La Caverna platonica, le sue influenze orfiche e pitagoriche & la Māyā delle Upaniṣad

In questa esposizione tenteremo di mettere a confronto le caratteristiche principali dell’immagine della Caverna platonica contenuta nel VII libro della Repubblica con quelle della Māyā delle Upaniṣad. Le credenze comuni sono evidenti e coinvolgono, su tutti, i vincoli che determinano lo stato di prigionia dell’uomo e la possibilità di riscatto attraverso la purificazione dalle forme mutevoli.

di Claudio Capo

Copertina: Megan Kayleigh Sullivan, Sinbad’s cave (concept art for the count of montecristo)

In questa breve esposizione si tenterà di mettere a confronto le caratteristiche principali dell’immagine della caverna platonica contenuta nel VII libro della Repubblica con quelle della māyā dei testi delle Upaniṣad alla luce dell’ermeneutica montante dal rapporto corpo-anima che mette in evidenza un contenuto ontologico, epistemologico e metafisico fortemente somigliante.  La presenza di dottrine non scritte (agrapha dogmata) che si possono scorgere all’interno dei dialoghi platonici svela un importante debito maturato nei confronti dell’insegnamento pitagorico. Platone, sotto alcuni aspetti, riprende il pitagorismo vestendolo in modo nuovo, e così alcune delle strutture di pensiero pitagoriche vengono incubate nel suo sistema filosofico. 

L’influenza pitagorica è determinante nello sviluppo dell’immagine della caverna, le tendenze di carattere mistico-ascetiche indicate dal filosofo ateniese, nel processo di risalita dalle profondità della caverna (anabasis), sembrano confermarlo. Pur essendo presente nei dialoghi platonici, la tradizione mistica è decisamente estranea al pensiero greco delle origini. Infatti, anche per questo, la dottrina di Platone insieme a quella di Pitagora rompe con la tradizione razionalistica e umanistica dei filosofi naturalisti che, prima di loro, si era concentrata in buona parte su contenuti di carattere fisico. L’aspirazione mistica, intesa come quell’esperienza che spinge l’individuo verso la conversione all’intellegibile, sembra essere un carattere peculiare della natura del filosofo descritto da Platone.

Per quanto riguarda le Upaniṣad, la spiccata propensione a problematizzare questioni di natura filosofica, non adombra il ruolo che gioca la mistica nel processo di “conversione dell’anima”: così come nel platonismo “pitagorizzato” le due disposizioni – quella filosofica e quella mistica – coesistono e si implicano vicendevolmente. Tuttavia è la mistica a fungere da cartina tornasole per liberarsi dall’inganno del mondo fenomenico e per sciogliere definitivamente il legame con la māyā. Con questo termine generalmente viene indicato il mondo delle apparenze e loro illusorietà. Le credenze comuni, tra questa e l’immagine della caverna, sono evidenti e coinvolgono – su tutti – i vincoli che determinano lo stato di prigionia dell’uomo e la possibilità di riscatto attraverso la purificazione dalle forme mutevoli.

L’immagine della caverna platonica sembra essere sostanzialmente sovrapponibile alla dottrina upaniṣadica della māyā. Nel corso della trattazione si procederà mettendo in rilievo i contenuti affini presenti nelle due rappresentazioni prese in analisi. Che si accetti o meno l’ipotesi di una specularità tra il pensiero indiano delle Upaniṣad e quello platonico “pitagorizzato”, non ci si può esimere dal rilevare un importante numero di convergenze. Convergenze che sono così strette da autorizzarci a considerarle espressioni di una stessa concezione del mondo tanto da poterci servire di un sistema per interpretare l’altro. 


La Caverna platonica e le sue influenze pitagoriche e orfiche

L’immagine della caverna è senza dubbio l’allegoria che più di tutte determina il pensiero platonico nella sfera onto-epistemologica. Per Heidegger comprendere il mito della caverna significa comprendere la storia dell’essenza dell’uomo [1]; ma per comprendere appieno l’immagine della caverna bisogna metterla in relazione alle immagini del Sole e della linea contenute nel VI libro della Repubblica. Nella teoria della linea viene sancita l’enorme differenza che intercorre tra il mondo dell’opinione (doxa) e il mondo della verità (episteme); mentre l’immagine del Sole andrà a rappresentare l’idea del Bene, il principio verso il quale tutto tende e tutto trascende, non esprimibile pienamente neanche dal nous. Platone, nell’immagine della caverna, trasla il senso di questi concetti alla dimensione allegorica e invita Glaucone a un vero e proprio esperimento mentale.

Nella caverna prende forma in maniera evidente uno dei punti cruciali della filosofia che caratterizza il pensiero platonico, il verticalismo, conseguenza dall’esistenza di due mondi: il mondo delle Idee e il mondo delle cose. Il primo è il mondo degli archetipi delle idee perfette e dei valori stabili e immutabili, di cui la manifestazione materiale è una copia. Il mondo sotterraneo è presentato come immagine evanescente e imperfetta di quello delle Idee che funge da paradigma o modello metafisico delle cose. Noi viviamo in un mondo che è la copia incompleta e insufficiente del mondo iperuranico descritto nel Fedro [2]. Tuttavia, suggerisce Platone, con la conoscenza si può risalire dal mondo delle apparenze al mondo della verità. Da questo punto di vista la costruzione dell’immagine della caverna intende chiarire le caratteristiche dei due mondi e di segnare il processo di ascesi dell’anima verso l’intellegibile.

Lo scenario all’interno della caverna descrive uomini rinchiusi in un’abitazione sotterranea che si trovano, fin da fanciulli, incatenati in maniera tale da precludere loro ogni movimento e costringerli a guardare solamente davanti a sé. Dietro un muricciolo, posto alle spalle e più in alto rispetto agli individui, vi è il fuoco attraverso il quale vengono proiettate, sul fondo della caverna, le ombre delle sagome dei simulacri che determinano gli oggetti di conoscenza dello scenario. Socrate afferma, in risposta a Glaucone, che gli uomini in catene all’interno dell’antro sono «simili a noi» [3]. Questa affermazione è decisiva per tracciare un parallelo tra la condizione di prigionia degli abitanti della caverna e la condizione umana determinata dalla mancanza di educazione (apaideusia). Il racconto continua esponendo la progressiva salita verso la luce dei prigionieri e la visione delle realtà intellegibili. L’improvvisa liberazione (exaiphnes) del prigioniero dalla propria condizione originaria è un presupposto necessario ma tuttavia non sufficiente all’atto di liberazione finale, questo, infatti, va ottenuto mediante il graduale adattamento ad un mondo – quello della superficie – totalmente inedito.

« E dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque e, da ultimo, le cose stesse. Dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole. »

[4]

Fuor di metafora si può affermare che la liberazione del prigioniero rappresenta l’anima che si svincola dal mondo delle opinioni e si fissa, mediante la conoscenza della realtà noumenica, nel mondo oggettivo della verità. L’uomo è prigioniero dell’opinione perché crede passivamente alle immagini delle cose sensibili, vale a dire, assume a oggetto di conoscenza le ombre delle forme proiettate sulla parete della caverna. Tuttavia la condizione dei prigionieri incatenati nel fondo della caverna è una condizione di “quasi” naturalità (para physin) e non rappresenta in nessun modo la condizione di naturalezza dell’uomo che, secondo l’interpretazione di Vegetti è data dal senso prescrittivo e normativo che questa assume: vale a dire nei termini di un riferimento a come le cose dovrebbero essere e di fatto non sono dal momento che la condizione naturale degli uomini è quella in cui essi raggiungono il massimo livello di perfettibilità [5].

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Anche qualora il prigioniero, liberatosi, osservasse direttamente i burattini fatti passare dietro il muricciolo sarebbe legato alla provvisorietà a causa del moto in divenire di queste. Questo vedrebbe sì oggetti più veri perché dotati di più essere, ma sarebbe comunque condizionato da enti che hanno una quota ontologica non sufficiente a determinare la vera conoscenza, quella epistemologica. Al momento della sua fuoriuscita dalla caverna l’uomo passa a intravedere direttamente oggetti e uomini nel riflesso dell’acqua ampliando, di conseguenza, la propria percezione del reale.

Ma è solo quando lo sguardo dell’anima si volge verso la luce dei corpi celesti e si identifica nel nous, approdando definitivamente nel mondo della pura intellezione, che si giunge alla contemplazione dell’Idea del Bene, qui appare compiuto il processo di purificazione dell’anima. L’immagine si conclude descrivendo il processo di ridiscesa (katabasis) del liberato al fine di esortare i prigionieri a compiere la sua stessa conversione alla luce. Le cose che noi cogliamo con i sensi sono forme fisiche, dati empirici, quelle che invece cogliamo con l’occhio dell’anima sono le forme intellegibili, le pure essenze. L’opera di liberazione dell’anima consiste, dunque, nel confluire nel mondo delle Idee e nell’individuarsi nel reale. 

Il richiamo alle pratiche di purificazione, la credenza dell’immortalità dell’anima e la necessità di condurre una vita di purezza per svincolarsi dalla falsa opinione delle cose: questi sono solo alcuni dei caratteri presenti tanto nella tradizione orfico-pitagorica quanto nella filosofia platonica – in particolar modo nei dialoghi della maturità del filosofo come il Fedone e la Repubblica. Le dottrine orfiche che vengono accettate e sviluppate dal pensiero platonico sono quelle della metempsicosi, dell’immortalità e della natura divina dell’anima, dei vincoli che legano l’anima al corpo e la possibilità di riscatto attraverso la purificazione. Un semplice accenno ai misteri orfici ed eleusini ci aiuterà a comprendere meglio il retroterra pitagorico che condiziona l’elaborazione dell’immagine della caverna e a delineare il profilo della “mistica platonica”. Sebbene ci siano delle differenze tra i culti orfici e le dottrine pitagoriche, in questa sede, verranno presi in considerazione unicamente gli “spazi condivisi”. 

C’è una stretta corrispondenza tra l’orfismo e l’insegnamento di Pitagora, tanto che egli considerava Orfeo il primo dei suoi precettori. Con il termine “mistica”, nei misteri iniziatici eleusini, si delinea l’esperienza per mezzo della quale l’anima raggiunge il suo massimo grado di perfezione. Questa esperienza si ottiene al termine di un progressivo distacco dalla conoscenza sensibile – nei casi più radicali il distacco coinvolge perfino la conoscenza intelligibile – fino alla perdita del dualismo tra soggetto sperimentante e oggetto sperimentato – va ricordato come per Platone il carattere fondamentale dell’Idea sia quello dell’unità e di come la natura del filosofo si manifesta proprio nel saper cogliere e possedere tale unità. Giacché non si può dare pensiero se non “pensiero su” o “pensiero di” qualcosa, una tale esperienza suggerisce una forma di coscienza anteriore e in un certo senso altra rispetto a quella ordinaria. Ci dice Kerényi:

« Non sempre e non subito le esperienze dell’uomo producono pensieri. Da esse possono sorgere immaginari, e anche parole, che non necessariamente sono state precedute da pensieri. L’uomo già rielaborava le proprie esperienze prima ancora di essere un pensatore. Nel linguaggio si rispecchiano nozioni prefilosofiche e rielaborazioni dell’esperienza che vengono poi riprese e sviluppate dal pensiero. »

[6]

Dioniso è il dio del culto; il cardine della religione orfica è la fede dell’intrinseca immortalità dell’anima. La liberazione di ciò che è divino dagli elementi non divini è l’obiettivo dei culti orfici. Nel fenomeno dell’estasi l’anima “esce dal corpo” e rivela la sua natura allo stesso modo in cui il prigioniero si libera dalle catene ed esce dalla caverna. 

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Gli elementi sopra descritti rappresentato il nucleo pulsante di tutto il pensiero pitagorico; è proprio grazie all’influenza di questo che Platone sembra essere entrato in possesso di tali dottrine. Per Platone Pitagora è un esempio di maestro che esercitò una forte influenza sulla vita dei suoi discepoli [7]. Penetrando a fondo nel pensiero pitagorico appare chiaro come l’universo non è visto soltanto come un ordine basato sul rispetto delle debite proporzioni; questo è caratterizzato da una “armonia”: è un essere in accordo con tutte le cose. Anche l’anima umana deve cercar di imitare l’ordine dell’universo.

Più volte Pitagora, così come Platone, metterà in relazione la dimensione microcosmica con quella macrocosmica dell’esistenza. Per il saggio di Samo così come l’universo tende costantemente all’armonia – grado massimo di perfettibilità, così il fine ultimo dell’uomo è la contemplazione pura, il perfezionamento dell’umana natura. Pitagora viaggiò molto, studiando le dottrine degli egiziani, degli assiri e dei brahmani. Proprio da questi ultimi sembra aver appreso le dottrine con le quali tenterà di “risvegliare” i propri discepoli. 

Lorenzo Carlo Perin, La caverna di Platone, 2020

Un confronto tra la Caverna platonica e la Māyā delle Upaniṣad

Come ci suggerisce Georges Dumézil nell’elaborazione della sua teoria sulla struttura tripartita dei popoli indoeuropei, vi è una stretta somiglianza tra la lingua, la mitologia, le tradizioni e le istituzioni sociali degli indiani e dei greci [8]. Alla luce di ciò non è del tutto fuori luogo ritenere che la religione olimpica e le credenze vediche abbiano avuto un’origine comune e che, al momento del loro contatto, siano riemerse numerose simmetrie. Le Upaniṣad contengono le principali coordinate di tutto il pensiero indiano e al loro interno sono rinvenibili alcuni degli stessi principi che troviamo esposti in forma allegorica nell’immagine della caverna. Ci dicono i testi indiani che la saggezza suprema sta nel conoscere il Sé che, al pari dell’intelletto platonico, si ripiega su se stesso per isolarsi dal mondo fenomenico e contemplare il mondo dell’Assoluto (brahman).

La realtà, tanto per Platone quanto per le Upaniṣad, non è conoscenza di qualcosa, ma conoscenza della cosa in sé. L’atto di conoscenza ordinario presuppone che vi sia un soggetto conoscitore che sovrappone la propria coscienza all’oggetto conosciuto, il conoscitore e il conosciuto sono separati l’un l’altro e danno vita alla molteplicità. Proprio da questa viene fatto procedere il mondo materiale che, al pari di Platone, viene visto come “prigione dell’anima”. Va ribadito, per non cadere in una fuorviante interpretazione manichea, che il dualismo corpo-anima tanto per le Upaniṣad quanto per Platone è in realtà apparente: tutte le polarità, non avendo come dominio l’Uno, rappresentano un grado parziale di conoscenza. La realtà è data dal riconoscimento dell’unione indistinta di tutti gli elementi che, in maniera erronea, osserviamo come separati l’un l’altro. 

Così come nella filosofica platonica, la tradizione upaniṣadica sostiene che, per comprendere la realtà, non sia sufficiente un esercizio strumentale della ragione: a esso deve seguire un processo di purificazione interiore – Platone farà riferimento alla condizione di educazione, paideia – che conduca alla liberazione (mokṣa). Come abbiamo precedentemente visto l’immagine della caverna, alla luce delle dottrine pitagoriche e sotto l’influsso della religione orfica, assume un carattere mistico ben preciso. Ogni conoscenza mistica comprende l’esperienza della non-realtà di ogni cosa diversa dall’Uno. L’individuo è già in possesso della verità e la funzione del maestro – al pari di quella socratica – è principalmente maieutica: aiutare a portare la verità alla luce della coscienza. 

Le analogie tra lo scenario della caverna descritto da Platone e gli antichi testi indiani sono molteplici. Qui prenderemo in esame principalmente il simbolismo del Sole che viene proposto da Platone per esporre aspetti dottrinari di importanza capitale e che, con la stessa funzione, è ampiamente presente nelle Upaniṣad: «Il Sole è la verità» [9]; e ancora «Brahman è il Sole; il Sole è Brahman» [10]. Al pari del platonismo, dunque, la verità è accostata al Sole; e questo, a sua volta, è identificato con l’Assoluto. Il nesso tra purificazione e conoscenza qualifica tanto l’opera platonica quanto la tradizione upaniṣadica: la conoscenza (jñana) si oppone alla concezione dell’ignoranza metafisica (avidyā) che preclude l’accesso alla verità: «In un buio spaventevole entrano quanti vivono nell’ignoranza» [11]; e ancora «Solo con l’ascesi si raggiunge il Brahman» [12]. La purificazione dal mondo sensibile e il passaggio dell’anima verso quello intelligibile mediante un percorso di ascesi è concettualmente identico all’itinerario proposto da Platone nella caverna.

Un’altra importante analogia tra il pensiero platonico esposto nell’immagine della caverna e quello upaniṣadica verte sulla distinzione di diversi gradi del conoscere: fissando come criterio di gerarchizzazione il loro rapporto con la conoscenza suprema – il Bene platonico e l’Assoluto upaniṣadico, si determina la struttura verticale della conoscenza:

« Due sono i tipi di conoscenza che un uomo può acquisire. Uno è il più alto, l’altro il più basso. Coloro che conoscono il Brahman ci hanno trasmesso questa tradizione. » [13]

« È attraverso la conoscenza superiore che raggiungiamo l’informale. La scienza divina ci svela la conoscenza di quella realtà che trascende i sensi, rivela il principio, la causa incausata di tutto. » [14]

Si tenga presente come anche per Platone il Bene implica la realtà assoluta, la conoscenza suprema, l’andare oltre il mondo del sensibile e delle forme e la liberazione dell’anima: «all’estremo confine del conoscibile v’è l’idea del buono e la si vede a stento, ma una volta vistala occorre concludere che essa è davvero sempre la causa di tutto ciò che vi è di retto e di bello, avendo generato nel luogo del visibile la luce e il suo signore, in quello del noetico essendo essa stessa signora e dispensatrice di verità e di pensiero» [15]. Le Upaniṣad, così come il platonismo, propongono una distinzione tra intelletto che contempla tranquillamente l’intellegibile e l’intelletto che, afferrato dal molteplice, si determina in base al dato empirico. 

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Inoltre va notato come l’immagine platonica della caverna richiami fortemente la dottrina upaniṣadica della māyā. Nei Veda con tale termine si indica quella forza da cui ha origine il mondo materiale. Tuttavia, con la riflessione filosofica posta dalle Upaniṣad, prende piede l’intuizione che la realtà fenomenica sia per sua natura differenziata e parziale ma che, in qualche modo, sia tale solo in funzione di un’altra realtà, quella Assoluta. Così come la caverna produce le ombre che vengono scambiate come oggetti reali, così la māyā separa gli esseri individuali dalla conoscenza trascendentale impedendo loro l’atto di liberazione. Similmente all’immagine del VII libro della Repubblica platonica, l’uomo è presentato come un individuo il cui intelletto, contemplando il mondo con “l’occhio dei sensi”, si determina nell’illusione e ne risulta prigioniero. Quando questo inizia ad osservare il mondo con l’occhio della mente (l’intelletto), si libera della condizione di ignoranza metafisica che condiziona la sua percezione del reale e la sua anima si risveglia dal letargo conoscitivo e può contemplare finalmente l’essenza ultima della realtà.


Conclusioni

In questa breve trattazione si è cercato di mettere in luce l’aspetto mistico che opera dietro le quinte dell’immagine della caverna e si è tentato di far chiarezza sulle influenze orfico-pitagoriche che agiscono all’interno della filosofia platonica. Larga parte della riflessione platonica è debitrice della religione orfica e dei culti eleusini; questi rappresentano l’humus spirituale sul quale la filosofia platonica ha potuto compiere la sua “pitagorizzazione”. Questa presenta, a sua volta, delle forti somiglianze con il pensiero indiano delle Upaniṣad. L’espressione di queste strette analogie sono tali da far ritenere ozioso un atteggiamento che escluda la possibilità di una loro intima connessione. Si validi o meno l’ipotesi di un’influenza diretta del pensiero indiano su quello greco, chi si dedica allo studio dell’orfismo e del pitagorismo non può esimersi dal rilevare le somiglianze esistenti tra tali scuole e il pensiero upaniṣadico; somiglianze che – come premesso – sono così strette da autorizzarci a considerarle espressioni di una stessa concezione di vita tanto da poterci servire di un sistema per interpretare l’altro. 

L’immagine della caverna e la māyā delle Upaniṣad sembrano essere sovrapponibili. La differenza di “linguaggio” è da rintracciare, più che sul piano concettuale e filosofico, sul piano storico. La diversa articolazione di una stessa dottrina è determinata dalla presenza di contesti culturali e uditori tanto diversi che sarebbe stato impossibile esprimere gli stessi contenuti in maniera identica. Il cammino per comprendere al meglio le dottrine celate all’interno del contenuto esoterico di queste due immagini è ancora lungo, gli studi essendo ancora nella loro fase embrionale.

Gli evidenti limiti storici e culturali scoraggiano la messa in relazione del mondo greco con quello indiano seppur paia evidente che questi due mondi, in un modo o nell’altro, si siano incontrati e abbiano tratto beneficio gli uni dagli altri. Tuttavia se si riuscissero a consolidare le basi di questo rapporto su ciò che unisce piuttosto su ciò che separa, avremmo sicuramente l’opportunità di guardare da una diversa prospettiva tanto la storia del pensiero Occidentale quanto quella del pensiero Orientale.


Note:

[1] Cfr. Heidegger, Sull’essenza della verità, Armando, Roma 2019.

[2] Platone, Fedro, 247C.

[3] Platone, Repubblica VII, 515A.

[4] Platone, Repubblica VII, 516A. 

[5] Cfr. Vegetti (a cura di), La Repubblica, BUR, Milano 2006, p. 842.

[6] Kerényi, Dioniso, Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992, p. 17.

[7] Platone, Repubblica VII, 600B.

[8] Cfr. G. Dumézil, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, Il Cerchio, Rimini 2003.

[9] Bṛhadāranyaka Upaniṣad, V, 5, 2.   

[10]  Chāndogya Upaniṣad, III, 19, 1.  

[11] Bṛhadāranyaka Upaniṣad, IV, 4, 10.

[12] Taittirīya Upaniṣad, I, 9.  

[13] Māṇḍūkya Upaniṣad, I, 1, 4.  

[14] Ibidem, I, I, 6.

[15] Platone, Repubblica VII, 517B.


Bibliografia:

Bṛhadāranyaka Upaniṣad.

Chāndogya Upaniṣad.

Dumézil, Georges, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, Il Cerchio, Rimini 2003.

Heidegger, Martin, Sull’essenza della verità, Armando, Roma 2019.

Inge, William, The Platonic Tradition in the English Religious Thought, in S. Radhakrisnan, Religioni orientali e pensiero occidentale, Bompiani, Milano 1966.

Māṇḍūkya Upaniṣad.

Kerényi, Karol, Dioniso, Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992.

Platone, Fedro.

Platone, Repubblica.

Radhakrisnan, Sarvepalli, Religioni orientali e pensiero occidentale, Bompiani, Milano 1966.

Reale, Giovanni (a cura di) Platone, Repubblica, Bompiani, Milano 2000.

Taittirīya Upaniṣad.

Vegetti, Mario (a cura di), Platone, Repubblica, BUR, Milano 2006.

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