibili riferimenti alla stella polare (Ursae Minoris) nonché all’assialità (il sacro frassino Yggdrasill, Albero del Mondo a cui Odino resta appeso per nove giorni; la spada che Artù estrae dalla roccia). La Chiavarelli fa notare che l’orso è evocato anche semanticamente sia dal nome Artù (arktos, orso), sia dalla denominazione delle «schiere di guerrieri “orsi” dell’esercito di Odino, i berserkir, dodici, tra l’altro, come i cavalieri del sovrano bretone» (Diana, Arlecchino, p.29). Si noti, tra l’altro, che semanticamente il nome di Artù richiama anche Artio, antica dea celtica della caccia e dell’abbondanza, spesso raffigurata con le sembianze di un’orsa. L’autrice si spinge addirittura oltre, indagando ulteriormente sul folklore europeo più recente: «L’Old Nick, demoniaca entità dell’Europa settentrionale poi canonizzato come San Nicola, simbolo dell’anno Vecchio vinto dal nuovo (il Bimbo di luce dei Misteri, riattualizzato in Gesù bambino) e il Santa Claus americano, analogo al canuto Babbo Natale che viaggia sulla sua slitta trainata da cervidi, sono, sorprendentemente, lo stesso Odino nordico, il “re” della Caccia Selvaggia!» (p.47) [cfr. Il substrato arcaico delle feste di fine anno: la valenza tradizionale dei 12 giorni fra Natale e l’Epifania].

Viene dunque a dipanarsi un universo misterioso fatto di riti per la fertilità, divinità cornute, cervidi e utilizzo di allucinogeni (amanita muscaria), che porta la Chiavarelli a indagare sul folklore delle popolazioni sciamaniche siberiane. Questa ricerca permette invero di trovare le radici semantiche di Harlechinus o Hellequin, l’uomo selvatico che sovente capeggia la caccia selvaggia nelle testimonianze raccolte dall’Inquisizione. L’autrice scopre infatti che «tra i Turchi nord-siberiani esiste una cerimonia sciamanica in onore del terribile, grande, crudele Ärlik, padre della comunità e antenato primordiale, cui vengono sacrificati equini (Hell-equin)», una divinità infera simile all’Erlik degli Altaici e allo Yerlïk degli Uiguri gialli, che usa corna come armi. Considerato progenitore dell’umanità, prototipo del primo morto come lo Yama indoiranico, viene adorato con la denominazione di Erlik Khan come sovrano del mondo anche dai Teleuti, dai Buriati e dai Turco-Mongoli, mentre tra i Tartari si chiama Irle-khan. L’autrice ci informa che «le invocazioni al dio, che abita in un palazzo di fango nero nei cupi abissi dei nove gradi degli inferi, precedono il sacrificio di un cavallo» (p.68) [cfr. Divinità del Mondo Infero, dell’Aldilà e dei Misteri]. Ancora, si tramanda che Erlik abbia creato l’orzo (è dunque un antichissimo dio della fertilità, come il Saturno latino originario, sposo di Opi) e pare che gli vengano offerte «stoffe variegate, pezze multicolori che parrebbero non diverse da quelle che formano il costume di Arlecchino da Bergamo, personaggio conservante, nel suo nome, la chiave del mondo sotterraneo da cui proviene. […] L’Arlecchino della Commedia dell’Arte era in origine un diavolo» (p.82). D’altra parte, studiosi rinomatissimi come il Toschi e il Meuli condividono il parere che le maschere di Carnevale incarnino le anime degli antenati, i demoni e le entità sotterranee che sono solite mostrarsi nei dodici giorni compresi tra Natale e l’Epifania [cfr. Da Pan al Diavolo: la ‘demonizzazione’ e la rimozione degli antichi culti europei].

Esiste, dunque, un filo rosso che unisce chiaramente gli antichissimi culti sciamanici delle popolazioni siberiane, i culti nord-europei precristiani (Cernunno, Odino), e il folklore più recente (San Nicola, Santa Claus, il Krampus) fino a giungere addirittura al folklore profano delle masse medievali (Arlecchino ma anche Pulcinella, la cui maschera, il “lupetto nero” allude ad Ade, il dio infero dal berretto di lupo che rendeva invisibili). Sullo sfondo, «emergono le tracce di altri eserciti di giovani iniziati, coperti da pelli animalesche, come i bersirkir, i furiosi guerrieri-orso della tradizione scandinava, i cinocefali longobardi o gli ulfhedin, uomini-lupo della cultura germanica, affini per certe caratteristiche ai Luperci romani e agli iniziati di Apollo Liceo o di Zeus Lycaios» (p.183). Spesso, nel folklore, le battaglie a cui questi eserciti di iniziati si sottopongono si consuma anche tra componenti dello stesso gruppo: così accade, oltre che per i benandanti e gli stregoni, anche per i Călușari del sud della Romania, i quali lottano sia tra di loro che contro gli strigoi, nonché per i kresniki balcanici, i táltos ungheresi e i burkudzäutä osseti [cfr. Metamorfosi e battaglie rituali nel mito e nel folklore delle popolazioni eurasiatiche]. Secondo il parere della Chiaverelli, «tali scenari mitico-rituali sembrano sottolineare l’esigenza di combattimenti tra gruppi di forze opposte, quantunque complementari, di cui uno impersonava sempre gli aspetti negativi dell’antagonismo» (p.185-186), volti a ripristinare la fertilità dei campi nei momenti più critici dell’anno agricolo, vale a dire indicativamente dall’inizio di novembre (festa dei morti) all’Epifania, ricorrenza in cui oggi nel folklore popolare si festeggia la Befana, che altro non è se non l’ennesima maschera attribuita alla dea degli antichi culti agrari europei.

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Peter Nicolai Arbo, Asgardsreien.

Bibliografia

  1. Emanuela Chiaravelli, Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti. Dallo sciamanesimo alla «caccia selvaggia». (Bulzoni, 2007).
  2. Giorgio Galli, Occidente misterioso. Baccanti, gnostici, streghe: i vinti della storia e la loro eredità. (Rizzoli, 1987).
  3. Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea. (Venexia, 2008).
  4. Carlo Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento. (Einaudi, 1966).
  5. Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba. (Einaudi, 1989).
  6. Henry Kamen, Il secolo di ferro. 1550-1660. (Laterza, 1977)
  7. Margaret A. Murray, Il dio delle streghe. (Ubaldini, Astrolabio, 1972).

18 commenti su “I benandanti friulani e gli antichi culti europei della fertilità

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