Apollo il Distruttore: «coincidentia oppositorum» nella mistica e nell’escatologia iperborea

Sebbene considerato per lo più nella sua accezione “luminosa” ed “uranica”, nella tradizione arcaica Apollo unisce nella sua mistica ed escatologia le dicotomie più estreme: l’arco e la lira, la sapienza e la “mania”, la profondità e l’elevazione, la catabasi e il viaggio in spirito verso l’Isola Bianca, la “Caduta” dell’Essere e il ritorno dell’Età dell’Oro. Partendo dalle fonti antiche, noi possiamo ritrovare concezioni simili non solo a quelle dello sciamanesimo nord-asiatico e della spiritualità celtica, ma persino alla visione sacra di alcuni poeti moderni come Blake, Shelley e Yeats — il cui crisma apollineo ci apparirà più chiaro se analizziamo la loro “Weltanschauung” alla luce delle dottrine platoniche ed eraclitee.


di Marco Maculotti

(Questo articolo nasce dalla catalogazione degli appunti raccolti per la conferenza L’elevazione e la profondità: armonie e contrasti nell’Apollineo, tenutasi a Milano per l’Associazione Imaginalis in data 29 novembre 2019, la cui registrazione audio abbiamo pubblicato in altra sede)


« Il punto di vista della conoscenza è questo: rifiutare il presente come realtà, intendere i pensieri e i sentimenti, gli oggetti e le figure del presente come travestimenti da smascherare. La vita profonda si attinge dal pozzo del passato, è più vivo ciò che è più remoto nel tempo. »

« L’attimo come intuizione precede la scossa; nel fluire del tempo si erge improvvisamente un istante, che “non è in nessun tempo”, dice impropriamente Platone, ma che a rigore dà inizio al tempo, è già nel tempo, però allude a qualcosa che non è nel tempo, lo ripercuote, lo esprime. […] “Ogni cosa governa la folgore”. »

— G. Colli, Dopo Nietzsche” [pp. 63 e 68]

I filologi e gli storici delle religioni degli ultimi secoli hanno il più delle volte frainteso la figura numinosa di Apollo, concentrandosi eccessivamente sui suoi attribuiti “luminosi” e ignorando (volutamente?) il suo lato “oscuro”. Il mito di un Apollo esclusivamente celeste, divinità solare connessa con il Logos, la razionalità e l’ordine non trova riscontro nel mondo antico, se non in alcune teogonie non troppo arcaiche (come quella dell’Imperatore Giuliano), essendo stato confezionato dai Germanisti del XIX secolo e sfociato prima nella visione esoterica della storia di J.J. Bachofen e, per suo tramite, giunto fino a pensatori successivi quali Friedrich Nietzsche (La nascita della tragedia). Le testimonianze antiche sul dio, e non meno palesemente le fonti riguardanti i suoi “sacerdoti”, i cosiddetti Iatromanti, di cui ha trattato esaustivamente Ioan P. Culianu nel suo saggio I viaggi dell’anima, mostrano in realtà una situazione ben diversa, che fa di Apollo non solo un dio “uranico”, ma al tempo stesso anche un daimon («spirito immortale») ctonio, dimorante nel “mondo di sotto”.

È vero che di molti Iatromanti Apollinei si narrano i viaggi “in spirito” in direzione dell’Isola Bianca, Leukè, equivalente senza ombra di dubbio al “mondo superno” delle tradizioni sciamaniche. Eppure, al tempo stesso non bisogna dimenticare che gli stessi Iatromanti erano in grado di compiere katabasis, “immersioni in spirito” nel mondo di sotto, che ai tempi veniva denominato Ade. Ivi, essi entravano in contatto con gli spiriti del mondo inferiore e con le anime dei defunti, che talvolta erano in grado di riportare in vita, facendole “risalire” con loro al nostro mondo. In ciò noi possiamo vedere una corrispondenza con lo sciamanesimo mongolo-siberiano, la cui tradizione distingue tuttavia tra “sciamani bianchi” (capaci di compiere i “viaggi superni”) e “sciamani neri” (cui si attribuisce la capacità di scendere nel mondo sotterraneo): nella corrente apollinea degli Iatromanti le due capacità spesso coesistono in un unica persona (cosa che si ritrova, seppure raramente, anche nella tradizione sciamanica asiatica).

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Ilyas Phaizulline, “Orpheus in the Underworld”, 1992

1. La Profondità: incubatio e katabasis


1.1. Apollo come daimon sotterraneo e oracolo

Una delle epifanie più note di questo Apollo ctonio è il cosiddetto Apollo Pholeuterios menzionato su una lastra di marmo risalente al III secolo a.C. scoperta nel 1973 nell’Istria, che ai tempi era una colonia milesiana sulle coste tracie del Mar Nero. L’epiteto del dio, che appare connesso storicamente al culto di Apollo Iatro venerato nelle colonie ionico-pontine, deriva dal verbo che ha il significato al tempo stesso di «nascondere» e di «proteggere», ponendosi in qualche modo in contrapposizione con l’Apollo Oulios di Elea (Velia): quest’ultimo era infatti considerato l’Apollo della polis, essendo invece il primo il suo omologo “selvaggio”. Ma il termine da cui deriva il suo epiteto significa anche «tana», il buco nel sottosuolo dove gli animali selvatici sono soliti trascorrere il letargo in ibernazione. In ciò noi dobbiamo vedere un indizio delle antiche pratiche sacre di incubatio, durante le quali il fedele (questante), dopo aver compiuto i dovuti sacrifici e le dovute invocazioni, si isolava dal mondo per alcuni giorni e notti all’interno di una caverna sotterranea completamente buia, per ricevere l’oracolo del dio. Estremamente simili erano le sedute di incubazione compiute nei sotterranei il tempio di Asclepio, ma anche di molti altri eroi della tradizione ellenica.

Ci sono giunte diverse fonti riguardo a questi rituali oracolari, che tradiscono un’origine indubbiamente sciamanica. Strabone, per esempio, menziona il Charonion (tempio sotterraneo di Caronte) presso Acharaca nella Caria e descrive come le persone malate che vi giungevano per ottenere la guarigione venivano portate nella caverna sotterranea e là lasciate in solitudine senza cibo per molti giorni, «come animali nelle loro tane». Talvolta essi erano accompagnati dai Supplici, sacerdoti del tempio; ma l’ingresso a chiunque altro era severamente vietato e veniva punito con la morte. Presso il tempio di Acharaca si svolgeva anche un festival annuale, durante il quale, in una cerimonia notturna, i partecipanti potevano vedere «tutte queste cose» (segrete; i Misteri, per l’appunto) e durante la quale, a mezzanotte in punto, degli adolescenti nudi conducevano un toro nella caverna, dove esso spirava immediatamente: ciò veniva considerato segno della presenza del dio.

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Fyodor Bronnikov, “Pythagoreans Celebrate Sunrise”, 1869

1.2. Pitagora, Epimenide e il «magico cibo delle ninfe»

D’altronde si tramanda che Pitagora, il più celebre degli Iatromanti, a volte considerato addirittura un Avatar di Apollo, sia disceso — forse insieme a Epimenide di Creta, un altro iatromante — nelle caverne all’interno del monte Ida, dove si pensava vivessero i Dattili, una sorta di razza di pigmei mitici che secondo il mito avrebbero inventato la filosofia. Questi esseri presentano molti tratti in comune con gli gnomi e gli elfi della mitologia nord e centroeuropea, e d’altronde non ci sorprende apprendere che di Epimenide si dica, tra le altre cose, che si vantasse di aver mangiato molte volte il «magico cibo delle ninfe» — le ninfe essendo paragonabili alle fate della tradizione romana. Chi conosce il foklore riguardante i fairies britannici ben conosce il topos che concerne il cibo da essi offerto nel loro regno sotterraneo: ma mentre nelle testimonianze dell’epoca post-medievale accettare tale cibo condannava lo sconsiderato alla rovina — vale a dire a vivere per sempre nel regno dei fairies morendo al nostro mondo, oppure ritornare nel “mondo di superficie” completamente folli — nell’antica Grecia evidentemente i sapienti la pensavano diversamente, al punto che «mangiare il cibo delle ninfe» equivaleva a conoscere i segreti divini.

E tuttavia, nell’ottica ellenica, la sapienza era strettamente collegata alla follia, al punto che Giorgio Colli ci ricorda che, secondo i Greci, «i più grandi fra i beni giungono a noi attraverso la follia, che è concessa per un dono divino […] la “mantica”, cioè l’arte della divinazione, deriva da “mania” […] Apollo non è il dio della misura, dell’armonia, ma dell’invasamento e della follia […] La follia è la matrice della sapienza» [La nascita della filosofia, pp. 20-1]. Ciò forse ci può suggerire l’esistenza di un “filone dorato”, che passa per Pitagora, Epimenide e gli altri Iatromanti per giungere fino ai “moderni” Blake, Shelley e Yeats. Non a caso spesso il culto apollineo era indelebilmente connesso con quello delle Ninfe, o delle Muse. Lo stesso Parmenide, che descrisse la sua catabasi come un’incontro con la Dea, la quale gli rivelò «l’irremovibile cuore della verità a tutto tondo», riecheggia le esperienze estatiche e liriche dei tre poeti britannici di cui sopra. Ed Empedocle definì Apollo «soltanto un cuore sacro e indicibile […] che con veloci pensieri frecciando si slancia attraverso il mondo intero» — chiosato dal Colli [La nascita della filosofia, p. 44]:

« Apollo è interiorità inesprimibile e nascosta, “cuore sacro e indicibile”, cioè la divinità nel suo distacco metafisico, e al tempo stesso è attività dominatrice e terribile nel mondo umano. »

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Carl Friedrich Seiffert, “The Blue Grotto on Capri”, 1860

1.3. La grotta e la sapienza

Ad ogni modo, in queste pratiche iatromantiche non si può che riconoscere atmosfere ctonie e mitologie che hanno più a che a che fare col “mondo di sotto” piuttosto che con quello superno. Lo stesso Epimenide aveva trascorso quarant’anni all’interno della “grotta dei Dattili” del monte Ida, che era anche famosa nell’antichità perché si tramandava che Minosse stesso fosse disceso in essa per farsi consegnare da Zeus le leggi con cui governare il suo regno: ciò ci viene detto da Omero, Platone, Strabone e altri. Lo stesso Platone e i Pitagorici, d’altronde, concepivano il Cosmo come una grotta: sembra quindi naturale che essi compissero i propri rituali cripto-sciamamici in una dimensione ipogea, cosa confermata anche dalle cronache (ad es. Porfirio e Giamblico), che riportano che Pitagora possedesse una grotta sotterranea sull’isola di Samo, in cui si ritirava giorni e notti alla ricerca della vera sapienza.

L’adorazione di Apollo come daimon sotterraneo, comunque, non si limitava alle colonie ionico-pontine. In Italia si trovava un oracolo molto noto nell’antro della Sibilla Cumana presso il Lago Averno. In una grotta a settentrione dell’Acropoli di Atene (conosciuta come Akrai o Makrai) il dio veniva invocato dai suoi sacerdoti. E come se non bastasse, l’associazione di Apollo con questo luogo precede la fondazione dell’Acropoli stessa: si deve trattare quindi, senza alcun dubbio, di un culto antichissimo. In Attica, Apollo veniva venerato, in connessione con Pan e le Ninfe, in un sistema di grotte sotterranee. Pausania menziona una caverna sacra ad Apollo in un posto chiamato Aulai, nei pressi della Magnesia, dove si crede che l’immagine del dio possa dare al supplice la forza di portare a termine qualunque compito. Nella Magnesia esisteva anche, presso il monte Pelio, un culto di Chirone che poneva egualmente l’enfasi sulla guarigione e sull’isolamento sotterraneo alla maniera degli animali in letargo. Ancora Pausania  cita un culto ctonio praticato in Frigia, con una “trimurti” formata da Apollo, Eracle e Hermes «della grotta».

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2. La Profondità e l’Elevazione: viaggi in spirito verso l’Altro Mondo


2.1. Rapiti al nostro mondo

Di molti degli Iatromanti si tramanda effettivamente, come si dice anche nella tradizione scoto-irlandese dei fairies, che coloro che sono “rapiti” da Apollo e dalle Ninfe/Muse «dopo essere scesi nel mondo di sotto, continuarono i loro affari nella vita dei mortali, rimanendo tuttavia invisibili ai loro occhi». Molti di loro provenivano dai Balcani settentrionali o centrali: una volta scomparsi essi diventavano letteralmente il daimon che sarebbe poi stato invocato dai supplici e dai fedeli, ubicato immancabilmente nella grotta sotterranea in cui essi avevano compiuto la catabasi. Questi oracoli di Eroi/Semidèi/daimones erano molto attivi tra il VI e il V secolo prima della nostra èra.

Di Anfiarao si tramandava che fosse stato “risucchiato” dalla terra a Tebe, mossa misericordiosa con cui Zeus lo salvò dalla morte imminente e dalla distruzione, rendendolo immortale. Nell’ipogeo in cui egli fungeva da oracolo, l’incubatio avveniva all’interno di pelli di ariete appena scuoiato, pratica che si ritrova anche in diversi centri oracoli in Puglia. La pelle degli animali sacrificati aveva un ampio utilizzo in questi centri sapienzali, dalla previsione del futuro alla magia meteorologica e la purificazione — elementi, questi, decisamente sciamanici (pratiche simili sono ancora oggi in vigore nelle steppe mongole-siberiane e probabilmente caucasiche). Anche Anfiarao, come Asclepio, era connesso al serpente, di cui si diceva che a volte prendesse le sembianze. Generalmente, però, si presentava al questante, in sogno o visione che fosse, nel suo aspetto antropomorfo.

Anche di Trofonio, che aveva un oracolo a Lebadea, si dice che fosse stato “risucchiato” dalla terra: e da quel momento diventò un dio oracolare. I rituali preparatori alla sua consultazione, riportatici da Pausania, ci suggeriscono elementi cultuali fortemente apollinei. Anzitutto il questuante veniva condotto nel mondo sotterraneo da due giovani, gli Hermai, che gli facevano bere l’acqua dalle fonti di Lethe (“Oblio”) e Mnemosyne (“Memoria”). Poi, egli doveva donare tortini di miele ai serpenti che dimoravano sul fondo della grotta ipogea. La grotta stessa, secondo il mito, fu scoperta dai Beoti seguendo uno sciame di api, e ciò è rilevante in quanto l’ape è per antonomasia un’epifania zoomorfa apollinea: si tramanda infatti che inizialmente il tempio di Apollo a Delfi venne costruito dalle api con cera e piume (di cigno, si presume; altro animale apollineo). Un altro iatromante di cui ci è giunta notizia, Aristeo dalla Tessaglia, il quale veniva detto “figlio di Apollo”, sarebbe stato secondo la leggenda reso immortale dalle Ore, dalle quali venne nutrito unicamente di nettare e ambrosia, e quando era in vita si distinse come un leggendario allevatore di api, arte che egli aveva appreso da Hermes e Chirone.

I nomi di Trofonio e suo fratello (o padre adottivo) Agamede sono riportati tra quelli dei leggendari architetti e costruttori dello strato inferiore del tempio di Apollo delfico e di altri capolavori di architettura sacra. Si parla di livelli sotterranei con sale collegate da cunicoli, in cui i pochi che vi potevano entrare — vale a dire i sacerdoti del dio — venivano visitati da Apollo e da Zeus. Si pensa che tali costruzioni ipogee, egualmente a quelle omologhe che si trovano in Irlanda e sull’isola di Malta, siano state costruite secondo criteri architettonici tali da riecheggiare quelli della matematica e della geometria sacra apollinea così cara ai Pitagorici, permettendo così ai fedeli vere e proprie esperienze mistiche di incontro con gli dèi. (Si noti per inciso che la biografia dello stesso Dedalo, mitico costruttore del labirinto di Cnosso in cui era rinchiuso secondo la tradizione il Minotauro, presenta numerosi tratti sciamanici).

Nel Daimon di Socrate di Plutarco ci è giunta una testimonianza di un giovane uomo di nome Trimarco che trascorse due notti nella grotta di Trofonio in uno stato di coscienza ben oltre quello ordinario. Caduto in trance, la sua anima svettò volando al di sopra di un oceano costellato di arcipelaghi di isole scintillanti, e in vortice di estrema gioia e al tempo stesso di soggezione sentì voci ineffabili spiegargli il mistero della metempsicosi (reincarnazione) e predirgli la sua prossima morte. Nella descrizione dell’esperienza mistica di Trimarco si accenna a una sensazione mai provata prima di pienezza e di «felicità ultraterrena» e si allude a uno scenario ricco di «allucinazioni visive e auditive», di oblio e di completa separazione della mente cosciente da quella animica, libera di lievitare o fluttuare al di sopra del nostro mondo sublunare. In tutto ciò è praticamente impossibile non notare i punti di contatto con i viaggi sciamanici delle più svariate tradizioni, nonché con le “visite al mondo delle fate” della tradizione gaelica, al “mondo delle Muse” di Blake, Shelley e Yeats e ancora — se volessimo spingerci oltre — alle cosiddette esperienze O.B.E., N.D.E., oltre che alle abductions e agli “incontri dimetiltriptaminici” di Terence McKenna.

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2.2. L’Arco e la Lira: la coincidentia oppositorum nella mistica apollinea

Notiamo ad ogni modo che nel caso di Trimarco la catabasi si traduce in un “viaggio superno”, da cui egli è in grado di vedere il mondo dall’alto. In ciò, che ha corrispondenze nella tradizione sciamanica, si può comprendere la tesi di Giorgio Colli della Sapienza Apollinea come coincidentia oppositorum: l’arco e la lira, l’elevazione e la profondità, la “tana” del daimon sotterraneo e la dimora celeste del dio [La nascita della filosofia, pp. 40-42]:

« La doppiezza intrinseca alla natura di Apollo testimonia parallelamente, e in una raffigurazione più avvolgente, una frattura metafisica fra il mondo degli uomini e quello degli dèi. La parola è il tramite: essa viene dall’esaltazione e dalla follia, è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con quella umana, si manifesta nell’udibilità, in una condizione sensibile. Di qui la parola viene proiettata in questo nostro mondo illusorio, portando in tale sfera eterogenea la molteplice azione di Apollo, da un lato come parola oracolare, con la carica di ostilità di una dura predizione, di una conoscenza dell’aspro futuro, e d’altro lato come manifestazione e trasfigurazione gioconda, che si impone alle immagini terrestri e le intesse nella magia dell’arte. Questo proiettarsi della parola di Apollo sul nostro mondo è rappresentato dal mito greco con due simboli, con due attributi del dio: l’arco, a designare la sua azione ostile, e la lira, a designare la sua azione benefica. La sapienza greca è un’esegesi dell’azione ostile di Apollo. E la frattura metafisica che sta alla base del mito greco viene commentata dai sapienti: il nostro mondo è la parvenza di un mondo nascosto, del mondo in cui vivono gli dèi. Eraclito non nomina Apollo, ma si serve dei suoi attributi, l’arco e la lira, per interpretare la natura delle cose. “Dell’arco il nome è la vita, l’opera la morte”. In greco il nome “arco” ha lo stesso suono del nome “vita”. Quindi il simbolo di Apollo è il simbolo della vita. La vita è interpretata come violenza, come strumento di distruzione: l’arco di Apollo produce la morte. E in un altro frammento Eraclito accoppia l’azione ostile del dio alla sua azione benigna: “armonia contrastante come dell’arco e della lira”. […] Dunque le opere dell’arco e della lira, la morte e la bellezza, provengono da uno stesso dio, esprimono un’identica natura divina, simboleggiata da un identico geroglifico, e soltanto nella prospettiva deformante, illusoria del nostro mondo dell’apparenza si presentano come frammentazioni contraddittorie».

In questo gioco di dicotomie infatti Apollo, pur venendo invocato — lui o i suoi “discepoli” iatromanti, che come oracoli ne facevano le veci — all’interno di ipogei sotterranei, era ritenuto al tempo stesso dimorare all’estremo assiale del cosmo, vale a dire al culmine del sacro albero di alloro collocato, accanto alla statua d’oro di Apollo, presso l’Omphalos sotterraneo di Delfi, assurgendo a Albero Cosmico e axis mundi della cosmologia sacra apollinea. Alloro e omphalos qui manifestano la stessa funzione sacrale del Lingam e dello Yoni dei Shivaiti: il secondo servendo a raccogliere, come un grande grembo cosmico (si ricordi la corrispondenza tra la Grotta e il Cosmo), le energie sottili dei questuanti; il primo a “far scendere” il dio dalla sua dimora superna, evocandolo grazie alle energie accumulate durante il rito.

L’alloro d’altronde è latore di un simbolismo “luminoso” — direbbero i Germanisti — in quanto connesso alla gloria, la potenza, la vittoria, l’immortalità. E anche il mito della sua nascita ci riporta ad Apollo: dicono che esso nacque da Dafne, sacerdotessa di Gea, che insidiata da Apollo — che, colpito con una freccia da Eros, si era istantaneamente innamorato della donna — venne trasformata misericordiosamente dalla sua dea in un albero di alloro. In questo mito si può leggere anche un accenno alla “presa di possesso” da parte di Apollo del complesso sacro di Delfi, con l’uccisione del mostro Pitone e quindi l’istituzione dei Giochi Pittici — agoni musicali e poetici i cui vincitori venivano incoronati con l’alloro. Prima di essere considerato un sito sacro ad Apollo, infatti, Delfi era considerata oracolo di Gea, oltre che di altre divinità arcaiche come Poseidone e Kronos, che tornerà più avanti nel nostro discorso.

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Francis Danby, “Funeral Procession”, 1848

2.3. Immortalità dell’anima, metempsicosi e misteri sciamanici

Un altro personaggio mitico talvolta ricordato nell’alveo degli Iatromanti è il semidio dei Geti (una tribù della Tracia, il cui territorio faceva da ponte tra l’ecumene ellenico e le steppe eurasiatiche) Zalmoxis, talvolta dagli autori greci considerato un discepolo o un servo di Pitagora, il che lo riconnette all’alveo sacrale apollineo. Di Zalmoxis si tramanda che insegnò ai suoi discepoli la dottrina dell’immortalità dell’anima: poi discese nel mondo sotterraneo, dove restò tre anni. I suoi fedeli — a cui egli appariva in visione sotto forma di “anima disincarnata” — piansero la sua dipartita, ma al quarto anno egli ritornò in superficie, confermando così il suo insegnamento. Quindi sparì nuovamente per comparire qua e là sotto forma di daimon («spirito immortale»).

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Il tracio Orfeo presenta naturalmente crismi apollinei e sciamanici: con la lira egli incanta gli animali e li attira a sé; delle bestie e degli uccelli conosce il linguaggio, e si dovrà qua ricordare che nella tradizione sciamanica conoscere il “linguaggio degli uccelli” equivale a comprendere i misteri divini. La sua catabasi per riportare in vita Euridice, pur non potendo noi approfondire l’argomento in questa sede, ha caratteri palesemente sciamanici (discesa al “mondo di sotto” in cerca di un’anima “perduta”) nonché platonici (potendo il mito essere posto in relazione con la “discesa” nel mondo sublunare dell’anima “smemorata” — ovvero privata dell’acqua della fonte di Mnemosyne — dopo aver bevuto l’acqua della fonte del Lethe, destinata a reincarnarsi ancora nel ciclo delle ronde che dalla dimensione superiore vengono viste come inferiori.

Lo stesso Reso, che viene chiamato dalle Muse «un amico, un figlio e un fratello di Orfeo», ricevette dalle stesse la profezia che sarebbe stato trasformato in un anthropodaimon («spirito in una forma umana») e adibito a tale funzione occultato in una caverna sotterranea. Egli ricevette anche da sua madre la profezia che sarebbe stato liberato da Persefone in persona, ciò rimandando ai Misteri di Eleusi e all’escatologia dell’anima umana come seme e della generazione umana come semina. Si dice anche che, come accadeva nel Charonion di Acharaca, gli animali si avvicinassero spontaneamente all’altare ipogeo di Reso per esalare su di esso il loro ultimo sospiro. Reso viene ricordato anche come re primordiale della Tracia, appartenente alla tribù degli Edoni, popolazione probabilmente proveniente dalle steppe eurasiatiche che si stanziarono sul monte Pangeo e dei quali si tramandano i «baccanali femminili» chiamati Edonis (che forse presentavano, se l’etimologia non ci inganna, punti di contatto con il culto di Adone e Cibele).

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Arnold Böcklin, “The Isle of the Living, 1888

3. L’Elevazione: ritorno all’Isola degli Immortali


3.1. Gli Immortali e i Poeti

Tutte queste corrispondenze con la tradizione gaelico-celtica dei fairies e del mondo sotterraneo devono farci riflettere. Già Esiodo narrava che gli uomini dell’Età dell’Oro, finito il loro ciclo, divennero daimones immortali, adibiti a vegliare sul destino dei mortali. Ed egualmente quelli dell’Età dell’Argento, che dopo la catastrofe che pose fine al loro mondo divennero daimones ctonî. Ciò, inevitabilmente, ci conduce alla tradizione celtica dei Tuatha dé Danann, popolo di semidèi che, una volta sconfitto dai Milesi, si ritirò nella dimensione sotterranea dei Sidhe, occultandosi agli occhi dei mortali ma continuando a mantenere un occhio vigile sulla loro esistenza.

I Tuatha dé Danann, in altre parole, sarebbero gli “antenati” dei fairies medievali, così come i daimones consultati dagli Iatromanti sarebbero stati, in illo tempore, personaggi mitici divini o semidivini. È interessante anche notare come la dimensione dei Tuatha dé Danann/fairies, nonostante la sua ubicazione per lo più menzionata come sotterranea, si distingua dalla nostra in quanto appare come una dimensione fluida, preformale, prenatale, priva di confini ben definiti — come il «Mondo dell’Immaginazione» di Blake, l’Eternità di Shelley e la «Grande Memoria» di Yeats — che ha nondimeno molti punti di contatto con il mondo delle Idee in cui, nella dottrina platonica, l’anima giunge ogniqualvolta che, dopo aver abbandonato il piano sublunare, ritorna alla sua fonte.

Tutti questi poeti più o meno moderni che a ragion veduta noi definiamo “apollinei” avevano una visione del reale in tutto e per tutto uguale a quella degli antichi Iatromanti e dei filosofi della Grecia arcaica. Essi consideravano la realtà come un «gioco di specchi» e l’esistenza umana alla stregua di «un sogno all’interno di un sogno» — in ciò richiamando la credenza antica della natura “umbratile” dell’essere umano, dimorante in un piano di esistenza la cui effettiva “realtà” è presto smascherata. Nella visione di Shelley solo l’anima che, ridestata al Ricordo dall’azione delle Ninfe o delle Muse, sappia immergersi anche solo per un istante nell’Oceano della «Grande Memoria» si può considerare ri-svegliata, iniziata, ri-nata.

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3.2. Il «pathos del nascosto»

Poco o nulla cambia dal mito della Caverna e dalla dottrina dell’Anamnesi platonica, o dalla Sapienza Apollinea per come ricostruita dal Colli, che mette al centro della spiritualità iatromantica [La nascita della filosofia, pp. 66-9]:

« […] il “pathos” del nascosto, la tendenza cioè a considerare il fondamento ultimo del mondo come qualcosa di celato. Tale è il concetto della divinità in Eraclito […] altri due frammenti dichiarano la superiorità di ciò che è nascosto: “la natura primordiale ama nascondersi” e “l’armonia nascosta è più forte di quella manifesta”. Il secondo tema è la rivendicazione mistica di una preminenza dell’interiorità rispetto all’illusoria corposità del mondo esterno. […] Ma allora l’enigma, esteso a concetto cosmico, è l’espressione del nascosto, del dio. Tutta la molteplicità del mondo, la sua illusionistica corposità, è un intreccio di enigmi, un’apparenza del dio, allo stesso modo che un’intreccio di enigmi sono le parole del sapiente, manifestazioni sensibili che sono l’orma del nascosto». […] Eraclito […] sostiene che il mondo stesso che ci circonda non è altro che un tessuto — illusorio —  di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l’unità, il dio che vi sta dietro. Dice infatti Eraclito: “Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame”»

E ancora [Dopo Nietzsche, p. 41]:

« Per i Greci la vita degli uomini è un’apparenza di quella degli dèi. Il nostro mondo esprime nel tempo, con l’incertezza del futuro, per frammenti inadeguati, sfocati, quello che gli dèi sono in modo totale, senza divenire, sin dal principio. C’è un mondo nascosto, il mondo di cui il nostro è la parvenza, questa è l’intuizione greca: là vivono gli dèi. E Apollo è il simbolo più sottile, variegato, di questa esistenza divina di fronte a quella umana, in rapporto a questa: egli dà agli uomini la divinazione, racconta la loro vita futura, contemplata dal suo occhio di dio. Dunque il futuro è già tutto nel passato, e il tempo riguarda soltanto l’ordine della manifestazione. »

Le corrispondenze tra le dottrine apollinee/platoniche e quelle di Shelley sono egregiamente messe in luce da Yeats nel suo saggio La filosofia della poesia di Shelley (1900). Oltre alla rilevanza centrale del simbolo della caverna sotterranea nella sua opera poetica, Yeats sottolinea la credenza di Shelley sulla sopravvivenza dell’anima di «coloro che si sollevano al di sopra dell’ordinaria natura umana», diventando dopo il decesso «invisibili davanti ai nostri organi imperfetti» e tuttavia continuando a vivere in un mondo di «amore, bellezza e piacere» a loro congeniale. Essi possono essere visti solo da coloro che, tramite un’apposita purificazione, si siano «conformati sino a quel loro più alto stato» [cfr. YEATS, Anima Mundi, p. 85].

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Arnold Böcklin, “The Sacred Wood” II, 1886.

3.3. L’esilio di Saturno, sovrano dell’Età aurea

Questa dottrina esoterica oltre che nella tradizione gaelica dei fairies troverebbe conferma anche nella stessa tradizione mediterranea: secondo i Greci infatti, al termine dell’Età dell’Oro, il Sovrano Primordiale Saturno/Kronos venne esiliato in una dimensione atemporanea su un’isola ai confini del mondo, chiamata Ogigia («la Primordiale») o «Isola dei Beati», dove egli attende in uno stato di koma («vitalità sospesa») fino a quando le stelle torneranno al posto giusto e tornerà l’Età Aurea. Così scrivono Santillana e Dechend [Il mulino di Amleto, p. 180]:

« […] il figlio Zeus detronizzò [Kronos] gettandolo giù dal “carro” ed esiliò in “catene” su un’isola beata ove dimora addormentato perché, essendo immortale, non può morire [ma vive] in una specie di vita-nella-morte, avvolto nei lini funerari fino a quando, a detta di alcuni, non verrà il tempo destinato al suo risveglio ed egli allora rinascerà a noi come bambino. »

Questa isola (l’etimologia del termine ci suggerisce il suo isolamento dal flusso del divenire) è anche l’«isola delle Esperidi», che sono le mele dorate di Apollo, e l’Isola Bianca, Leukè, vale a dire Iperborea, ed è anche l’Avalon celtica, derivando tale denominazione da avalo («mela»), a sua volta connessa etimologicamente al nume apollineo. Essa è il mondo segreto degli Immortali, raggiungibile solo “in spirito”, mediante la coincidentia oppositorum apollinea: «Né per mare né per terra», afferma Pindaro, «potrai trovare la strada che conduce agli Iperborei» — e difatti unicamente in siffatto modo ci giungevano anticamente gli Iatromanti.

Questi Immortali sono, secondo Esiodo, «i daimones dell’Età dell’Oro, custodi dei mortali», che hanno subito al fianco di Kronos, loro sovrano primordiale, la “Caduta” — in ciò potendo noi intravedere delle corrispondenze con il mito veterotestamentario della “Caduta” degli Angeli Ribelli e di Lucifero, personaggio mitico che peraltro presenta non poche caratteristiche in comune con Apollo e con i suoi omologhi celtici Lugh e Belenos. Ad essi si aggiungeranno, similmente a quanto accade nel Valhalla nordico di Odinn, gli eroi delle epoche successive, destinati a raggiungere i demoni aurei in questa dimensione di atemporalità e immortalità, rimanendo sempre giovani e nutrendosi esclusivamente di nettare, ambrosia e miele (ritorna qui il simbolismo delle api e del miele, connesso cromaticamente all’oro). Questi «beati rapiti» sarebbero, secondo Esiodo, «la razza divina degli Heroi, più giusta e più buona»; per questi loro meriti essi «abitano con animo lieto e senza affanno nelle isole dei Beati, presso l’Okeanos dai grandi vortici felici».

Degli stessi Tuatha dé Danann, d’altronde, si diceva che provenissero da un’isola posta all’estremo Occidente e ai confini settentrionali del mondo, a cui sarebbero ritornati dopo la “cacciata” da parte dei Milesi — pur rimanendo sovrani del mondo sotterraneo dell’Irlanda. Inutile dire che, allo stesso modo dei vari Iatromanti e Pitagorici apollinei, anche i Druidi e i Bardi dell’antica Irlanda attribuivano la loro sapienza ai viaggi “in spirito” da loro compiuti presso le dimore ultraterrene dei Tuatha dé Danann. L’isola ai confini del mondo dove essi dimoravano, in tutto e per tutto omologa alle varie Isole degli Immortali della tradizione ellenica, è chiamata nella tradizione irlandese Tir na mBeo (la «Terra dei Viventi») o Tir na hOge (la «Terra della Gioventù»).

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Arnold Böcklin, “The Isle of the Dead”, 1883

3.4. L’uscita dal tempo e il ritorno dell’Età dell’Oro

Vediamo dunque come nelle tradizioni europee arcaiche, sia nell’ecumene ellenico che in quello celtico, noi ritroviamo nella visione sacrale un tentativo di integrazione del mondo superno (il mondo delle Idee platoniche, l’Isola Bianca) con quello sotterraneo (“esplorato” in seguito alla catabasi). Il mondo dei mortali, ben lungi dal poter essere definito realmente “reale”, sta in mezzo ad essi, venendo plasmato dalle loro influenze sottili, creando il “gioco di specchi” e di “marionette” che ritroviamo nel Mito platonico della Caverna, nelle analisi di Giorgio Colli e nella lirica dei grandi poeti “apollinei” degli ultimi secoli.

Gli Immortali che dimorano nella dimensione atemporale si presentano al tempo stesso come Beati cui è concesso uno stato (semi)divino sia come esiliati, sovente in una dimensione sotterranea — ovvero invisibile ai nostri sensi ordinari: Fairyland, Ogigia, il Tartaro —, nella quale sono destinati a trascorrere la durata dell’Eone sino alla sua consumazione definitiva. Allora, il Dio Aureo, tornerà a regnare, mettendo fine al flusso del divenire: Kronos ritorna Aion, l’Eternità Infinita. Così scrive, per esempio, Alfredo Cattabiani [Calendario, p. 24]:

« Vi fu un tempo in cui non esisteva la precessione degli equinozi? Verrà un tempo in cui non esisterà più? Secondo molte tradizioni l’Età dell’Oro, detta nella tradizione romana ‘Saturnia Regna’, il regno di Saturno, era appunto il periodo precedente la precessione quando gli uomini non conoscevano guerre né sacrifici cruenti né disuguaglianza. Poi Saturno scomparve su un’Isola Beata dove risiede “addormentato” fino a quando non verrà il tempo destinato al suo risveglio, quando rinascerà a noi come bambino restaurando l’Età dell’Oro, l’Età senza tempo. »

E Nuccio D’Anna [Il gioco cosmico, pp. 26-7]:

« Il regno di Kronos […] è quello dell’illud tempus aureo, il tempo dei primordi che esprime la pienezza della condizione degli inizi, la sua perfezione. Kronos è il re per eccellenza, l’”antico sovrano” che ancora secondo Pausania riceveva un sacrificio sul monte Kronos a Olimpia, l’omphalos della spiritualità ellenica, il “centro del mondo”. Qui, all’equinozio di primavera, ogni anno i Basilâi (i Re) ripetevano un rituale che intendeva riattualizzare il regno di Kronos, ossia la condizione spirituale degli inizi che “riportava” così il mondo ellenico all’illud tempus primordiale. »

La tragedia dell’esilio di Aion/Kronos nelle ronde del tempo riguarda, da un punto di vista più esoterico, ogni singola entità cosciente dell’intero cosmo: dietro alle antropomorfizzazioni del mito si cela il mistero terrificante della «caduta dell’Essere» nel mondo del divenire o, per la tradizione indù, della Māyā («illusione causata dal divenire»). Il radicale *Sat in sanscrito sta per «pura essenza», «verità», da cui anche il nome dell’era aurea nella tradizione indiana: Satya-Yuga. Il suo termine coincide con la fine di un mondo paradisiaco ed iperboreo, e con la scomparsa o meglio l’occultamento del Centro/Polo primordiale.

«Il mondo», scrive il Colli, «è una violenza deviata, trasfigurata, che appare come grazia, arte, armonia, evanescente tessuto dell’astrazione» [Dopo Nietzsche, p. 44]. Ugualmente nel mito greco-romano, in seguito alla detronizzazione da parte di Giove, dio demiurgico reggente il cosmo dall’età dell’argento in poi, tale «Terra degli Dei» in cui durante l’età aurea e primordiale l’uomo viveva in loro compagnia sotto l’egida di Saturno, con la nuova configurazione del cosmo governata da Zeus si occulta improvvisamente, diventando anzi quasi una «Terra dei Morti», che trova rappresentazioni immaginali sublimi nell’animo di pittori della sensibilità di Arnold Böcklin.

Ma Saturno/Aion, nel significato di dio atemporale dell’Età dell’Oro — vale a dire di stato dell’Essere primordiale, indifferente alle “gabbie” dello spaziotempo e dei dualismi — è anche lo stesso Apollo: colui che protegge le mele d’oro sull’isola delle Esperidi, che è anche l’Isola Bianca, sotto le sembianze del drago Ladone (omologo di Pitone nel mito di fondazione dell’oracolo apollineo delfico). La sua uccisione narrata nel ciclo eracleo termina con la sua asterizzazione: egli diventa la costellazione del Drago, vale a dire la Stella Polare, il culmine assiale dell’axis mundi, dell’albero di alloro alla cui sommità risiede Apollo, o dell’Yggradisl oltre cui sta Asgard, sede di Odinn e degli Æsir nordici.

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Greek - The Apollo of Piombino detail of the head of the statue foun - (MeisterDrucke-355998)


4. Il lato luciferino di Apollo: «colui che distrugge totalmente»

Il lato “luciferino” o “saturnino” di Apollo emerge splendidamente nell’opera di Marcel Detienne Apollo con il coltello in mano, dove si racconta come Apollo si ribellò a Zeus reo di aver comandato ai Ciclopi l’uccisione di suo figlio Asclepio. Zeus si accingeva a punire Apollo facendolo precipitare, esattamente come Kronos, nel Tartaro ma in seguito alle preghiere di Latona accettò di spedire il ribelle in esilio: «un anno, un “Grande Anno” di schiavitù alle dipendenze di un mortale, a prendersi cura delle sue greggi». Da questo mito, in altre parole, si evince miticamente la funzione oracolare di Apollo, condannato dal dio demiurgico a prendersi cura del gregge dei mortali per un «Grande Anno», vale a dire per un intero ciclo cosmico. Il ritratto che tratteggia Detienne ne fa emergere le corrispondenze con Saturno/Kronos, ma soprattutto, sorprendentemente, con Prometeo [cfr. KERENYI, “Prometeo: il mitologia greco dell’esistenza umana”, in Miti e misteri] e con Lucifero [p. 258]:

« Apollo decaduto; il dio dell’orgoglio illimitato, che vuole sempre essere il primo, condannato a condurre l’esistenza di un povero diavolo, ridotto in schiavitù […] l’immortale che ha mentito resta a giacere “senza respiro e senza parola su letto ben steso”, vittima di un torpore, kôma, crudele […] Esilio radicale, in cui l’immortalità sembra sospesa, ora che è divenuto lo schiavo, il lavoratore a giornata sottomesso ai capricci di un semplice mortale, il dio, escluso dall’Olimpo e dal “sempre”, sperimenta la vita dell’effimero, dell’essere assoggettato al “giorno”, al cambiamento quotidiano, a ciò che, ogni giorno, gli capita. »


4.1. Prospettive escatologiche e conclusioni

In questa prospettiva escatologica ci può venire incontro anche il Libro della Rivelazione giovannea (peraltro scritta dopo un periodo passato in isolamento in una cavità sotterranea nell’isola di Samo, e dunque in incubatio): in Apocalisse 9:11 si legge infatti: «E avevano per re sopra di loro l’angelo dell’abisso, il cui nome in ebraico è Abaddon e in greco Apollion». I greci facevano derivare il nome Apollo dal verbo απολλυμι, letteralmente «distruggere», da cui viene ricavato il significato di «distruttore», «sterminatore»: Apollo, come ci ricordano anche Detienne e Colli, è anche questo. Sottolinea infatti quest’ultimo ne La nascita della filosofia [p. 18]:

« L’etimologia stessa di Apollo, secondo i Greci, suggerisce il significato di “colui che distrugge totalmente”. In questa figura il dio viene presentato all’inizio dell’Iliade, dove le sue frecce portano la malattia e la morte nel campo degli Achei. Non una morte immediata, diretta, ma una morte attraverso la malattia. L’attributo del dio, l’arco, arma asiatica, allude a un’azione indiretta, mediata, differita. […] E difatti, fra gli epiteti di Apollo, troviamo quello di “colui che colpisce da lontano” e di “colui che agisce da lontano”. »

Ma nella mentalità arcaica dei Greci come dei Celti e di tante altre popolazioni ancora non vi era in tale funzione escatologica nulla di satanico: la conclusione dei tempi (o meglio del tempo, vale a dire del flusso del divenire) portata da Apollo, la conflagrazione universale col fuoco (ekpýrosis), condurrà alfine la manifestazione cosmica alla sua fonte originaria, che è la Fonte dell’Essere Puro (il Sat vedico): Saturno tornerà Re, i Beati saranno liberati dal loro esilio dorato.

In ciò noi possiamo intravedere delle corrispondenze con le dottrine escatologiche delle più disparate tradizioni sacre: l’Apollo “distruttore” è in questo senso omologo al Kalki degli Induisti, l’ultimo Avatar di Visnhu che verrà a porre fine al Kulpa impugnando una spada su un cavallo bianco, o al Buddha Maitreya degli Orientali. Anche i Norreni, da parte loro, tramandavano che la fine dei tempi (Ragnarøkkr, letteralmente «crepuscolo degli dèi») sarebbe avvenuta col fuoco, portato da Surtr (omologo, anche etimologicamente, del Saturno Aureo oltre che funzionalmente dell’Apollo Distruttore).

Surtr è infatti, nella tradizione nordica, la scintilla di fuoco primordiale dell’Essere che, una volta intrappolata dall’avanzare del ghiaccio cosmico (vale a dire dal flusso del divenire che, per mezzo della creazione demiurgica, congela le forme ed in esse lo spirito luciferino) attende il rivolgimento delle ère per potersi liberare e ritornare al suo stato originario. Si noti d’altra parte che nel Gylfaginning Surtr è rappresentato in tutto e per tutto speculare a Saturno/Kronos esiliato sull’Isola degli Immortali, nonché agli Avatara orientali che giungeranno infine, quando le stelle torneranno al posto giusto, a porre fine alla manifestazione cosmica:

« Ma prima d’ogni cosa vi fu quel mondo, a mezzogiorno, che si chiama Muspell; esso è chiaro e sereno, la regione è fiammeggiante e ardente, impervia a chi è straniero e non vi è nato. Colui che ha nome Surtr là risiede, al confine di quella terra e ne è il custode; brandisce una spada fiammeggiante e alla fine dei tempi verrà e porterà rovina e vincerà tutti gli dèi e brucerà col suo fuoco tutto il mondo. »

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William Blake, “Satan in His Original Glory”, 1805

Bibliografia:

CATTABIANI, Alfredo: Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno. Rusconi, Milano 1988

COLLI, Giorgio: Apollineo e dionisiaco. Adelphi, Milano 2010

COLLI, Giorgio: La nascita della filosofia. Adelphi, Milano 1975

COLLI, Giorgio: La sapienza greca. Adelphi, Milano 1977

CULIANU, Ioan Petru: I viaggi dell’anima. Mondadori, Milano 1991

D’ANNA, Nuccio: Il gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia. Mediterranee, Roma 2006

DETIENNE, Marcel: Apollo con il coltello in mano. Adelphi, Milano 2002

KERÉNYI, Károli: Miti e misteri. Einaudi, Milano 1950

MACULOTTI, Marco: Apollo/Kronos in esilio: Ogigia, il Drago, la “caduta”. AXISmundi, aprile 2017

DE SANTILLANA Giorgio & VON DECHEND Hertha: Il mulino di Amleto. Adelphi, Milano 1983

USTINOVA, Yulia: Cave Experiences and Ancient Greek Oracles, academia.edu

USTINOVA, Yulia: Either a Daimon, or a Hero, or Perhaps a God: Mythical Residents of Subterranean Chambers, academia.edu

USTINOVA, Yulia: Truth Lies at the Bottom of a Cave: Apollo Pholeuterios, the Pholarchs of the Eleats, and Subterranean Oracles, academia.edu

YEATS, William Butler: Anima Mundi. Guanda, Parma 1988


21 commenti su “Apollo il Distruttore: «coincidentia oppositorum» nella mistica e nell’escatologia iperborea

  1. Bellissimo articolo! Molto è stato tramandato grazie alle favole e le canzoni popolari delle antiche terre della Tracia. In Bulgaria vi sono ancora le leggende delle samodivi (ninfe/muse) e la favola della mela d’oro e del drago.

    1. Grazie! Vero comunque, un po’ in tutta l’area dei Balcani settentrionali e dell’Europa dell’Est. Mi vengono in mente gli studi di Eliade pubblicati nella raccolta di saggi “Da Zalmoxis a Gengis Khan”. Un saluto

      MM

    2. Caro Yordan, sono ricapitato su questo articolo e ho riletto il tuo commento.
      Ti farà piacere sapere che, nella redazione del mio nuovo saggio L’Angelo dell’Abisso (il primo paperback pubblicato con la nuova casa editrice Axis Mundi Edizioni) ho fatto largo uso delle fiabe di carattere “apollineo” romene e bulgare, nonché degli antichi miti e tradizioni traci. È stata davvero una felice scoperta per me, è un filone che va praticamente di pari passo con quello ellenico iperboreo-apollineo. Mi è stato utilissimo, come fonte, “La Dacia Iperborea” di Geticus, che sicuramente conoscerai.

      Un saluto,
      MM

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